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INTERVISTA A GUIDO BORIO - 27 OTTOBRE 2001


Un altro aspetto importante da sottolineare è la dimensione collettiva che assunse il dibattito politico e teorico, la ricchezza dei contributi prodotti da più ambiti e il continuo confronto che non poteva non assumere anche la dimensione della competizione. Io non ho mai avuto un percorso di specializzazione. Sicuramente non di specializzazione teorica, ma neanche pratica. C'era una divisione dei ruoli e una ripartizione o divisione del lavoro politico, c'era un confronto, c'era una capacità di intervenire in determinate dimensioni di elaborazione della teoria politica. Si dava vita a continui processi di costruzione di elaborazioni teoriche più o meno elevate, perché ci si doveva confrontare con le ipotesi che collettivamente o individualmente nascevano. Sovente i luoghi di elaborazione e di confronto erano indefiniti o sicuramente instabili: non duravano. La nostra storia è una storia anche di continue rotture, dissidi, frammentazioni, contrapposizioni di gruppi e di singoli. Questa mancanza di sintesi e di progettualità veniva vissuta non come un'incapacità, ma come il prezzo pagato alla conquista di un passaggio in avanti. Questo a mio avviso è stato un carattere originario che ha accompagnato l'operaismo in tutto il suo cammino, ma ne ha anche minato molto le potenzialità.
Il far politica portava a non costruirsi una specializzazione. Solo quando si smetteva di militare ci si trovava con delle capacità che potevano essere riconvertite facilmente e vendute bene nel mercato del lavoro. Ciò che dava però potenza alle capacità era la collocazione: essere contro ed essere dentro, come si affermò allora. Poi c'è il nodo della cooperazione: il capitale usa le capacità altrui come proprie risorse all'interno di una finalità sua, ossia valorizzare ed accumulare capitale, potere, dominio. Il progetto rivoluzionario deve impostarsi per essere capace di invertire questo processo: utilizzare le capacità presenti, inventarne e costruirne altre per farle cooperare in una dimensione che potenzi le lotte e i conflitti tanto da intaccare, mettere in crisi, fermare lo sviluppo capitalistico, e quindi cambiando i rapporti di forza impedire che si esplichi il processo capitalistico. Le forme di liberazione crescono e si realizzano sottraendosi all'accumulazione e chiudendo gli spazi alle forme di dominio perseguite dai capitalisti.
La "professione" che si svolgeva era il far politica, e questo ovviamente ha segnato in termini particolari sia la formazione sia il modo di essere. Per me l'essere rimasto ad avere come caratterizzazione centrale la politica, il far politica, il doversi misurare con tutti i problemi che ne conseguono, sotto alcuni aspetti ha un costo: la precarietà è forse un limite, il non vedere mai i risultati effettivi del proprio agire, anzi il dover procedere di sconfitta in sconfitta. Oggi l'aspirazione di tutti è il volersi realizzare individualmente all'interno della società, con una presenza dentro il sistema, in cui ognuno ha il suo bel ruolo e la sua bella casellina: bene, se questa cosa a te non interessa, in realtà il non avere specializzazioni tecniche non lo vivi affatto come limite. L'avere semplicemente come necessità la politica in qualche modo permette anche la costruzione di un'identità personale, di un rapporto con la dimensione collettiva che è sicuramente importante. In quegli anni ciò costituiva un elemento forte, che ha determinato le sorti, la vita e le vicissitudini di molte persone, e credo che tutto sommato sia la cosa più significativa che a uno possa capitare. Questa collocazione politica era sicuramente in contrapposizione alle istituzioni, però era anche parecchio legata a quella che era la realtà e la processualità delle lotte: quindi, i limiti e le ricchezze di come uno si è formato sono molto legati alle necessità e alla volontà di stare all'interno di questi conflitti.

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