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INTERVISTA A MASSIMO DE ANGELIS - 1 LUGLIO 2001


Al di là di che cosa poi facevi, il fatto vero è che credevi di avere un potere della madonna, che le tue azioni avevano un impatto, però spesso non sapevi cosa fartene perché eri magari anche in quell'età che forse non interessava cosa fare di quel potere lì, forse era quell'età nella quale avevamo veramente bisogno di esplorare tutta una serie di possibilità, di rompere con tutto ciò che era ammissibile e che ci veniva dato dall'esterno, e sperimentare soprattutto con diverse cose, diverse ammissibilità. "Voi ci dite che questo è ammissibile? Adesso vi facciamo vedere che un'altra cosa è ammissibile!". E questa rottura era un primo passo del costituire qualcosa di nuovo, necessario ma non è assolutamente sufficiente. Quello che ci mancava era un rapporto con l'altra parte della libertà. Hegel definisce la libertà come autodeterminazione. Secondo me questa dimensione è cruciale. L'auto-determina-azione è essenzialmente la libertà di darsi dei limiti. Noi spesso conoscevamo solo la libertà di rompere con i limiti che ci venivano posti dall'esterno. Per noi la libertà era questa grande possibilità di uscire, di fare, di rompere i codici, e chiaramente questo spirito è il benvenuto. Ma avevamo un rapporto assai più difficile e ambiguo con l'altra dimensione. Certo, facevamo cose, producevamo radio, giornali, comunicazione, e quindi ci davamo dei limiti, ogni atto di produzione corrisponde al porre dei limiti alla materia e all'attività umana. Ma come ho detto, il meccanismo che definiva questi limiti, questa produzione, non era un meccanismo completamente comunitario, riproduceva schemi autoritari, restava insensibile a molte tematiche sollevate per esempio dalle donne.
Negli anni '80 ho studiato all'impazzata, ho fatto Scienze Politiche, ho studiato i testi classici del marxismo, ho studiato economia, sociologia, letteratura, filosofia. La mia reazione al riflusso, al clima oppressivo delle leggi speciali, e alla minaccia della yuppificazione, é stata quella di buttarmi sui libri. Mi sono poi laureato, e un paio d'anni dopo ho vinto una borsa di studio per un corso di dottorato in economia negli Stati Uniti, all'università dello Utah. Sono stati tre anni molto importanti per me, dall'87 al '90.
Nell'88 ho incontrato Harry Cleaver che veniva dalla University of Texas, l'avevamo invitato noi studenti ad una conferenza. La cosa che mi colpì molto di Harry fu una delle cose che mi era mancata di più alla mia formazione negli anni settanta e primi anni ottanta. La sua versione di marxismo riusciva a combinare l'approccio teorico e culturale del marxismo classico e dell'operaismo italiano (lui è un esperto dell'Autonomia italiana, soprattutto l'Autonomist Marxism come lo chiama) con una sensibilità tutta americana per i movimenti radicali americani, che sono appunto molto aperti a quelle che venivano chiamati "single issues": le donne, l'ambiente, la lotta contro il razzismo, e anche i rapporti interpersonali. Questa combinazione gli permetteva di leggere anche il privato come politico, ma non in maniera dogmatica, bacchettona e ideologica, ma organica e molto umana. Harry ha avuto un grande impatto sulla mia crescita politica e teorica, e anche personale e umana. Ma è in fondo tutta la cultura politica americana che si presenta con molto meno sfronzoli rispetto a quella europea, è più diretta e spesso più concreta.
Voglio insistere su questo punto. L'esperienza americana mi ha fatto veramente riflettere sul senso della politica e della ricerca critica. Il problema non è solo teorico e politico. Il problema che si pone per un intellettuale "impegnato" è quello di riuscire a dare un significato concreto al suo lavoro. Il contatto con i "single issues" negli Stati Uniti e lo sforzo di leggerli all'interno di uno schema marxista aperto e non dogmatico, mi ha messo davanti al problema della responsabilità dell'intellettuale, di quello che per professione scrive, fa ricerca, insegna. Ho imparato che quando fai ricerca e scrivi, tu in pratica non stai parlando di cose altre, non stai parlando unicamente di un'oggettività là fuori, anche se spesso i modelli e gli schemi interpretativi usati ti conducono a questo. E' chiaro che poi c'è il capitale, che c'è la caduta di saggio di profitto e tutte quelle robe lì. Ma la sfida sta proprio nel riuscire a mettere insieme tutte queste cose che si presentano nella loro oggettività arida e feroce, insieme alle questioni che hanno un impatto immediato sulla tua vita e su quella dei tuoi interlocutori, qualsiasi essi siano. Dunque, la sfida è riuscire a collegare in qualche modo le questioni del "capitale", del lavoro, dell'accumulazione, delle lotte, dell'economia, con quelle sollevate delle donne, quelle del vissuto, quelle culturali. Il tuo discorso teorico e politico non può rimanere unicamente astratto, non è una semplice analisi di un'oggettività data. Deve in qualche modo cercare di imbastire un rapporto tra la tua soggettività e quella di altri, e leggere in questo quadro l'oggettività là fuori. In fondo, quando Marx parlava di lavoro astratto e di lavoro non pagato, parlava proprio del rapporto che esiste tra l'oggettività del profitto e il vissuto dello sfruttamento, il lavoro alienato.

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