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INTERVISTA A GIOVANNI CONTINI - 7 SETTEMBRE 2001


Se uno volesse provare a leggere le lotte alla Fiat (io ci ho provato, ed infatti è stato un fallimento) come il trapianto a una generazione di distanza delle lotte contadine al Nord sarebbe un errore: io lo posso dire per esperienza, in quanto ho provato a verificare queste ipotesi e non tornano. Non c'è dubbio che le lotte contadine forse hanno avuto un ruolo nello spingere gli operai a emigrare. Quando intervistavo la gente a Torino mi raccontavano spesso che erano emigrati per motivi politici, cioè loro vivevano in paesini meridionali dove non succede mai nulla, tranne quello che combinano la mafia o la DC (che poi è la stessa cosa), con una terribile cappa di piombo: loro erano giovani ed emigravano perché avevano bisogno di lavorare, però anche perché là cercavano la città degli operai, cercavano la città del conflitto, la grande metropoli operaia. E poi quando erano là sarebbe assolutamente riduttivo pensare che le lotte fossero semplicemente la riedizione, a partire dalla cultura intatta, della jacquerie contadina nella metropoli, questo non funziona. Una cosa che veramente andava fatta di più era prendere in considerazione gli operai come classe concreta. Invece, c'era sempre un tentativo di vedere l'aspetto universale, astratto, l'operaio senza più professionalità: tutte queste cose, se si va a vedere bene, non erano poi così vere. Era sì senza professionalità però la voleva avere, tutto il rapporto con la professionalità secondo me ha continuato ad agire potentemente all'interno di quegli anni, molti dei conflitti nascevano dal fatto che la Fiat chiamava decine di migliaia di persone e non era assicurato nessun servizio. Si pensi a Nichelino, questo posto pazzesco che ho visto allora, una roba da non credere, una tale povertà di qualunque tipo di servizio che uno può capire che poi scoppiava corso Traiano. Però, secondo me nel considerare gli operai, gli operaisti usavano un po' il telescopio: ho l'impressione che li osservassero da lontano tutti insieme. Questo poi aveva anche la sua forza, perché è vero che certe cose venivano previste e poi succedevano effettivamente; però, forse veniva previsto e succedeva qualcosa che era vero nel breve periodo e che poi magari non sarebbe più stato vero in un lasso di tempo più lungo. Di fronte agli operai come mi sembravano dal '69 al '71 (soprattutto gli operai di Torino, che erano quelli che conoscevo di più), io ero un ragazzino, avevo poco più di vent'anni, ma mi sembrava assolutamente certo che ci fosse una rivoluzione sociale che stava per scoppiare. C'era un radicalismo diffuso, di massa, condiviso: andavi davanti alle porte della Fiat e lì si discuteva sempre dello sciopero, della fermata ecc. Però, ho l'impressione che poi fosse tutto molto legato alla fase e questa fosse qualificata dall'emigrazione. Questa emigrazione noi la consideravamo ma non abbiamo davvero avuto quella sensibilità che invece avevano un po' i sociologi, come Alasia, che invece avevano anni prima guardato l'emigrazione proprio nelle sue manifestazioni concrete. Anche i sociologi come Alberoni trattavano della socializzazione anticipata: questi che quando arrivano hanno già un'idea ben precisa di quello che vogliono fare e poi però questa socializzazione anticipata urta contro una realtà che loro non erano riusciti veramente a prevedere, e che è una realtà in cui sei un disgraziato. Questo è un elemento che io poi ho ritrovato dopo. Un'altra cosa importante che noi abbiamo sottovalutato secondo me era anche il ruolo del sindacato di base in quegli anni là. Al tempo dei Quaderni Rossi Foa all'inizio c'era, però dopo lui e Rieser se ne sono andati rispetto a Classe Operaia. Insomma, in realtà queste lotte erano anche il risultato di una serie di catene che si relazionavano al sindacato e che erano legate al problema dell'emigrazione. C'erano queste associazioni di gente venuta da tutte le regioni italiane e che ritrovava un'unità nella lotta e poi anche nella vita quotidiana, nel divertimento, nelle cene. Tutto questo aspetto secondo me a noi sfuggiva in pieno. E questa era poi anche una cosa che progressivamente portava a una specie di normalizzazione, questo lo dice anche Paul Ginsborg nel suo libro: noi abbiamo preso della gente esacerbata da condizioni assolutamente insostenibili e contingenti, c'era tutto questo aspetto dato dalla mancanza delle scuole, degli ospedali, dalla mancanza di tutto. Nichelino della fine degli anni '60 era una cosa incredibile, non c'era niente, era proprio un quartiere dormitorio: non facevi la spesa, le mogli là diventavano pazze, non sapevano come portare a scuola i bambini. Però, è chiaro che questo tipo di contingenza finisce per essere facilmente smontata dal fatto che aprono le scuole, che si realizzano un po' di infrastrutture, che la gente si sposta, si assesta, che trova un modus vivendi a distanza di qualche anno o di un decennio dal momento dell'emigrazione. In fondo nella nostra ipotesi c'era l'idea che questa classe operaia fosse invincibile, credo che l'80 non fosse prevedibile: era una composizione di classe che aveva tanti lati sovversivi, quindi potevano sì esserci dei momenti di arresto, ma per poi ricominciare.

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