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INTERVISTA A VALERIO CRUGNOLA - 5 FEBBRAIO 2000

Un altro tema che trovo interessante recuperare, in questo caso dell'Autonomia Operaia, venuto fuori soprattutto all'inizio degli anni '80, è il problema del lavoro autonomo come lavoro servile (aveva fatto in modo particolare una ricerca Sergio Bologna). Adesso non so se era esattamente questa la dizione canonizzata, comunque mi sembra un tema essenziale, come terreno di una radicale scomposizione e decomposizione nel sociale legata al decentramento e a tutta un'altra serie di processi. E' importante trovare un'attenzione su tale settore però riuscendo a parlare a questi soggetti. Oggi il terreno del decentramento produttivo e del lavoro autonomo servile è diventato quello su cui, ad esempio nel varesotto, la Lega ha trovato consenso. Quindi o troviamo una capacità di rispondere o queste forze vengono abbandonate ad una deriva perché, non avendo più quella capacità di coesione che nasceva in qualche misura dalla fabbrica, viene esaltato tutto ciò che è avvertito come potenziale nemico (uno Stato troppo fiscalista, una scarsa attenzione alle esigenze di un lavoro autonomo che fa un'enorme fatica ad emanciparsi da una committenza più in alto nell'ordinamento economico e nello stesso tempo dalla pressione dello Stato). O troviamo una capacità di interloquire con questo mondo e anche di offrirgli dei percorsi di soggettivazione e di riconoscimento, o altrimenti finisce abbandonato alla destra, però dopo non chiediamoci perché perdiamo. Possiamo ancora restare un po' radicati alla Fiat, dove però siamo già stati sconfitti. Come è possibile recuperare? Questo mi sembra un tema di attualità nel quale c'era una riflessione feconda da riprendere. E' un terreno su cui possono convergere anche storie e interessi di ricerca e competenze diverse: l'importante è non farsi fretta.
Vorrei contestare l'inizio del vostro documento, dove si parla della frammentazione e dell'atomizzazione dei soggetti. A me sembra che sia vero che l'atomizzazione è negativa, perché comporta una babele linguistica nella quale non c'è più nessuna possibilità di comunicazione. Ma secondo me la frammentazione non è altrettanto negativa: i due sostantivi non mi sembrano congruenti l'uno all'altro. La frammentazione può indicare una pluralità di punti di vista, di esperienze legittime, non ci può essere una pretesa unica di legittimazione che possa prevalere su altre. Quindi dobbiamo accettare di partire da un orizzonte caleidoscopico estremamente frammentato, in cui esistono forti diversità, accentuazioni e punti di vista anche molto distanti. L'importante è il ripristino di una dimensione di comunicazione, che invece l'atomizzazione cancella, in quanto questa è una dimensione di silenzio, di sordità. Come possiamo trovare un modo di fare interloquire linguaggi, logiche e motivazioni diverse, che però possono trovare, su alcuni ambiti (come appunto quello delle derive e degli sviluppi del lavoro autonomo-dipendente), dei punti in comune? Possiamo riuscire a portare competenze a lavorare su questo? Ciò è interessante. Questo vale per questo discorso come per altri centomila, ad esempio il Terzo Mondo o la globalizzazione.
Nel lavoro autonomo c'è un maggiore sfruttamento, anche se però la dimensione dello sfruttatore non c'è più, perché figurativamente si legge come un autosfruttamento. Se il marxismo non è in grado di fornirci degli strumenti in proposito, bisogna ricorrere a degli atri strumenti. E' inutile che cerchiamo di tirare una coperta dove non può arrivare, è meglio servirsi di altre coperte e gettare quella parte lì. Dentro ad una prospettiva laica, il marxismo è un pensiero come gli altri, io non gli attribuisco uno statuto speciale e in questo modo mi è più facile non rigettarlo laddove continua a servire. Se invece continuo a pensare che ci sia un'identità marxista, che comunque il marxismo sia la filosofia che interpreta il capitalismo ed ha una chiave per la storia, che mi dice dove e come mi posso emancipare, allora qui non trovo che abbia più utilità di altre teorie. Se si tratta di un corpo vivo si dissolve come si sono dissolti il pensiero di Platone, di Aristotele, di Sant'Agostino o di altri che lo recuperano e lo rileggono alla luce di nuove istanze. Se invece lo dogmatizzo come un corpo definito non serve più a nessuno, diventa anzi un elemento dannoso perché non si vede più la realtà ma si vede quello che si vuol vedere attraverso quegli strumenti. Quindi insisto nel dire che un approccio laico è più utile: può essere anche meno soddisfacente ma, dovendo accettare la logica del deserto, è proprio perché voglio salvare una serie di obiettivi forti che accetto oggi una loro riduzione, in cambio di una voglia di accettare una certa positività. Secondo me abbiamo dunque bisogno di tanta sperimentazione: forzare una convergenza rispetto ad un'esigenza di sperimentazione a 360° mi sembrerebbe pericoloso.

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