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INTERVISTA AD ANDREA COLOMBO - 15 OTTOBRE 2001
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Qual è stato il tuo percorso di formazione politica e culturale e l'inizio della tua attività militante?


Io sono del '54, quindi nell'ottobre del '68 ho cominciato il ginnasio al Mameli di Roma, che l'anno dopo sarebbe diventata una scuola con una componente di Potere Operaio molto forte, probabilmente la più forte in città. Lì abbiamo fatto il movimento, poi nella primavera del '69 è uscita La Classe e già il Mameli era in quell'area; quando, con l'autunno caldo, si sono formati i gruppi, se non tutto il comitato di base del Mameli certamente il 90% è entrato in PO. Personalmente sono stato in Potere Operaio fino al '71, ero nella sezione di Primavalle, che ha avuto più tardi una storia tragica e negativa. Io sono però uscito prima, dopo il congresso in cui Franco Piperno lanciò il partito dell'insurrezione, poi negli anni successivi ho fatto il movimento diffuso, quel tanto di autonomia vera che c'è stata a Roma, cioè non i Volsci. Infatti, a Roma di solito quando si dice autonomia si intende il collettivo di via dei Volsci, un gruppo che veniva da Il Manifesto peraltro; c'erano invece una serie di comitati di base e di circoli di quartiere autonomi che non facevano capo ai Volsci e che hanno fatto il '77 quanto l'autonomia organizzata di Daniele Pifano e di Vincenzo Miliucci.


Quali sono stati, secondo te, i limiti e le ricchezze dei movimenti degli anni '60 e '70, dei percorsi a cui sei stato interno e delle proposte politiche di matrice operaista?

L'operaismo ha avuto una serie di intuizioni molto forti, sia negli anni '60 che negli anni '70. Negli anni '60 hanno avuto un esito pratico e concreto preciso, negli anni '70 no, ma restano delle intuizioni che si sono dimostrate poi fondate, e in qualche modo sono persino a monte del lavoro che una parte di noi continua a fare, chi prima con Luogo Comune e poi con DeriveApprodi, chi con Posse e prima con Futur Anterieur. L'intuizione degli anni '60 è stata quella di lavorare sulla composizione di classe. All'inizio di quel decennio, da quello che mi è sembrato (perché io ai tempi ero bambino), il Movimento Operaio italiano continuava a puntare tranquillamente sull'operaio professionale. Noi qua a Il Manifesto abbiamo una quantità di compagni torinesi, anche di quella generazione, e parlano dell'operaio che faceva i baffi alle mosche, quello era l'operaio politicizzato, professionale, capace di gestire. Il sindacato proprio non aveva alcuna coscienza di come le cose fossero cambiate. L'operaismo italiano, prima coi Quaderni Rossi e poi con Classe Operaia, ha iniziato a lavorare sull'operaio-massa; ha cominciato a capire che quel tipo di operaio, inizialmente del tutto depoliticizzato, che arrivava portato dal parroco, con tendenze al crumiraggio spinte, senza nessuna professionalità e quindi, secondo il Movimento Operaio tradizionale, senza alcuna possibilità di detenere potere, era invece il vero soggetto sovversivo, che poteva fare esplodere l'equilibrio su cui si erano basati tutti gli anni '50. Era anche il soggetto nuovo per una quantità di altri motivi, che immagino che i compagni che avete sentito avranno già illustrato più e meglio di me. Questi sono stati gli anni '60, poi c'è stata la grande lotta operaia della primavera del '69, che col senno di poi si può dire che sia stata l'unica davvero non sindacalizzata. Allora non ci sembrava così, noi abbiamo fatto i gruppi nell'ottobre del '69, con l'autunno caldo: la realtà è che il solo momento in cui il sindacato è rimasto completamente fuori è stata la primavera '69. Con il sindacato dei consigli, in realtà, hanno dimostrato una buona capacità di recupero, poi trascinati naturalmente; però, quello che noi ci aspettavamo e che sembrava realizzato nella primavera del '69 nell'autunno non si è verificato, il sindacato ha dimostrato un'ottima capacità di rientrare in campo, e questo ha condizionato tutti gli anni seguenti. L'altra grande intuizione, per dirla con le parole che usava Toni quella dell'operaio sociale, se la si guarda con il senno di poi era molto forte, perché nel '77 il termine postfordismo credo che non l'avesse usato nessuno, non c'era assolutamente consapevolezza della fine del sistema di fabbrica come modello di produzione: l'intuizione dell'operaio sociale, e cioè l'intuizione di una classe operaia non necessariamente legata alla fabbrica, che non metteva necessariamente in opera e in produzione quelle funzioni lì (la ripetitività e via dicendo), era un'anticipazione molto forte di quello che sarebbe successo dopo.

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