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INTERVISTA A FERRUCCIO DENDENA - 10 GENNAIO 2000

Mi ricordo che nel '78 noi eravamo in piazza il giorno del rapimento Moro a distribuire il volantino in cui prendevamo posizione politica sul rapimento, ma intuivamo che stava cambiando qualcosa, che gli spazi si stavano chiudendo e che lo Stato stava cominciando a rispondere nella maniera più forte che gli era possibile: ripeto, su quel terreno là. Lo Stato non si misurava con un movimento di cui aveva paura perché era armato, aveva paura per le sue dimensioni e per la sua alterità e radicalità forti. La sfida sul piano politico avrebbe dovuto essere molto alta e misurarsi proprio sulle proposte che nei territori venivano fuori e lì vincere o perdere. Il problema è che questa situazione era colpa anche delle forzature delle organizzazioni combattenti e consentì allo Stato di avere facile gioco nel porre e legittimare la battaglia come una battaglia militare. Non ci fu, se non marginalmente, opposizione a questo tipo di scelte nell'area del garantismo. E devo dire che dal nostro punto di vista tutte le lamentele pseudo o anche non pseudo garantiste che venivano dal movimento erano inutili: noi dovevamo riconoscere che lo Stato sul terreno che ha scelto ha saputo muoversi in maniera adeguata e ha fatto il suo mestiere, ha detto: "Adesso io metto in campo una serie di strumentazioni per liquidare la questione". E lo ha fatto. Perché 5.000 detenuti politici che avessero detto in quella fase alta di repressione e di debolezza del movimento: "In carcere adesso facciamo una sorta di assemblea tutti i 5.000, ci mettiamo uno, due, tre mesi e mettiamo su una piattaforma", buttavano per aria tutto. Innanzitutto il sistema carcerario, perché i cicli di lotte nati insieme a noi all'interno delle carceri erano per lo Stato un disastro, non solo sul terreno della rivolta ma anche su quello dell'organizzazione di massa: noi abbiamo organizzato in carcere i più importanti movimenti di lotta anche dei detenuti comuni. Ma anche lì la fase della repressione, che poteva diventare un momento di contro-offensiva nostra, che addirittura partiva dal carcere per rilanciare discorsi di movimento all'esterno, ha fatto i conti con la fragilità soggettiva del movimento e quindi una soggettività politica in formazione presuntuosa, frettolosa, in parte consistente lotta-armatista. Teniamo conto che dei 5.000 detenuti politici quelli che sono andati in galera come autonomi erano pochissimi, anche per reati marginali; erano già quasi tutti entrati o gravitanti intorno alle aree combattenti. Lì ci fu il crollo della soggettività: un crollo facilissimamente prevedibile. Forse la vera geniale mossa dello Stato fu non tanto quella di essere brutale nell'incarcerare, ma quella di sapere che le sbarre avrebbero fatto il lavoro politico della desolidarizzazione, dello sfascio di un tessuto, della dimostrazione dell'inconsistenza di una determinazione soggettiva di massa e quindi di un reale corpo di avanguardie.


Secondo te lo Stato aveva questa consapevolezza?

Secondo me dietro allo Stato c'era questa sorta di consapevolezza, che poi si è perfezionata negli strumenti adottati, nelle leggi sulla dissociazione, sul pentitismo eccetera; non dimentichiamo che le grandi ondate repressive sono avvenute quando già il fenomeno del pentitismo aveva una diffusione enorme, avevano capito che avrebbe funzionato così ed in effetti ha funzionato in questo modo. La rapidità con cui si è passati dalle posizioni combattenti, quindi di intransigenza durissima, alle posizioni di arrendevolezza totale, quindi di individualismo puro nel rapporto con lo Stato, per noi che lo abbiamo visto con i nostri occhi e vissuto giorno per giorno nelle celle, è stata una cosa che ha dell'incredibile. Noi ci siamo ritrovati nel giro di un paio di anni dall'essere come al solito autonomi e quindi "estrema destra" del movimento rivoluzionario all'esserne "l'estrema sinistra", senza muoverci di un passo nelle nostre posizioni. Siamo stati additati dalla maggioranza dei detenuti politici come quelli che avevano il privilegio di non avere sulle spalle rischi di condanne alte, cosa che non fu così per tutti, ma in realtà è vero che i militanti dell'Autonomia non avevano omicidi, non rischiavano ergastoli e infatti non abbiamo scontato pene elevate. Eravamo dei privilegiati secondo l'area combattente, perché secondo loro se anche noi avessimo dovuto fare i conti con gli ergastoli sicuramente non avremmo tentato battaglie di movimento utopistiche. Per cui ci siamo trovati ad essere estremisti di sinistra all'interno del carcere, e a scontare naturalmente tutta la pena; mentre invece vedevamo giorno dopo giorno i combattenti uscire a frotte, anche chi aveva omicidi, perché o si pentivano o si dissociavano, comunque uscivano con una velocità direttamente proporzionale alla velocità con cui cambiavano posizione nei confronti della magistratura. La magistratura era un pò il fulcro di tutta l'operazione politica, era essa stessa soggetto politico che gestiva le cose, naturalmente legittimandosi con il parlamento, con il governo, soprattutto con il PCI come forza di governo senza ministeri.

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