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INTERVISTA A GUIDO BORIO - 27 OTTOBRE 2001


Il processo rivoluzionario è un qualcosa di questo genere qui: è proprio il fatto che si diffondano all'interno della società delle individualità che si aggregano in una dimensione collettiva e diventano un elemento di destabilizzazione e di rottura degli equilibri, fino a quando la società non è talmente non solo destabilizzata ma destrutturata da arrivare al collasso e alla morte del sistema dominante. Allora, se il problema è quello della distruzione e dell'uscita dal capitalismo, la questione della rivoluzione è proprio questa, cioè della capacità di essere distruttiva per il sistema attuale. Quindi, ciò dovrebbe portare ad una riflessione effettiva su cosa è un processo rivoluzionario. E' chiaro che nella consapevolezza di chi lo deve agire bisogna comprendere che una cosa è dove si progetta, un'altra è invece come questo si vada a rappresentare all'esterno, perché non si può certo andare in piazza a dire di voler essere il cancro. Però, ci dovrebbe essere la consapevolezza del modo in cui bisognerebbe agire politicamente. Questa metafora qui la dice lunga anche su un altro aspetto: perché muoia un essere vivente non è certo necessario che il 51% delle sue cellule siano contaminate o cambino, basta che ce ne sia una piccolissima parte rispetto alla globalità che però è collocata in punti particolari, capace di rompere gli equilibri, di fare un "danno" tale che gli equilibri diventano insostenibili. Questo credo che sia un altro dei problemi che comunque un discorso di trasformazione deve affrontare: quando noi diciamo che siamo contro il positivismo, lo scientismo, lo storicismo ecc., bisogna poi anche riuscire a concretizzare in una processualità politica qualcosa di effettivamente altro, che non ricada in una dimensione di quel genere lì.
In realtà, quello che si è sempre cercato di fare è mascherare questa necessità di distruzione con il discorso degli ideali, e quindi con una forma utopica: ora non è il caso di entrare nel merito, ciò ha una potenza ed una trazione e tradizione sicuramente significativi. Però, in realtà la realizzazione della trasformazione sta proprio nella capacità di costruirla e di metterla in atto. Nel suo ultimo libro, "Lavoro e attività", Romano parla di un suo concepire la prassi in termini diversi: è un elemento che accenna molto genialmente come novità e modo di intendere la pratica politica. Questo è un terreno che andrebbe approfondito, perché non solo la teoria e la pratica sono inscindibili, ma sono due cose che in realtà devono essere un tutt'uno. Questo è il discorso grosso che oggi non si riesce a realizzare: c'è una separazione tra quella che potrebbe essere la questione della tattica e della strategia, che andrebbe di nuovo interamente rivista e definita. C'è poi il rapporto tra organizzazione e spontaneità, noi abbiamo delle tradizioni storiche che cercano di presentare o...o: o si è per la spontaneità e allora si sposano tutta una serie di testi sacri (da Rosa Luxemburg agli anarchici), oppure si è per l'organizzazione e quindi si opta per Lenin, la Terza Internazionale ecc. Anche questo è un problema che nel momento in cui viene agito come ideologia non ha nessun significato; invece, quando lo si vede come fattualità, come capacità di metterlo in campo, ci si accorge che non c'è separazione tra organizzazione e spontaneità, dipende, in quel momento particolare, su quale tasto e dimensione bisogna spingere di più perché ci sia uno sviluppo dell'accumulazione della forza, del conflitto e via dicendo. Quindi, non esiste progettualità nella mera spontaneità, non esiste conflitto nella mera organizzazione: il mettere insieme questi due elementi è l'essenza del processo rivoluzionario, se no questo non si dà.
Dunque, i diversi modi di muoversi su quel terreno non possono essere canonizzati, non ci può essere un lavoro da farmacista che col bilancino dice "la ricetta della rivoluzione è tot parti di spontaneità e tot parti di organizzazione": i momenti specifici in cui il processo si dà costituiscono dimensioni completamente differenti. Una cosa che mi fa sorridere, che secondo me è un paradosso, è il fatto che tutti parlano di Kronstadt come repressione da parte dei bolscevichi: sicuramente c'è stata una repressione, dopo di che nessuno si ricorda che quella particolare avanguardia e soggettività che si è formata a Kronstadt in realtà è intervenuta in almeno tre momenti forti della rivoluzione russa, e in due di questi è stata propulsiva ed è stata utilizzata dallo stesso Partito Bolscevico per la costruzione del processo rivoluzionario. Solo nell'ultimo momento, nella terza fase, il Partito Bolscevico ha deciso di attaccare quella che era la composizione politica e sociale di Kronstadt, mentre prima invece è stata utilizzata in termini differenti.

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