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INTERVISTA A VALERIO CRUGNOLA - 5 FEBBRAIO 2000

Quando si parla di comunicazione mi pare che quella intergenerazionale, intersessuale ed interetnica sia fondamentale. La comunicazione interetnica è un tema nuovo, che allora non abbiamo sperimentato per niente. Quando parlo di comunicazione interetnica intendo anche dire lo scontro: non è detto che si debba partire per forza di cose da una piena accettazione dell'altro. Se io parlo con un somalo che poi infibula sua moglie e sua figlia mi dispiace ma io non tollero. A volte c'è una venerazione del personaggio del Terzo Mondo che è altrettanto idiota ed è la faccia rovesciata del razzismo di Bossi, è ugualmente puerile. In entrambi i casi non c'è linguaggio: da una parte c'è il rifiuto precostituito, dall'altra c'è l'accettazione precostituita. Ma la parola è scontro, è un movimento dialettico: l'accettazione vuol dire restare estranei. Invece quello che mi interessa è un processo di intimizzazione del conflitto, cioè arrivare alla prossimità anche del conflitto, come poter accettare nella diversità e nello stesso tempo trovare dei riconoscimenti sostanziali. Oggi una strategia di ricomposizione non può non pensare alle stratificazioni di culture. Una volta noi avevamo una stratificazione che era principalmente di classe e lavoro: questo senz'altro resta, però ad esempio tra i giovani questo aspetto è meno forte che in passato. Una volta c'erano molte distanze: io ad esempio venivo da una famiglia medio-borghese e sentivo delle distanze molto forti che mi schiacciavano verso chi era in alto, però c'erano anche elementi di difficoltà a comunicare verso il basso. Poi magari alcuni di noi, ed io nella fattispecie penso di sì, siamo in un certo senso riusciti a mantenere comunicazioni anche con il mondo alto ma, soprattutto con giovani operai, ci siamo molto spesi in questa cosa, magari un pochino didatticamente. C'è un'altra persona, Claudio Migliarina, purtroppo morto alcuni anni fa, che molto ha speso se stesso sia nel lavoro nel mondo sindacale sia soprattutto in questo rapporto con altri di altre classi. Questa cosa ad esempio a Milano non c'era: pur essendo tutti su una stessa barca si davano ben pochi livelli di comunicazione. Oggi avremmo bisogno di ricostruire delle comunicazioni che non includano solo l'elemento della soggettività sociale (che pure sarebbe importante), perché c'è tanta disomogeneità. Una volta in un certo senso lavoratore o ceto medio rispondevano a degli standard molto più vicini di quanto non siano oggi, adesso sono molto più distanti. Però se non includiamo nella comunicazione anche la sessuazione, l'etnicizzazione, la territorialità (centro-periferia, Varese-Como o Somalia-Taiwan) e l'elemento generazionale (che non è più un dato scontato), rischiamo di restare comunque muti o di mettere in gioco poco linguaggio. Magari rinunciando poi anche a cercare un terreno di conflitto dentro noi stessi, che è secondo me un altro dato di fondo che non trovo nel documento: il conflitto è molto posto verso l'esterno, come conflitto radicale, e questo mi sembra un eccesso; trovo invece un difetto nel riconoscimento che ci può essere di una condizione positiva, anche se dura, dolorosa, faticosa, di conflitto di riconoscimento. Si tratta invece di un fatto positivo, uno spazio comunicativo importante, di cui abbiamo grande bisogno; purché si sappia che tale conflitto non deve essere radicalizzato, perché non è mors tua vita mea, non è in gioco l'affermatività, la supremazia e il potere, cosa che invece negli anni '70 era terribile. Una delle ragioni per cui io sono venuto via da Milano è che ero in uno spazio fortemente competitivo anche nell'estrema sinistra, con personalismi eccessivi; e questo lo vedo anche ad esempio nelle organizzazioni umanitarie, che sono tutte delle repubbliche autocratiche, ciascuna ha il suo Luigi XIV. Sono regimi assolutistici monarchici, la democrazia conta meno di zero nella pratica; sono feudi con degli ordinamenti gerarchici. Questo è terribile. Possiamo riuscire a costruire delle soggettività diverse dentro l'organizzazione che possano fare a meno del competere, delle gerarchie? Siamo capaci di costruire tra di noi un'immagine del mondo conforme a quella che vogliamo? E' inutile che diciamo che vogliamo un mondo in cui il tasso di competizione e di gerarchie sia quanto meno diminuito, e poi noi lo riproduciamo per primi, per coazione a ripetere, per incapacità a portare luce dentro al nostro mondo interiore, per pigrizia nel dialogo con gli altri o per semplice ragione strumentale: non credo che sia per ambizione, non penso che sia questo che porta la gente ad assumere nelle organizzazioni dei comportamenti di questo tipo. Oppure è perché si scelgono modelli organizzativi che non valorizzano questa ricerca e che invece riproducono ordinamenti gerarchici: la tradizione comunista è stata rifatta in pantomima al sistema, perché magari negli anni '30 c'era una certa dignità, negli anni '60 e '70 non ne aveva nessuna, è stata una cosa estremamente soffocante. Negli anni '60 il marxismo aveva già perso la sua carica vitale da tempo, bisognava molto guardare all'esterno, mentre noi invece abbiamo guardato soprattutto alle componenti eterodosse all'interno del marxismo, come Gramsci o la Luxemburg; non abbiamo invece guardato a componenti di pensiero più vitali che erano del tutto estranee a questa tradizione. Questo è senz'altro un bagaglio negativo: dal punto di vista teorico secondo me il '68 non ha prodotto niente o quasi, come grandi riferimenti di ordine culturale è stato sterile in partenza, perché ha adottato un'ideologia che era scarsamente capace di promuovere un'autoinnovazione e di negarsi come ideologia, assumendo una dimensione teorica con minori pretese, sapendo di essere un'approssimazione ad un discorso di scienza sulla società. Questa pretesa di darsi una configurazione di scienza della storia o della società (che erano già due cose molto diverse) è stata estremamente castrante. Poi ci fu l'assunzione come modelli di pensiero dei grandi leader rivoluzionari che invece non avevano quasi niente da dire, cosa che è stata un'autocastrazione molto grave che ha magari impegnato tanto tempo, energie e molte povere persone, ed oggi quei materiali sono inservibili: le riviste teoriche di gran parte degli anni '70 sono assolutamente inutili. Su questo penso invece che o riusciamo ad avere un approccio in parte più pragmatico e in parte liberamente eterodosso se non addirittura sincretico, oppure non andiamo molto lontano.

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