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INTERVISTA A FERRUCCIO DENDENA - 10 GENNAIO 2000

Ma la cosa che comunque ci mancava e mancava anche ai veneti, che erano molto più forti di noi ma dentro ad una simile conformazione territoriale, era l'esternità ai luoghi delle grandi contraddizioni, non c'è niente da fare. Un tessuto di soggettività politica come il nostro in piccolo e come il Veneto in grosso trasferito a Milano dal punto di vista del metodo del lavoro politico probabilmente avrebbe potuto consentire una battaglia di egemonia sul movimento in generale metropolitano, perché c'era un soggetto militante numeroso, preparato, abituato al lavoro di massa, radicato nel territorio, ma lontano dai luoghi importanti della contraddizione, quindi lontano dalla metropoli. E non siamo mai riusciti a condizionarla, e la sconfitta di Milano è stata anche la nostra sconfitta, e la sconfitta nelle grandi città è stata la sconfitta di tutti. La nostra è stata la tenuta dentro ad una trincea dove non c'è stato il massacro, perché non ci sono state le epidemie di arresti, ma non c'è stata neanche la capacità dei nostri militanti di sostituirci, e questo la dice lunga sul problema della maturità del movimento. Noi avevamo collettivi in cui cinque o dieci persone aprivano la bocca a tutti, cioè c'era una partecipazione davvero pretesa, e anche ovviamente voluta, del gruppo dirigente. La decapitazione del nostro movimento della provincia di Varese e di Como non è stata superata dai nostri quadri, che non sono stati in grado di ricostruire un gruppo dirigente, e non era nemmeno cosa facile; quindi, gradualmente anche il nostro movimento all'esterno si è disgregato. Non c'era nessuno che impedisse ai nostri compagni con la repressione di fare politica; nonostante anche i nostri sforzi all'interno del carcere di partecipare comunque all'elaborazione teorica, alla definizione del programma, del lavoro politico e via dicendo, c'è stata la disgregazione. Il fatto di non esserci e di diventare causa di processi disgregativi la dice lunga sulla fragilità enorme anche della nostra frazione di movimento organizzato. Perché era un movimento organizzato: noi partecipavamo a campagne contro gli straordinari per settimane intere, ogni sabato mattina tutti i collettivi della provincia erano in quel territorio che si stabiliva a bloccare gli straordinari. Erano campagne organizzate, quindi, c'era un tentativo di prefigurare un modo di lavorare organizzato, ma che ruotava intorno alla tenuta di un gruppo dirigente di quattro o cinque compagni, che nel processo di formazione di alta soggettività politica non hanno fatto in tempo ad essere sostituiti. E' stata quindi una fine per immaturità e non per repressione. Questo non vuol dire che il clima generale non abbia influito anche qui, fare lavoro politico era davvero difficile in quegli anni, c'era l'appiattimento sulla figura del terrorista multimediato; ma gli spazi comunque c'erano lo stesso se ci fosse stata intelligenza collettiva capace di sostenere le difficoltà. Non c'è stata perché non c'era, non puoi dire ad un bambino di guidare l'automobile, già facevamo fatica noi.


C'era secondo te la consapevolezza che lo scontro si stava alzando? Secondo te il fenomeno della dissociazione e del pentitismo può derivare anche da una mancanza di consapevolezza?

Quelli che erano dentro avevano la consapevolezza che la guerra separata di un soggetto militare con un altro soggetto che era lo Stato era stata vinta da questo, e la legittimità nelle masse, che si sarebbe conquistata con la vittoria politica, non c'era più. Questo ha fatto sentire tutti i più giovani sbandati, completamente isolati. Chi è rimasto fuori invece secondo me non ha avuto tanto il terrore della repressione, perché le nostre figure nei collettivi erano riconosciute, i nostri compagni erano non dico certi ma quasi certi che non sarebbero finiti nei guai con il nostro arresto; ma ci fu la paura di dovere fare i conti da soli con lo scontro di cui c'era la consapevolezza che era alto e che avrebbero dovuto gestirselo da soli. La consapevolezza non tanto che avrebbero potuto finire in galera, anche se c'era anche questa paura, ma la cosa determinante era la capacità di garantire la continuità di un intervento politico ragionato, pianificato, programmato: su questa cosa qui c'è stato il vero sbandamento, la vera paura è stata una paura politica, di ritrovarsi davanti i sindacalisti e non saperci fare i conti, di trovarsi davanti il sindaco comunista del paese e non sapere cosa dirgli. Secondo me è stata una paura eccessiva, perché i nostri compagni giovani non erano privi di esperienza, non si poteva dire che il gruppo dirigente fosse l'unica soggettività che si esponeva nella battaglia pubblica, c'erano anzi studenti ed operai capaci di gestirsi le loro situazioni interne. E' mancato proprio il momento di coesione organizzativa, la capacità cioè di riuscire a ricompattare una struttura che desse garanzie della direzione politica e quindi di dover dare risposte non solamente alla contingenza quotidiana ma alle questioni forti che si venivano ad affrontare, compreso il problema della lotta armata, compreso il problema del carcere. I nostri compagni hanno fatto veramente delle iniziative pubbliche sulla repressione pesanti, coraggiose, davvero forti. Quindi, il problema non era tanto quello della paura; la vera paura è stata quella di non essere in grado di sostenere un ruolo di direzione politica che in quel momento era più che mai indispensabile.

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