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INTERVISTA A MASSIMO DE ANGELIS - 1 LUGLIO 2001


A Londra, molte organizzazioni della sinistra socialista extraparlamentare hanno condannato l'attacco al World Trade Center come "la tattica sbagliata"! In pratica, per loro, l'attacco al World Trade Center, l'uccisione di un numero imprecisato di persone, imprecisato perché tra di essi ci sono parecchi immigrati illegali assunti dalle imprese di pulizia, e' una risposta sbagliata alla domanda "che fare?". A me questa sembra una cosa molto pericolosa. Se uno pensa che lo "sbaglio" dell'uccisione indiscriminata di migliaia di persone a sangue freddo, di operai, impiegati, spazzini, e via dicendo consiste nell'essere un errore "tattico", allora crede negli stessi fini di chi la perpetrato. No, io non credo di poter condividere gli stessi fini di chi usa il prossimo come carne da macello.
Prima di domandarci "che fare?" bisognerebbe chiederci: "per che cosa siamo?." Si commette spesso l'errore di credere che la risposta a questa domanda sia unicamente una risposta di valori, una risposta etica, una risposta in fondo facile. Siamo per il "socialismo", per la "libertà", per una "società giusta", siamo per il "comunismo". In un certo senso è così. Ma solo fino a un certo punto, perché poi magari si danno centomila significati diversi a queste parole. Il fatto è che per concretizzarsi nella pratica della nostra interazione sociale, i valori che ci muovono come individui devono essere capaci di lasciarsi inquinare dai valori di altri. Alla domanda del "per che cosa siamo?" non bisognerebbe mai rispondere "questa o quella società", ma molto concretamente questo o quel rapporto sociale, questo o quel rapporto con l'altro.
Per tornare alla vostra domanda, credo per questa impostazione del problema politico oggi bisogna dar credito non solo agli zapatisti, ma a tutta una cultura indigena basata su forme comunitarie di democrazia diretta, e di un rapporto diverso con la natura. Si pensi per esempio al lavoro di Gustavo Esteva, un sociologo messicano che si è ritirato nell'Oaka a lavorare con le comunità indigene e a porsi la questione dei commons. Ma in un certo senso, molte delle voci che vengono da terzo mondo ci aiutano a impostare il discorso del "per cosa siamo?": si prenda Vandana Shiva, la quale ha avuto un'influenza enorme, e con lei tutte le varie tendenze ambientaliste, ecofemministe ecc. Sicuramente, bisogna stare anche attenti all'eccessivo romanticismo di una lettura troppo letterale di questi lavori, c'è il rischio di idealizzazione di una società tribale e le sue forme oppressive. Io vedo questi lavori che vengono dal sud e soprattutto dal mondo indigeno come un grande contributo al dibattito sulle alternative perché ci aiutano a recuperare una sensibilità rispetto all'"altro", rispetto a quello che chiamiamo "natura" e anche a una dimensione sacra e magica dell'uomo, una dimensione quest'ultima che l'illuminismo ha represso per permetterne l'appropriazione alle categorie feticiste del capitale. Sta a noi imparare, e trasformare questi contributi in forme compatibili con le nostre aspirazioni costitutive per un mondo diverso.


Negli ultimi mesi, benché il libro di Negri ed Hardt non sia stato tradotto in italiano, il termine "Impero" è entrato nel lessico comune di un certo pensiero critico, che spesso diventa vulgata comune piuttosto povera di sostanza. Tu che hai avuto modo di leggerlo in inglese, ci puoi fare un'analisi critica di "Empire"?

Abbozzo qui brevemente alcuni spunti critici. Un'analisi critica di "Empire" richiederebbe chiaramente un lavoro assai più approfondito di un'intervista. Per impero Hardt e Negri intendono un regime, un ordine che non ha confini, e che governa sul mondo intero. Una delle caratteristiche principali di questo impero è che non esiste più la dimensione del "fuori", dell'outside. Al contrario del concetto di imperialismo che indica un processo in formazione, una guerra di colonizzazione, il concetto di impero non lascia spazio ad una dimensione colonizzabile esterna ad esso.

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