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INTERVISTA A VALERIO CRUGNOLA - 5 FEBBRAIO 2000

Oltre all'elemento di valore autobiografico mi sembra di fare molta fatica a dire se questo ha ancora un qualche intrinseco valore oggettivo che gli altri facilmente riconoscano, al di là di miti e liturgie alle quali non sono interessato proprio perché mi pongo in una dimensione irreligiosa e pagana in maniera completa rispetto alla politica: ivi compreso concetti come capitale piuttosto che classe, i quali appunto non mi interessano come segnali forti di ordine ontologico, semmai come soggettivazioni o come un possibile ordine di ricerca; ma non credo più che abbiano una densità ontologica e uno spessore concettuale forte che ci possa fornire una bussola o una guida in questo andare nel deserto. Tra l'altro in parte le piste che possiamo seguire non sono determinabili da noi ma da macro-processi nei quali non siamo neanche un minimo ingranaggio: alludo ai processi in atto di mondializzazione e di globalizzazione, dove possiamo forse immaginare una ripresa di conflittualità che venga anche da Sud o comunque nei paesi nei quali è invece in atto un processo di formazione di una base industriale. Si pensi ad esempio alla Cina, che comunque ha una tradizione forte, se non altro oggettivata dalla rivoluzione, di egualitarismo, mentre quello in atto è un processo di formazione di classi molto accelerato e in un certo senso violento: questo rappresenta in qualche modo un conflitto che non potrà che essere un macro-conflitto, visto che si tratta di 1.200.000.000 persone. Non è come il conflitto che poteva esserci a Torino o ad Arese: si giocano partite e modelli per tutta una parte dell'Asia. Rispetto a questi fenomeni io, da esterno (da lontano o pur andandoci a guardare), penso che le nostre conoscenze siano pari a zero. Aprendo una parentesi, internazionalismo è un'altra parola che non mi piace, non l'ho mai sentita dotata di molta forza, anche perché il quadro politico in cui abbiamo operato per lungo tempo era poi quello degli Stati e dei riferimenti nazionali. Già tutta la storia del '900 dimostrava che la classe operaia in fondo aveva una nazione, non era vero che non avesse un sentire nazionale; magari questo è pure stato un forte elemento di ostacolo, ma è anche in un certo senso ambivalentemente stato un elemento di forza: si pensi al ruolo che la classe operaia ha svolto nella Resistenza proprio in qualche modo come classe nazionale. Per quanto io non abbia nessuna simpatia per il togliattismo, mi sembra che questo centrasse questo tipo di prospettiva.
Negli anni '70 il discorso sulla politica forse era un'illusione, comunque sia ci collocavamo in un orizzonte di centralità della dimensione politica, sia nello scontro con lo Stato ma anche nell'intenzione di permeare la sua azione. Secondo me sarebbe stato molto volgare e pacchiano pensare ad una rivoluzione come insurrezione, conquista del potere, nel senso leninista: erano argomenti che non avevano alcun senso e dai quali per mia fortuna sono sempre stato abbastanza distante. Però mi sembrava che ci fosse data questa opportunità di usare la leva della politica per una trasformazione in senso forte della società. Ho creduto che fosse possibile il discorso che faceva Il Manifesto, soprattutto tra il '72 e il '75, che l'Italia potesse entrare dentro ad una società di transizione; questo però richiedeva dall'altra parte (e questa è stata un'intuizione geniale che ha avuto Il Manifesto) che anche i paesi dell'Est tornassero ad essere società in transizione e dunque si sbloccasse una critica radicale dell'esperienza stalinista e dei comunismi reali. Io ho aderito a Il Manifesto a partire dal famoso editoriale del primo numero della rivista intitolato "Praga è sola": tra l'altro devo dire che trovo allucinante che invece oggi Il Manifesto si muova in qualche modo dentro ad una logica di nostalgia del comunismo realmente esistente. Nessuna sinistra può rinascere in Italia, in Europa e nel mondo se non attraverso una presa di distanza radicale di tutta l'esperienza sovietica e maoista, per non parlare di peggio, come ad esempio Pol Pot, che non penso nemmeno che c'entri molto con queste esperienze. I regimi totalitari hanno prosciugato qualunque idea di società alternativa. Quindi si sconta inevitabilmente questa povertà: io sono sempre stato anti-sovietico, estraneo a questa mitizzazione o a qualunque altra, non sono mai stato filo-castrista. Ho sempre pensato che dall'altra parte ci fossero altrettanti inferni, anche perché li ho visti da subito. Io ho avuto un cugino che era legato al PCI, per mestiere faceva l'import-export per il partito ed aveva sposato una romena: per due volte (nell'estate del '68 e poi nel '69) ero stato con lui in Romania e mi ero subito reso conto di qual era l'aria che tirava, poi nel '70 sono anche stato in Cecoslovacchia. Bastava avere gli occhi: se uno va con l'incantesimo di cercare quello che sogna di vedere lo trova dappertutto, dopo di che a quel punto la realtà diventa sempre appagante. Per cui non sono mai stato persuaso che l'idea di una società di transizione potesse assumere quei modelli: concordavo dunque con questa tesi molto forte de Il Manifesto, oggi dimenticata anche perché oggettivamente non c'è più un referente dall'altra parte, le cose sono andate in tutt'altra direzione, siamo stati sconfitti sia là sia qua. In quei tempi la tesi sosteneva che l'unica carta che poteva essere giocata era quella di una duplice e convergente transizione che tenesse fondamentalmente anche conto di una dimensione di democratizzazione sostanziale delle due società e che restituisse in qualche modo una centralità all'elemento del lavoro come perno fondamentale di trasformazione attiva della società.

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