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INTERVISTA A MARIO DALMAVIVA - 19 FEBBRAIO 2001
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Ho le idee abbastanza chiare sulla composizione di classe, soprattutto su questa cesura tra l'operaio professionale e questo operaio-massa; anche lì, i comportamenti operai nel corso degli anni '60 cambiano, perché probabilmente è vero che l'operaio del Sud che arriva a Nord intanto scopre la fabbrica, che è un territorio sconosciuto, e non è che scopre la fabbrica e scopre la lotta il giorno dopo, ne deve scoprire tutti i meccanismi, le forme di collegamento, cioè deve capire che cos'è un salario. Secondo me quello ha impiegato (è del tutto un'idea mia) qualche anno per rendersi conto di dov'era; perché non è che il contadino entra in fabbrica e il giorno dopo sa cos'è la fabbrica, sa cos'è un salario, sa che cosa sono le categorie, sa che cos'è uno sciopero: è un mondo così diverso. Io non vedo nessun tramonto, vedo semplicemente il fatto che questa enorme migrazione di un popolo di proletari dentro la fabbrica ha dei tempi fisiologici. Anche perché non è che lì trova le avanguardie politiche, lì le avanguardie politiche facevano le commissioni operaie, erano da un'altra parte, si preoccupavano dell'operaio qualificato, cioè dei propri compagni di lavoro: quindi, questo è abbandonato assolutamente a se stesso, non ha partito, non ha sindacato, è isolato socialmente, cosa fa? Tenta di capire che cosa succede. Dunque, non mi meraviglia che negli anni '60 avvenga questo accumulo di potenziale esplosivo dentro la fabbrica, ma questo discorso dei comportamenti operai secondo me non è un discorso innato, i comportamenti operai derivano dalla conoscenza che l'operaio ha dell'ambiente fabbrica, se per comportamenti operai intendiamo le forme di lotta, le forme di mediazione, quindi è un in progress.
Romano infatti approfondì da dove venivano i comportamenti soggettivi, collettivi e perfino individuali, antagonisti e non, nella lotta e non, formati dall'esterno o dall'interno. Parlò ad esempio di spontaneità organizzata, il che era una grossa e nuova questione.
Ma tutto questo richiede tempo, perché secondo me anche il formarsi della spontaneità (intesa come comportamenti spontanei di lotta) richiede del tempo, perché questo operaio è come trasferito su Marte. E' una città in cui capisce poco, è preso dalla sopravvivenza. Le mie sono considerazioni, sono tanti anni che discuto poco di queste cose.
Come si configurava Potere Operaio a Torino? Dopo il '69 i poli più forti di PO furono sicuramente altri.
Potere Operaio a Torino si forma quando si forma Potere Operaio nazionale, e rimane sempre una sede debole, probabilmente in parte per incapacità mia che la dirigevo, ma in parte perché sostanzialmente il personale politico di movimento si riconosceva in Lotta Continua. Nella quasi totalità, tranne appunto alcuni "vecchi" che avevano un percorso nelle storie di Quaderni Rossi e via dicendo, il personale politico che si era poi qualificato ed erano stati riconosciuti come dirigenti politici entrano in Lotta Continua. Io non ero in grado di fare altrimenti, non so se ne avevo le capacità, i dirigenti di Potere Operaio di allora erano sicuramente Toni e Franco; per scelta loro o non lo so, non hanno fatto come Adriano che è stato molto bravo e ha effettuato questa cucitura (muovendosi lui da Trento, passando per Milano e arrivando a Torino), di queste che erano avanguardie, cioè serviva forza-lavoro politica, quadri politici e via dicendo. Perciò la storia di Potere Operaio a Torino è proprio una storia minoritaria. Io faccio un'operazione, per quello che riesco a fare, per trovare quadri nuovi sugli studenti-lavoratori di Trento, e lì effettivamente trovo alcuni quadri che rimpolpano un po' la sede di Torino. Dalla scissione di Lotta Continua nasce Potere Operaio e la sede torinese di PO che continua l'intervento; con Lotta Continua comincia un'escalation che poi vista anche questa a posteriori è demenziale, perché, salario noi e salario loro, diventava difficile differenziarsi, loro con questa componente che poi pagava in termini numerici e con una maggiore attenzione secondo me a quelli che erano i comportamenti e le esigenze individuali, e questo pagò sul piano della militanza. Noi invece eravamo tutti asceti della politica, per cui ci ritenevamo un'élite, era questo leninismo mal digerito per cui è meglio essere in pochi ma i migliori, tutte balle, a Torino eravamo proprio molto pochi. Eravamo molto pochi di fronte a una realtà di classe che invece richiedeva un intervento significativo, poi sono convinto che noi più Lotta Continua contassimo ancora ben poco, ma LC metteva i cortei in strada, noi ci abbiamo provato qualche volta e ci abbiamo rinunciato perché, se non riuscivamo a coinvolgere qualche scuola, eravamo proprio in quattro gatti. Però sostanzialmente, rivedendola a posteriori, se penso ai discorsi di concorrenza tra i gruppi, poi nei fatti noi facevamo il non pagamento degli autobus, non paghiamo più i biglietti, non paghiamo più l'affitto, non paghiamo più la luce, abbiamo fatto anche delle lotte significative, Lotta Continua poi tirò fuori "prendiamoci la città" che era semplicemente questa cosa. Nel '69 qui avvenne, e quello fu un dato interessante, una riunione tra i pochi quadri di Potere Operaio torinesi e un gruppo di dirigenti giovanili del PCI, come Magnaghi, che allora occupavano le case a Nichelino, avevano fatto anche loro un'azione eversiva con l'occupazione di case nel comune rosso, e poi entrarono in PO anche loro con un grosso appoggio perché Alberto è un formidabile quadro politico. Però, sempre in pochi eravamo.
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