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INTERVISTA A FERRUCCIO DENDENA - 10 GENNAIO 2000

Negli anni '80 da dentro al carcere, dopo il documento dei 51, di fronte alle incolmabili differenze politiche rispetto ai militanti delle organizzazioni combattenti, e di fronte al vuoto politico e sociale che si era venuto a creare fuori dal carcere, qual era la situazione e l'analisi politica tua e dei compagni dell'Autonomia detenuti?

Secondo me il documento dei 51 di Rebibbia era sicuramente un documento politico, a cui noi non abbiamo aderito per diverse ragioni. Puntavamo di più sostanzialmente a ricomporre le lacerazioni che c'erano nel corpo dei detenuti politici, e forse eravamo degli illusi: diciamo che i fatti ci hanno smentito. I fatti hanno rivelato anche l'eccessiva ambizione di quel documento in quanto si poneva come elemento di dialettica politica tra i detenuti, la parte di detenuti che poteva essere raccolta intorno a quel documento, e una parte dello Stato. Quel documento non si rivolgeva allo Stato ma a quella parte dello Stato che era minoritaria in quel momento, ovvero l'area garantista. E diceva: "Tu come soggetto collettivo dentro ai meccanismi dello Stato vieni fuori, prendi posizione e cambia lo scenario della battaglia politica: non più quella basata unicamente sulla tua capacità di giocare la forza (quindi soprattutto l'arena del più forte dal punto di vista militare) ma giochi la carta della politica, quindi insieme a me soggetto detenuto apri un confronto, che non è fondato sul fatto se mi pento, se faccio arrestare, se mi dissocio dalla mia esperienza politica; ma se tu dentro lo Stato fai una battaglia perché ci sia una dissociazione dalla logica emergenziale dell'altra parte del tuo corpo, dunque un abbandono della legislazione d'emergenza, leggi speciali, pratica repressiva, criminalizzazione, e apri invece un confronto politico sulla storia di questo movimento e sugli errori fatti da entrambe le parti. Ciò su un terreno su cui noi offriamo la chiusura di un ciclo politico". Questa è la cosa che offriva quel documento: la chiusura di un ciclo politico che, al di là degli opportunismi, era davvero una chiusura vera di un ciclo di lotte. Loro offrivano quella e quindi l'irreversibilità di un processo di chiusura di un ciclo politico. Essi sostenevano: "In cambio però non ci fai dire che le contraddizioni sono risolte con la sconfitta che ci hai imposto, ci lasci il diritto di dire che la battaglia politica comunque continua a restare legittima pur in una fase di chiusura di un ciclo di conflitto altissimo. In altro caso l'unico terreno che ci resta è quello di andare avanti a fare la guerra, ma è una guerra in cui il mondo esterno non c'entra più, è fra me e te. In cui il rischio di annientamento per noi è alto ma, attenzione, non ne uscirai fuori bene neanche tu". Non dimentichiamo che in quegli anni noi siamo finiti sul libro nero per esempio di Amnesty International perché eravamo un paese occidentale che somigliava di più al Sud America dal punto di vista del governo delle contraddizioni. E quindi un ciclo continuo di rivolte, di scontri anche sanguinosi, avrebbero comunque provocato dei problemi grossi anche allo Stato. E allora quel documento diceva: "Voi che siete una parte dello Stato che a questo gioco non ci sta, fatevi sentire, pronunciatevi e noi saremo interlocutori che rispondono". Era un disegno ambizioso, e forse è stata questa la nostra opposizione più grossa: l'ambizione ancora da ceto politico, di riuscire in quel modo a giocare un ruolo riconosciuto dallo Stato, sia pure da una parte dello Stato (quella garantista). C'era davvero una situazione in cui dentro alle carceri qualsiasi possibilità di organizzare scontro che non fosse dentro la direzione politica delle organizzazioni combattenti era impossibile, se non nelle carceri come Milano. A San Vittore ci fu nei primi anni '80 un ciclo di lotte molto forte e intenso che culminò con una repressione micidiale ma di tutti i detenuti: veramente fu un massacro. Bisognerebbe raccontarla davvero in un libro perché fu un'esperienza di vera contrapposizione alla logica della rivolta: io ho raccolto dei materiali, una cosa che voglio fare quando avrò un pò di tempo è raccontare quella storia davvero stupenda di lotta di massa dentro al carcere in cui realmente il problema della qualità della vita, dei bisogni materiali della gente, era diventata una piattaforma di lotta, c'erano i comuni che dall'ultimo raggio riuscivano a raggiungere il raggio dei politici e viceversa, c'era veramente stata una conquista di spazi di agibilità in quel carcere. Tanto è vero che per reprimerla arrivarono centinaia tra agenti e carabinieri. Ed è l'unico esempio di vera contrapposizione alla logica delle rivolte. E' vero invece che nei carceri speciali, dove c'erano tra i detenuti politici anche i nostri, l'egemonia brigatista era totale ed assoluta, e quindi la logica della rivolta diretta da loro era l'unica che c'era.

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