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INTERVISTA A MASSIMO DE ANGELIS - 1 LUGLIO 2001


Hayek è il paladino neoliberista del mercato. Si dice che Margaret Thatcher tenesse una copia del suo "Road to Serfdom" sul comodino. Hayek vedeva il mercato come meccanismo di coordinamento dell'attività umana, un meccanismo che proprio in virtù del fatto di essere astratto permetteva di garantire la massima libertà individuale. E' chiaro che si tratta qui della libertà riferita a individui privati, separati gli uni dagli altri. Non si parla qui di libertà di individui sociali, che riconoscono la propria socialità comune. Il mercato secondo lui creava la possibilità di coordinare attraverso un meccanismo oggettivo e impersonale l'attività umana, non solo garantendo il massimo della libertà individuale, ma facendo di questa libertà individuale il mezzo stesso della riproduzione del tutto. Questa idea di Hayek si scagliava contro tutti i tipi di "stati piano", dai socialismi "reali" al keynesianesimo occidentale. Tutti i tipi meno uno, quello di un intervento statale volto alla promozione e gestione del mercato!
Se si combina questa analisi di Hayek con l'approccio di Foucault, la sua analisi del panopticon di Bentham, si scopre come il mercato di Hayek sia un meccanismo disciplinare che crea una norma di comportamento e dei valori conseguenti ai quali noi ci adattiamo. Attraverso l'interazione del mercato e quindi attraverso il meccanismo di punizione e premi del mercato, che è appunto il meccanismo disciplinare, noi assorbiamo e interiorizziamo la norma del mercato e, detta in parole povere, la interiorizziamo come unico modello di interazione sociale possibile. Il discorso è un po' più complesso, ma la sostanza è questa.
Io non riesco a capire perché negli ultimi anni, Foucault sia in un certo senso stato accantonato, invece che criticamente assorbito proprio quando il meccanismo disciplinare del mercato diventa così incredibilmente centrale. Dalla società' disciplinare, nelle analisi di molti teorici, a partire da Deleuze per finire a Negri e Hardt, si è passati alla società di controllo. E' in un certo senso una vecchia abitudine della teoria critica quella di buttare via il bambino con l'acqua sporca.
Se si va a studiare la cibernetica si scopre che in un meccanismo di controllo dei flussi, i comportamenti degli interruttori che permettono la regolazione di questi flussi all'interno di un sistema complesso, sono specificati sempre da dati parametri. Per esempio, il meccanismo di controllo del sistema del traffico automobilistico cittadino si basa sul fatto che quando vediamo il rosso ci fermiamo. E' questo parametro, questa norma o regola di comportamento che abbiamo interiorizzato, che permette di far funzionare il meccanismo di controllo generale. I meccanismi disciplinari creano norme. La disciplina, diceva Foucault, e' la fabbrica dell'etica. Ma allo stesso tempo, l'insieme delle interazioni sociali strutturate da queste norme ci forniscono il sistema (o come dovrebbe essere strutturato il sistema). Allora, gli ultimi venti o trent'anni non hanno visto il passaggio dalla società disciplinare a quella di controllo. Semmai, e cosa assai più interessante, si è visto il passaggio a meccanismi disciplinari e sistemi di controllo diversi. Il nostro lavoro di ricerca deve proprio contribuire a capire il come di questa diversità, un come sempre legato alle dinamiche della soggettività. Ma deve anche gettare luce su come questa diversità riproduce il "sempre uguale" delle società capitalistiche: lo sfruttamento, l'alienazione, l'oppressione. Rispetto a questo problema quindi, avevamo bisogno di Deleuze non tanto per sentirci dire che siamo ora nella società di controllo, ma che l'analisi della società disciplinare di Foucault deve essere integrata a un'analisi di meccanismi di controllo. Sta a noi invece scoprire nei dettagli questi meccanismi, e mettere in rilievo sia i meccanismi disciplinari che le finalità generali di controllo.


Allora focalizziamo l'attenzione sugli autori più interessanti per quello che tu hai individuato come il nodo centrale, ossia il che fare.


La domanda del "che fare?" ha sempre rappresentato il trampolino dal quale lanciare un dibattito concreto sull'intervento politico. C'è una concretezza meravigliosa dietro questa domanda. Però io penso che, la domanda stessa del che fare sia mal posta, perché presuppone sempre un'idea precisa dell'obiettivo. Il "che fare?" pone una questione di metodo per raggiungere un certo fine. E' per questo che nei lavori teorici o di rassegne critiche socio-economiche esso appare quasi sempre come appendice, come capitolo conclusivo, come "conseguenza" di un lavoro teorico autosufficiente che astrae da questa domanda. Se ci si pensa veramente però, vengono i brividi.

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