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INTERVISTA A FERRUCCIO DENDENA
(CON ALCUNI INTERVENTI DI PAOLO SCHIAVONE) - 24 GENNAIO 2000

C'è però da dire che nel frattempo i movimenti che si sono espressi negli anni '80 non avevano alle spalle un ragionamento politico e teorico proprio, ma coagulavano sostanzialmente tutto l'esistente, per cui anche i rimasugli delle vecchie esperienze m-l, compagni che venivano più propriamente dall'esperienza dell'Autonomia eccetera. Tutto questo componeva il movimento autonomo degli anni '80. Sotto il profilo del ragionamento teorico magari alcuni soggettivamente l'avevano, ma collettivamente mai era stato discusso: questo è l'altro grande handicap anche dal punto di vista della crescita e della costruzione di nuova soggettività politica, che a Milano non ha funzionato molto. C'è stato quasi il meccanismo del produci-consuma-crepa, nel senso che arrivi, sei disponibile a fare un milione di cose, dopo di che ti esaurisci e te ne vai: questo è stato il meccanismo classico della militanza a Milano negli anni '80 e ,se si vuole, anche negli anni '90 non è che sia cambiato molto. Per cui il problema era anche quello che non esisteva un ragionamento di carattere teorico e politico comune; il tentativo che è stato fatto, oltre ad un discorso di lacerazioni e di personalismi, si è innestato dentro alla mancanza di questo tipo di substrato e di humus comune. Quindi era ancora più difficile mettere insieme soggettività a Milano e provare a costruire un punto di vista comune. Tant'è che una parte del ragionamento di un percorso di cui Ferruccio raccontava si è sviluppata anche dentro al centro sociale Leoncavallo, con una battaglia politica feroce al suo interno su quali dovessero esserne le sorti dopo lo sgombero dell'89, cioè su quale doveva essere il ruolo che poteva ricoprire un luogo come quel centro sociale con tutta l'importanza e l'attenzione massmediatica che aveva, con tutto il potere comunicativo che ha avuto il Leoncavallo dall'89 fino all'anno scorso e che in parte ha ancora adesso, anche se secondo me è usato malissimo. Si pensi all'aspetto simbolico: dopo l'89 nascono cento centri sociali in tutta Italia. Dunque è stata fatta una battaglia sulle sorti, magari poi entreremo anche nel merito di quali erano le differenze; e lì si scontrarono anche delle diversità di impostazione politica.

FERRUCCIO: Ricordo che ancora alla fine degli anni '80 c'era (e la cosa mi aveva davvero sgomentato) l'identificazione dei vecchi militanti, da parte anche dei nuovi soggetti, con l'appartenenza ad un disegno politico del passato. Quindi io che non ho mai fatto politica a Milano perché avevo la responsabilità politica altrove (nelle province di Varese e di Como), ero identificato come la ripresa del disegno politico di Rosso a Milano. Credo che fosse davvero una cosa da casa di cura, da fenomeni di psicosi di massa. Per cui ero il dirigente di Rosso che, insieme ai compagni più giovani comunque dell'area dell'Autonomia, rilanciava il progetto politico di Rosso. Io dicevo: "Ma scusate, dov'è quel progetto? L'abbiamo chiuso con gli anni di galera, con la fine di un'esperienza politica". Gli odi che c'erano tra i gruppi politici li ho ritrovati ancora, anche se non ai livelli del passato, a produrre ostacolo al dibattito politico. Lo stigma dello Stato paradossalmente si accompagnava allo stigma dentro al movimento, per cui c'era il marchio che veniva fuori ancora. Perché alla fine si trattava di un marchio negativo, quello di un'organizzazione politica che si ripresentava con i suoi dirigenti a giocare la carta della direzione del movimento. Mentre invece il metodo che si stava applicando in quegli anni era veramente di confronto a tutto campo, tutto veniva rimesso in discussione. Anzi, mi sembra addirittura che a noi sia stato rimproverato di essere solo tatticamente così aperti, ma in realtà di avere un disegno politico ben preciso. Ricordo che anche nelle polemiche fuori dai momenti ufficiali del dibattito politico io dicevo: "Quando un compagno fa un ragionamento che ha un inizio e ha una fine, non potete sempre pensare che abbia un disegno politico strumentale alle spalle: tenta di costruire delle riflessioni che abbiano una continuità".
Eppure non c'è stato niente da fare o, meglio, diciamo la verità: tutto è possibile quando la determinazione soggettiva è adeguata alla situazione. Da questo punto di vista io credo ancora molto nel ruolo della soggettività e nella sua determinazione. Allora era necessario che compagni, me compreso, facessero una scelta precisa di collocazione e dicessero: "Non vengo a Milano a svolgere un ruolo interamente soggettivo, quindi di crescita collettiva insieme ad altri compagni e di battaglia dentro i percorsi della soggettività; vengo a Milano a fare politica". Questo voleva dire anche fare una scelta di vita, abbandonare i propri territori e giocare le carte della ripresa interamente sulle metropoli, ma a quel punto esponendosi anche pubblicamente, nel lavoro politico quotidiano e quindi nei momenti in cui si decideva che cosa fare sulla città. Se questa cosa fosse stata fatta da parte mia e anche da parte di altri compagni, oggi potremmo dire che abbiamo giocato o meno tutte le carte soggettive che si potevano giocare. Ma così non è stato, questo va riconosciuto.

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