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INTERVISTA A GUIDO BORIO - 27 OTTOBRE 2001


Come ho detto, la militanza politica l'ho incominciata quando avevo 15 anni, da allora ho seguito le lotte e ho partecipato ai movimenti sociali nati in una situazione qual era quella torinese. Allora tutto era rivolto alle lotte in Fiat. A Torino ci sono stati tre cicli di lotta importanti: il primo nel '69 dalla primavera all'inverno, il secondo nel '73 culminato con l'occupazione dei cancelli di Mirafiori, l'ultimo nella primavera-estate del '79 quando ci sono stati i blocchi delle merci e i presidi nei corsi e nelle zone intorno ai grandi insediamenti industriali dell'auto. Il mio è stato un far politica in ambiti di base, nei movimenti e nei territori sociali: fuori da istituzioni, partiti e sindacati. La militanza consisteva nell'essere interni e promuovere una rete informale di rapporti; nell'andare a costruire e animare le riunioni in cui si discuteva cosa fare e come fare le lotte. Si stava fisicamente là dove c'erano i picchetti, gli scioperi, le manifestazioni, i cortei, gli scontri. Allora la politica la intendevamo soprattutto come una presenza continua di agitazione e di aggregazione collettiva nelle scuole, nei quartieri della periferia e ai cancelli della Fiat.
Ho militato in Lotta Continua dall'inizio del '70 fino al '73, quando ne sono stato, in pratica, espulso. Lotta Continua era in quegli anni a Torino un gruppo molto presente, contava migliaia di militanti e simpatizzanti. Dalla fine del '72 ho seguito il nascere dell'area dell'Autonomia Operaia, e lì mi sono collocato. Ho fatto tutto il percorso di quest'ambito; in particolare il mio riferimento specifico era la rivista Rosso e i collettivi politici che si erano formati nelle varie realtà regionali. Complessivamente l'intervento dei collettivi era abbastanza instabile, cresceva o si dissolveva senza molta continuità. I gruppi erano composti da operai, per lo più molto giovani, da studenti e giovanissimi. L'interesse e l'intervento maggiore si incentravano sulle lotte operaie. C'era molta internità anche nei movimenti giovanili che hanno poi dato vita ad esperienze come quella del '77; qui a Torino è stata una cosa un po' anomala se confrontata con i movimenti sviluppatisi in altre città, ma ricca di contenuti e di differenze. E' di quel periodo la ricerca fatta da Alquati e da altri ricercatori di Scienze Politiche sull'università di ceto medio.


Qual è stata la tua esperienza di militante politico? Come analizzi, più in generale, il nodo della militanza, sia in riferimento ai percorsi in questione, sia da un punto di vista complessivo?

La mia formazione non si è mai disgiunta dalla formazione politica, sono cresciuto con la tensione a fare politica prima con una forma di partecipazione e di militanza di base poi passando a forme di militanza intermedia. Questo è stato abbastanza totalizzante e mi ha condizionato nel bene e nel male. Mi ha dato delle caratteristiche e una tensione specifica, a relazionarmi, ad osservare, ad agire socialmente. In qualche modo non posso dire di aver deliberatamente scelto con una consapevolezza data dalla maturità. Altri compagni, di una generazione precedente alla mia, si sono formati e hanno intrapreso i percorsi politici in un periodo diverso, quando le lotte e i conflitti avevano un peso sociale differente. Dall'altra parte, però, credo di aver vissuto un'esperienza formativa ricchissima, di aver dovuto confrontarmi e muovermi sin da giovanissimo in un contesto irripetibile.
La mia esperienza di militanza politica è stata, dai 15 ai 26 anni, legata alla pratica politica di costruire lotte e costruire forme organizzative che si legassero al tessuto e al conflitto sociale: collettivi d'intervento, comitati, volantini, giornali, fogli d'agitazione erano il risultato e lo strumento di un agire politico quotidiano e continuo. Il confronto con la realtà, la necessità di verificare i risultati in termini di riuscita delle lotte, degli scioperi, delle occupazioni sono stati il banco di prova dell'attività politica. Tuttavia, devo dire che questo non è stato un muoversi spontaneo, né tanto meno individuale, in qualche modo invece si legava ad una progettualità più generale. Si tendeva alla costruzione di forme organizzative che avessero una valenza di rottura col quadro istituzionale, con la politica dei partiti politici. Il fine di metatendenza era costruire un agire, un percorso organizzativo e anche un progetto che avesse dei caratteri rivoluzionari e anticapitalistici.

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