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INTERVISTA A GIOVANNI CONTINI - 7 SETTEMBRE 2001
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Qual è stato il tuo percorso di formazione politica e culturale e l'inizio della tua attività militante?


Io ero entrato nel PCI fiorentino, che era una realtà che in fondo con gli operai aveva un rapporto molto indiretto: in parte ce l'aveva, ma gli operai fiorentini erano pochi e particolari. Prima che nel Partito Comunista ero stato nel movimento studentesco (io avevo vent'anni nel '68). Una data per me fondamentale è stata quella dell'assemblea operai-studenti a Torino nel luglio del '69. Io già leggevo La Classe, mi piaceva di più rispetto alla pubblicistica comunista, che francamente io non sopportavo molto; l'alternativa era il maoismo, che era ancora più deprimente. La Classe invece mi piaceva parecchio: però, ero convinto che quanto loro dicevano fosse un po' un'immaginazione, anche perché a Firenze le caratteristiche sociali della città sono particolari, è una realtà di artigiani, di piccole fabbriche, di poche grandi fabbriche come la Galileo che sono state importanti forse più per il ruolo politico che non per il ruolo produttivo, oppure la Pignone. Era dunque una realtà diversa rispetto alla situazione delle città del Nord, o anche rispetto alle città della costa, Pisa ad esempio, che aveva la Piaggio e altre fabbriche. Le nostre cosiddette grandi fabbriche lo erano per modo di dire, erano abbastanza marginalizzate rispetto alla vita della città. Per me andare a Torino e vedere quello che succedeva al palazzetto dello sport fu proprio un trauma, perché improvvisamente mi sembrò che tutto quello che leggevo come metaforico fosse invece sostanzialmente vero. Fu una svolta, infatti uscii dal PCI ed entrai nel gruppo che poi diventò Potere Operaio (ancora non si chiamava così). Il nostro problema a Firenze è che siamo sempre rimasti in una situazione molto marginale, perché il conflitto sociale di quegli faceva soprattutto perno sulle città del Nord; noi in realtà facevamo il tentativo, sempre frustrato, di entrare in contatto con gli operai, e poi invece gli operai ci picchiavano. Avevamo Arrighetti che era il nostro quadro di riferimento: era una specie di signore aristocratico, è un peccato non poterlo intervistare perché era una figura significativa. Quindi, l'esperienza di Potere Operaio qui a Firenze la ricordo come abbastanza settaria, con molte lotte interne, direi non troppo interessante. Io ricordo un massimo interesse quando ero nel PCI e leggevo La Classe, e poi quando andai a Torino; però, siccome ci siamo andati in un modo molto ideologico, parecchio legati alle beghe fiorentine, tutto sommato la mia esperienza dell'operaismo riguarda più che altro un corpo di teorie che venivano utilizzate all'interno di un gruppo abbastanza piccolo e litigioso, che non aveva però un rapporto diretto con gli operai, ce l'aveva solo in forma indiretta.
Nel periodo in cui ero a Cambridge, sono poi tornato a Torino e ho anche pubblicato delle cose sull'operaismo, sul terrorismo e i suoi effetti sul quadro militante degli operai torinesi: in quegli anni era abbastanza terrificante quello che raccontavano. C'era uno delle Brigate Rosse che fu ammazzato in via Fracchia a Genova ed era un militante del sindacato: io parlavo con i suoi compagni dieci anni dopo e loro mi dicevano che, quando scoprirono che lui era nelle BR, questa cosa ebbe uno spaventoso effetto deprimente nelle lotte. Questo perché loro erano tutti emigranti che si vedevano insieme, quindi non c'era solo un rapporto politico, ma anche di amicizia personale, si scambiavano i prodotti siciliani, sardi, friulani, le mogli e i bambini erano amici, facevano grandi tavolate. Cioè, le lotte alla Fiat sono anche state un tentativo di risocializzarsi dopo lo sradicamento completo che è avvenuto con l'emigrazione biblica degli anni '50 e '60. Allora, scoprire che uno di loro (tra l'altro quello che faceva sempre il moderato, perché aveva questa doppia figura) era stato ammazzato in un conflitto a fuoco fu una cosa che li scompaginò completamente. Tornando a studiare quegli anni a distanza di qualche lustro, penso che un limite dell'operaismo ne era anche la forza, perché permetteva delle anticipazioni: però, c'era una grande astrattezza. Si parlava di operaio-massa senza mai considerare quali erano le provenienze regionali di questi operai, le sottoculture che loro portavano con sé.

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