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INTERVISTA A FERRUCCIO DENDENA - 10 GENNAIO 2000

Credo che le esperienze di Trani, dove c'erano molti dirigenti dell'Autonomia (lo stesso Toni Negri era detenuto lì durante la rivolta e fu anche lui massacrato), furono episodi che segnarono profondamente le decisioni di quei compagni: vissero sulla loro pelle la sensazione di essere chiusi dentro ad una maglia strettissima tra le organizzazioni combattenti da una parte e magistratura, forze di polizia, la parte dello Stato più dura dall'altra. Il modo con cui loro pensarono di venirne fuori noi non lo condividemmo. Ma noi per nostra fortuna non ci siamo mai trovati a dover fare i conti con questi scenari, siamo sempre riusciti in un modo o nell'altro a farci sentire e a dire la nostra anche con i brigatisti, con i piellini, addirittura ad essere egemoni noi all'interno dei raggi politici. Ma è stato un caso, non un merito della nostra soggettività, perché anche loro erano molto bravi ma avevano a che fare nei carceri speciali con i nuclei forti anche dal punto di vista soggettivo delle organizzazioni combattenti, e con spazi di agibilità ridotti allo zero. Lì veramente appena alzavi un dito ti arrivava una martellata, questo era il carcere speciale. E quindi gli spazi anche per una battaglia diversa erano davvero esigui. A quel punto loro hanno detto: "O facciamo un'operazione forte di rottura e diciamo allo Stato che qui c'è qualcuno disposto a parlare e a uscire fuori dal silenzio irriducibile, oppure non ce la facciamo, non ne usciamo più". Noi non eravamo d'accordo e dicevamo: "E' vero che la vostra situazione è pesante, ma la nostra meno, e quella parte di movimento che c'è fuori può fare qualcosa". Loro non ci credevano e in questo avevano ragione, indipendentemente dal fatto che fosse o no corretto il loro percorso. Avevano ragione nello scriverci: "Noi non crediamo alle vostre parole quando dite che il movimento residuo fuori e la vostra maggiore agibilità nelle carceri non speciali e in quelle metropolitane può consentire di rompere questo accerchiamento: o c'è la forza reale, visibile, che si gioca in campo aperto, oppure se è solo rappresentazione, quindi è solamente urla, ci scambieranno e ci appiattiranno comunque sistematicamente sul problema dell'irriducibilismo e basta. Che ci sia una manifestazione fuori o una rivolta in un carcere, tutto verrà appiattito sullo stesso paradigma". Questa era la riflessione che facevano loro. Devo dire che noi non siamo stati capaci di creare un'alternativa, ne abbiamo tentate di tutti i colori, dagli scioperi della fame a lotte che abbiamo pagato anche noi con la repressione dentro alle galere, a tentativi all'esterno di fare delle iniziative di massa sul carcere, a Milano ad esempio. E' vero che tutto è scivolato molto rapidamente, ma se cancellassimo l'episodio del documento dei 51, odiati dalle formazioni combattenti, il processo degenerativo che ha vissuto l'organizzazione politica sarebbe accaduto né più né meno. Quell'episodio ha fatto polemizzare molto intanto perché è avvenuto in una fase in cui la valanga della dissociazione non era ancora partita, e dire che quello è stato il primo granello della valanga è una falsità perché, ripeto, erano davvero isolati ma non politicamente, erano isolati perché non c'entravano niente con la maggior parte dei detenuti politici che erano combattenti. E' bastato che i dirigenti delle organizzazioni combattenti dicessero: "Adesso ci dissociamo" ("Sarà che avete nella testa quel maledetto muro", i vari documenti di Segio, dei brigatisti eccetera) e lì hanno aperto le saracinesche, hanno aperto la diga: perché venivano da una legittimazione interna alle formazioni combattenti sul terreno della dissociazione. Ma non era un terreno politico. Quello era il terreno esistenziale: "Adesso ci piacciono i fiori, adesso vogliamo tornare dalla mamma, adesso usciamo da un irriducibilismo mentale e vogliamoci bene: non abbiamo più niente da difendere del nostro passato, perché mai dovremmo tacere di fronte a uno Stato che ci dice se parlate uscite, quando il nostro parlare è inutile a salvare la nostra dignità, un movimento, lo scontro di classe che viaggia ormai su altri percorsi? Noi siamo stati soggettività separata, noi non siamo riconosciuti dalle masse come parte loro, perché mai dovremmo preoccuparci di costituire cattivo esempio o addirittura fermarci su categorie morali ed etiche e passare la nostra vita dentro a un carcere? Noi che eravamo cattivi perché volevamo fare la rivoluzione, adesso sconfitti vogliamo fare figli, andare in campagna, rientrare in famiglia, occuparci del sociale, tossicodipendenti, comunità. Quindi, la liberazione dalla nostra memoria, anche tradotta in termini giudiziari, quindi i memoriali, è un abbandono non dannoso, anzi ci fa andare a casa prima. Perché questo Stato è talmente stupido che ci ha identificato semplicemente come incomunicanti, come terroristi soprattutto per la nostra indisponibilità ad accettare la dialettica democratica: adesso noi gli diciamo che va bene, ci stiamo al gioco, ne accettiamo le regole, a partire dal fatto che riconosciamo uno per uno tutti i nostri reati, tenendo conto che il pentitismo aveva già fatto emergere tutto dal punto di vista criminale, semplicemente confermiamo".

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