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INTERVISTA A PAOLO BURAN - 22 NOVEMBRE 2000


Rispetto al movimento studentesco, dalle interviste emerge da una parte il discorso del '68 come momento di innovazione della dimensione capitalistica, per cui molti sono stati alla finestra; dall'altra parte, chi vi è politicamente intervenuto ha fatto il tentativo di spostare gli studenti davanti alle fabbriche, però non in un senso di tendenziale ricomposizione delle lotte, ma come reclutamento di distributori di volantini. Ciò senz'altro sull'immediato può aver dato dei risultati in termini di potenziamento delle lotte operaie, però più in generale ha probabilmente significato una sottovalutazione sia dei cambiamenti della figura studentesca e dei suoi movimenti, sia del discorso della formazione e delle sue ambivalenze. Questa è tra l'altro una considerazione che Romano faceva già negli anni '70, ad esempio in "Università di ceto medio".


L'idea di andare ai cancelli io l'ho sempre trovata poco utile e interessante. Ci andavo anch'io per vedere e per capire, sono andato qualche volta a distribuire o raccogliere questionari, ma mi è sempre parso ridicolo l'atteggiamento quasi di mitologia servile nei confronti degli operai che c'era in molti studenti di sinistra. Alcuni erano di estrazione borghese e vedevano in questo una specie di rigenerazione sociale. Io ero di estrazione operaia quindi non avevo nessun bisogno di riciclarmi, venivo da quell'ambiente lì e ne ho sempre percepito l'importanza delle questioni senza bisogno di enfasi ideologiche. L'operaismo trontiano non era l'ideologizzazione della virtù salvifica della classe operaia, era il tentativo di individuare in una certa fase una forte possibilità di intervento sui meccanismi del sistema. Per quanto riguarda l'aspetto specificamente studentesco, nel '72 con Gobbi avevamo fatto un'iniziativa piuttosto anticipatrice e interessante. Lui aveva concordato con i vertici del sindacato torinese (nella persona del suo leader, Emilio Pugno) un lavoro in direzione degli impiegati, in base a questo ragionamento: "gli studenti che hanno vissuto in qualsiasi forma l'esperienza del movimento diventeranno domani impiegati e dirigenti di fabbrica, saranno un'importante risorsa per il movimento operaio: per cui il punto in cui portare gli studenti non sono le officine ma sono gli uffici". Su questa base si è fatta un'inchiesta tra gli impiegati e un convegno con il sindacato, che forse ha contribuito alla penetrazione della CGIL fra i colletti bianchi delle fabbriche torinesi, senza volerne esagerare l'importanza. Quasi tutte le cose di cui parlo viste ex post mi sembrano cose marginali. Qualche volta ce lo dicevamo fra noi già allora: "stiamo 'giocando alla guerra', facciamo finta di essere partecipi o di riuscire a influire in qualche modo". In effetti non saprei dire se tutto questo ha avuto un qualche impatto se non su noi stessi, che abbiamo partecipato a un'esperienza sentendoci inseriti in un momento storico.


Qual è la tua esperienza lavorativa e professionale all'IRES, soprattutto in rapporto all'esperienza di formazione politica?

C'è da dire che tra le due fasi si pone uno spartiacque temporale oggettivo. Ho cominciato a lavorare all'IRES nel '78: tra quell'anno e l'82-'83, quindi a cavallo della sconfitta Fiat, secondo me è maturato un cambio di fase abbastanza radicale. I primi anni in cui ero all'IRES continuavo essenzialmente a guardare fuori, e quindi vivevo le mie ricerche all'IRES come un lavoro - forse più interessante di altri - ma relativamente secondario rispetto alle cose che ritenevo veramente importanti. Nell'82 avevo ancora scritto un articolo per la rivista Laboratorio Politico intitolato "La classe ostile", in cui mi ero posto l'obiettivo di fare un bilancio dell'esperienza conflittuale a Torino come elemento centrale del potenziale antagonistico di quegli anni. "Classe ostile" voleva dire che l'antagonismo che si determinava spontaneamente nelle lotte operaie era un'enorme risorsa politica che nessuno aveva raccolto e che però aveva ancora dei margini e delle possibilità di crescere, di esprimersi e di continuare a pesare. Invece così non è stato, vista ex post questa è stata forse l'idea più sbagliata che abbia mai avuto in tutta la mia vita, cioè l'idea che nonostante tutto sopravvivesse una soggettività operaia in quantità e qualità paragonabile a quella che avevamo visto in passato. Lì c'era anche l'idea di provare a ridefinire questa soggettività operaia in modo di rottura rispetto alla tradizione socialista e comunista, cioè come un qualcosa che non mirava per niente a fini gestionali, che non entrava facilmente in sintonia con le culture e con le procedure di mediazione politica dentro cui il Partito Comunista lavorava, sottolineando polemicamente il fatto che gli operai sembravano prediligere il modello tedesco a quello sovietico (un fatto che oggi ci pare scontato, ma che allora suonava scandaloso). C'era un po' il tentativo di dire "se vogliamo utilizzare questo potenziale di conflitto bisognerebbe comportarsi diversamente e ragionare in termini in qualche modo postcomunisti".

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