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INTERVISTA AD ANDREA COLOMBO - 15 OTTOBRE 2001


La terza grande intuizione dell'operaismo italiano, che c'è in queste cose e ancora prima, è quella di Tronti, ed è un po' la chiave di lettura che condiziona tutto l'operaismo di allora e di adesso. E' quella che capovolgeva il discorso, che era sempre: "c'è una ristrutturazione del capitale cui fanno seguito le lotte operaie, le lotte operaie corrono dietro alla ristrutturazione del capitale"; rovesciare la cosa è dire: "no, il capitale deve correre dietro a quella lotta operaia e ristrutturare per inseguirla e recuperarla". Ciò ti portava dal livello di soggetto antagonista ma in qualche modo secondario, comprimario, al livello di attore principale a cui gli altri corrono dietro. Come in tutte le intuizioni forti c'era una forzatura, nel senso che oggi uno non potrebbe riprendere Lenin in Inghilterra e dire che Tronti aveva ragione, naturalmente la realtà è infinitamente più sfumata e più ambigua; però, certo lì c'era un punto di rottura molto forte che è ancora valido. Anche oggi, per concludere, fase in cui quello che resta dell'operaismo lavora sulla fine degli operai, su quello che in Luogo Comune e in DeriveApprodi abbiamo chiamato general intellect (anche lì con un'intuizione dubbia, che prende delle cose e altre le perde, ma insomma è quello che fuori dalla fabbrica mette in produzione il sapere e via dicendo), anche lì c'è una rincorsa del capitale. La differenza è che quando Tronti nel '64 scriveva "Lenin in Inghilterra", il discorso era tutto sulle lotte, cioè "tu lotti, conquisti potere e quelli ristrutturano e cambiano", era quindi tutto in un discorso di potere; nella dimensione attuale (detta con termine orrendo postfordismo) il recupero cammina su altri terreni, nel senso che il movimento operaio, proprio perché lavora sui linguaggi e sul sapere, crea delle cose che quando compaiono (si pensi al '77, a tutta la rivoluzione linguistica che ha comportato) lo fanno come antagoniste e poi vengono inseguite e recuperate proprio per essere messe in produzione, per diventare elementi di profitto. Il modello, ancorché vecchio secondo me però del tutto valido, resta quello tra linguaggi del '77 e pubblicità: la pubblicità italiana per tutti gli anni '80 ha campato sul '77. Se oggi si legge il testo di Naomi Klein "No Logo" (che è un'inchiesta giornalistica, un buon libro in questo senso) riguarda il come tutto il capitalismo moderno si basi in grande stile esattamente su quel modello: inseguire quello che gli sfugge, che lo contrasta come linguaggi, stili di vita ecc., e metterlo in produzione. Questo è diverso, naturalmente, dal modello di Tronti, però mantiene una somiglianza stretta.


Dalla ricerca che stiamo facendo si può ricavare un'ipotesi peculiare sui percorsi dell'operaismo italiano, ed in parte riguarda dei nodi cui tu hai già accennato. La ricchezza dell'operaismo è stata quella di essersi collocato in una determinata fase, quella dell'entrata ritardata dell'Italia nel taylorismo-fordismo, portando in essa una lettura socio-economica completamente nuova, e soprattutto individuando nell'operaio-massa una figura non solo potenzialmente anticapitalista ma anche in grado di muoversi contro se stessa. Dall'altra parte, il limite è stato quello di non essere riusciti ad andare fino in fondo con quelle fondamentali rotture rispetto alla tradizione socialcomunista, rielaborando una proposta politica ed un progetto adeguati, quindi nuovi fini ed obiettivi. Quello della politica è dunque un nodo baricentrale nell'analisi di quelle esperienze trascorse, ma anche tutt'oggi fondamentale e irrisolto.

Qui faccio un discorso un po' diverso da quello che (per come li conosco) penso che vi abbiano fatto i compagni che avete sentito. Io vedo due limiti. Il primo lo dicevate voi, ed è stato un limite molto forte: è vero che in Italia il taylorismo è arrivato tardi, per cui i compagni più grandi di noi hanno individuato quel punto di rottura che poi voleva dire anche obiettivi concreti, cioè significava che l'aumento salariale non era una stupidaggine riformista rispetto ai grandi discorsi sul potere, ma era la leva che scardinava infinitamente più di qualsiasi nuovo modo di fare produzione e quindi era una cosa con una valenza strategica immediata. Capire questo è stato fondamentale e molto importante; quello che non abbiamo capito allora è che era la fine di quel ciclo.

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