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INTERVISTA A VALERIO CRUGNOLA - 5 FEBBRAIO 2000

Gli anni '70 hanno inventato molte cose. La cosa più importante che è stata inventata secondo me è stata il femminismo. E' stato un tema vitale su cui abbiamo vinto in un certo senso; abbiamo poi anche perso perché questo tema oggi non torna fuori più. Il rapporto uomo-donna è comunque un tema centrale e lì c'era da sviluppare tantissimo: è un discorso che mette in gioco le soggettività come le intendo io, non come una proiezione identitaria, ma come ricerca che si materializza e incarna nel vissuto e sulla quale mi gioco, magari soffrendo. E in fondo noi abbiamo sofferto: io ho divorziato due volte, ho avuto dei grossi problemi come molti altri. Uscendo un po' fuori dalla dimensione alto-politica e andando a sfangare nel vissuto, io vedo una connessione forte tra politico e vissuto: niente c'è che non passi in prima istanza da un ribaltamento del mio agire ma anche dalla sua capacità di costruire, anche in cerchie ristrette, una vita vivibile conformemente alle mie aspettative. Soffro molto il fatto che non c'è la possibilità di convivere esperienze e ricerche che riguardano il vissuto: è saltato questo rapporto tra vissuto e politico ed è saltato il linguaggio. Invece il femminismo ha avuto questa capacità forte di giocare anche sui maschi, capovolgendo la logica maschile. Magari creando delle grandi crisi, perché in fondo noi eravamo stati programmati come maschi. I miei genitori, pur essendo politicizzati e persone degnissime, mi hanno programmato per essere un maschio, quindi lavoro e carriera ma non cucirmi il calzino o farmi un uovo. Comunque anche il modello con cui mi sarei potuto rapportare all'universo femminile rispondeva a certi cliché che non erano stati sottoposti a critica. Quindi tutto questo lo abbiamo dovuto imparare da soli. Oggi invece vedo che quei modelli ritornano fuori peggio di prima, perché magari mia madre mi aveva anche dato un'educazione di ordine etico, morale e civile: avevo dunque un'idea maschile, ma almeno proiettata verso l'alto e non verso la miserabilità del commercio privato con il mondo. E vedo che il mondo femminile si è molto assimilato su questo, l'unica differenza è nel corpo, ma nella testa siamo uguali. Però alcune battaglie di emancipazione, lo scardinamento dell'ordinamento famigliare, la sessualità, queste cose le abbiamo anche vinte in qualche misura. Secondo me è poi mancato un elemento di riproposizione positiva, di ricerca in positivo di esiti. C'erano dei cliché molto faciloni: ad esempio al posto della famiglia c'era la comune, che non dava niente, solo nuovo dolore per chi l'ha sperimentata con un minimo più di serietà. Bisogna quindi andare a cercare di più su questo nesso, tornare al rapporto pubblico-privato in senso forte, con tutto quello che ha messo in gioco anche nella dimensione esistenziale: nessuna ricerca della politica deve essere staccata da una ricerca su di sé, senza pretendere che i due elementi si risolvano uno nell'altro. Come sostenuto dal pensiero liberale nei suoi significati forti, che possono valere anche per noi, la politica può essere un elemento pesantemente invasivo rispetto all'elemento individuale-identitario: quindi può essere un elemento di negazione altrettanto pericoloso quanto quello che abbiamo chiamato capitale. Bisogna saper mantenere il presupposto che non tutto è politico, però nello stesso tempo cercando di ritrovare la politicità in senso lato, che comunque appartiene alla dimensione di un vivere comune. Qui mi sembra che la nostra esperienza sia rimasta un po' a metà strada. Mentre l'esperienza consigliare è da recuperare in toto, se non altro a futura memoria, invece la nostra in questo campo è rimasta a metà in questo incardinarsi di un progetto di rivoluzione sociale e anche di una dimensione di rivoluzione esistenziale. E' importante questo nesso e questo insistere e ricercare di più nell'ambito della soggettività, intesa come campo delle intenzioni e dei bisogni del soggetto, e prima di tutto come campo di intenzione di soggettivazione, cioè di un percorso di individualizzazione nel senso ricco del termine.
Questo è un terreno che è rimasto là, un filo interrotto, in parte errato e in parte no, e però lasciato cadere a favore magari invece di stereotipi più poveri, che sono lo spinello, il tam-tam, la musica più dura, simboli che stentano a tradursi in una ricerca vera e in una comunicazione anche intergenerazionale, che invece è molto importante. Questa è invece un'esperienza che io ho vissuto; se potessi ripartire dall'inizio nell'intervista, una pista che si potrebbe seguire è come la nostra generazione avesse comunque un rapporto con la generazione precedente: nella scuola avevamo dei buoni professori che in qualche modo ci educavano a questo, fuori abbiamo avuto tanti maestri politici che ci hanno insegnato delle cose, e avere un rapporto con un quarantenne, un cinquantenne, un sessantenne, un settantenne era naturale. Questo era molto bello e c'erano luoghi dove questo avveniva: oggi tutto ciò non c'è più. Magari degli studenti mi chiamano nelle scuole a parlare del '68 e per certi aspetti mi venerano, cosa che a me non piace nel modo più totale, perché non c'è niente che sia degno di essere venerato: anzi, a maggior ragione, dovrebbero emanciparsi da questi miti. Invece c'è una logica puramente imitativa, fanno le autogestioni e poi non sanno che contenuti metterci. Vanno a finire in un vicolo cieco, in un vuoto, però a loro interessa potersi in qualche modo mettere l'etichetta, aver provato ad essere come i loro genitori. Però comunicazione vera non ce n'è nessuna, per cui io resto in realtà uno sconosciuto, perché vengo visto come un'etichetta, quello che è stato il leader a Varese nel '68, e a mia volta anch'io li etichetto come quelli che soffrono di nostalgia, mentre suppongo che abbiano una ben altra ricchezza dietro. Dunque né loro sono capaci di fare emergere quella che è la mia ricchezza né io riesco a fare emergere la loro: quindi non impariamo reciprocamente, mentre invece sarebbe importante.

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