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INTERVISTA A VALERIO CRUGNOLA - 5 FEBBRAIO 2000

Nella primavera del '70 ho dunque aderito a Il Manifesto, anche a partire da legami che avevo con quella che allora era la sinistra sindacale, per la quale ho lavorato per diversi anni. Ho seguito il centro di ricerca della CGIL, facendo appunto una serie di ricerche sia a Varese sia in provincia, ed anche a Milano (in via Fontana), proprio sull'organizzazione del lavoro ed in qualche misura sui temi dei contropoteri dei lavoratori organizzati a partire dai consigli di fabbrica, che allora nascevano. Mi occupavo del tema dei delegati, che in qualche modo avevo incontrato proprio a partire dalla prima esperienza del Gruppo Gramsci milanese e che avevo sviluppato con una maggiore vicinanza non tanto alle ali più radicali, che erano quelle che stavano alla CISL, ma nelle aree più attente anche alla istituzionalizzazione in qualche modo di questi movimenti e che erano poi la sinistra sindacale della CGIL. Non avendo io nessuna formazione di ordine cattolico non ho mai avuto una particolare simpatia per la CISL; mi sono comunque sempre sentito di abitare in uno spazio per certi aspetti più prossimo alla tradizione istituzionale delle sinistre, se non altro perché lì dentro magari c'erano meno fermenti intellettuali però più patrimonio, storia, memoria, cultura politica, e quindi si trattava anche, per così dire, di un fronte generazionale diverso. Ho sempre molto patito anche l'aspetto giovanilistico di questi movimenti, comunque l'esclusiva base generazionale che mi sembrava in qualche modo rendere più opaco il messaggio politico, con il pericolo di trasformare sempre questi fenomeni in qualcosa di minoritario. Non ho mai avuto passioni per il minoritarismo, per la testimonialità, ho un sentimento di ostilità verso questo ordine di logica, che mi sembra invece che in qualche misura si ritrovi un po' nel vostro documento, magari non necessariamente intenzionalmente; anche se a volte, e lo so per primo io, è bene e giusto accettare di essere minoranza ed attrezzarsi a resistere in questa condizione. Mi riferisco quindi al minoritarismo come spirito, la logica di testimonianza come pura manifestazione di un'identità di sé, che però risulta sterile, viene fatta per se stessi: tutto quello che facciamo per noi stessi è legittimo, non voglio sindacare questo, però se vogliamo essere anche politici dobbiamo pensare al problema di una qualche fecondità dell'agire politico: se questo resta sterile non serve ad una prassi di trasformazione del mondo, e se questa non si fa con i mezzi concretamente possibili in una data circostanza storica ciò diventa un lavoro fondamentalmente inutile, ed allora è meglio dirigersi su altre strade, impegnare le proprie energie altrove.
Io ho vissuto negli anni '70 in una cultura iper-politicista, venivo inoltre da una famiglia politicizzata: ho sempre avuto un'idea molto alta della politica. Oggi non ce l'ho più: questo non solo perché la politica è cambiata, è in un certo modo degenerata; la politica attuale non mi interessa più (mi ha interessato per un certo momento a livello locale, cosa di cui mi sono anche "pentito", ma ne parleremo più avanti). Ho dunque avuto negli anni '70 questa idea alta della politica, come se fosse il centro del mondo e la portatrice di un punto di vista generale superiore su cui potevano convergere contributi etici e scientifici di altri ambiti e campi disciplinari; quindi come se il sale del mondo e la sua via cruciale di trasformazione passasse attraverso la politica. Di questo non ne sono più convinto. Prima di tutto perché mi sono reso conto che questa centralità non c'è, e non c'è innanzi tutto nell'ordinamento sociale, soprattutto oggi che la forma dello Stato ha cambiato sostanzialmente natura. La democrazia come istituzione, alla quale io credo profondamente, è qualche cosa che si è prosciugata, tende a diventare fortemente un guscio vuoto o comunque un terreno di dominio e di puro esercizio del consenso, di tecnica, ma non è più in grado di esprimere contenuti forti e nemmeno grandi ambiti di trasformazione. Questo non è imputabile a nessuno, sono processi in atto che attraversano lungamente il '900: mi sembra che siamo giunti ad una sorta di esaurimento della forma politica classica e in questo spazio o ci si rattoppa a cercare di far qualcosa a livello di moderatismo politico, come fanno i DS provando in qualche modo a contenere, oppure mi pare che, se vogliamo trovare qualcosa di fondamentale che riapra delle situazioni di conflitto rispetto al mondo capitalistico e alle sue logiche, forse non è tanto nella preminenza della politicità che dobbiamo cercare. In questa direzione vedo strade chiuse: se poi mi si chiede dove cercare sinceramente non lo so dire. Mi sembra di essere in una sorta di transizione nel buio, di attraversare da tanto tempo una specie di deserto, come poteva accadere alle figure della Bibbia: ho il senso di un esodo biblico in cui sai bene che porti con te nello zaino, o sul cammello, poche cose e forse neanche tanto quelle indispensabili, la tua personale sopravvivenza quanto semmai quella delle generazioni successive; però non sai bene dove stai andando, né quale sia la meta, né in fondo perché porti con te quelle cose, se non perché tu attribuisci loro un segno ed un valore.

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