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INTERVISTA A VALERIO CRUGNOLA - 5 FEBBRAIO 2000

Questa ispirazione la porto ancora con me, penso che sia un elemento costante, anche se non lo frequento più, magari perché i miei interessi si sono spostati altrove: ma se questa evidenza concettuale tornasse fuori in qualche modo ci sarei, perché sicuramente avrebbe per me un grande richiamo. Non sempre però mi sembra di vedere una ricerca in questo senso nell'ambito della politica: in fondo quello che mi ha interessato all'inizio degli anni '70, con la tesi di laurea, l'esperienza di militanza ne Il Manifesto ed il lavoro nel sindacato, ruotava intorno a questo tema, cioè allo stesso tempo l'emancipazione del lavoro e il lavoro come forza emancipatrice. La famosa frase di Bobbio (che a dire la verità ho scoperto un po' dopo), "la democrazia si ferma ai limiti della fabbrica", mi sembra vera: ho sempre pensato che ad essere cruciale fosse un processo di estensione della democrazia, al di là dei suoi limiti, e che la cosa importante fosse un trasferimento di poteri decisionali e una socializzazione delle capacità e delle possibilità di decidere, dalle macro-decisioni alle micro-decisioni, al governo in qualche modo dell'economia, come trasferimento di poteri alle classi lavoratrici anziché all'elemento del capitale. Ripeto che questa è una dimensione che mi interessa ancora perché, al di là di tutte le grandi trasformazioni che sono intercorse nelle strutture produttive, nell'organizzazione sociale, nello Stato, nei processi di involuzione della democrazia, questa resta la sfida cruciale delle società occidentali. E' un passaggio difficile, però non ne vedo altri, visto che i processi rivoluzionari e di sovversione sociale non hanno strada, comunque sono consumati o non hanno mai trovato una base di appoggio sostanziale nelle società occidentali evolute: in fondo le rivoluzioni sono avvenute in paesi che erano sull'orlo di una catastrofe, come estremi tentativi di salvare un paese che non aveva altre alternative. Sono state le guerre a favorire le rivoluzioni, in condizioni ordinarie questa via è chiusa e non oggi o dal capitalismo: è chiusa perché non c'è oggettivamente, qualunque sforzo volontaristico va incontro ad un'impotenza.


Hai prima parlato della tua vicinanza alla sinistra sindacale. All'interno del Gruppo Gramsci molti erano addirittura delegati sindacali, magari nella CISL.

La grande maggioranza del Gruppo Gramsci lavorava vicino alla CISL. Io comunque, per tutto il tempo in cui sono stato nel Gruppo Gramsci, mi sono occupato fondamentalmente di studenti e di rapporti politici, in una sorta di divisione del lavoro: una promozione del movimento degli studenti, direi con dei buoni risultati per allora, mentre oggi il tema degli studenti mi vedrebbe molto perplesso, sul discorso della formazione parleremo poi in seguito.
Per tornare all'appartenenza ad ambiti politici organizzati, quando nel '75 c'è stata la prima alleanza con Avanguardia Operaia e poi nel '76 con Lotta Continua, ho lasciato insieme con altri il PDUP, di cui diciamo che appartenevo alla corrente de Il Manifesto, e ho cessato abbastanza verticalmente il rapporto con la politica attiva. Il Manifesto l'ho sempre letto e lo leggo ancora, anche se con sempre meno convinzione, però non ho più fatto politica: sono stato in qualche modo elettoralmente vicino al PCI della fine degli anni '70. Anche se non ho mai condiviso il compromesso storico, ho tuttavia sempre avuto una certa ammirazione per la figura di Berlinguer: comunque mi sembrava che lì ci fosse un nucleo forte di tenuta, che poi invece si è dissolto abbastanza in fretta. Ho amato molto il Berlinguer operaio di Torino del 1980, con il giornale "siamo qui", che ben sapeva che probabilmente quel tipo di lotta alla Fiat era destinata ad essere sconfitta, che le persone che doveva difendere conducevano una lotta radicale ma in verità di retroguardia, che in fondo le posizioni anche abbastanza estreme non corrispondevano alla sua identità politica: ma lo faceva proprio perché comunque quella era la collocazione, la radice storica del partito.

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