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INTERVISTA AD ALDO BONOMI - 8 NOVEMBRE 2001
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Quali sono stati i tuoi numi tutelari, intesi da una parte come persone o autori di riferimento nel tuo percorso di formazione, dall'altra come figure che ritieni particolarmente importanti per analizzare i nodi aperti nel presente?


Se quello che stiamo facendo è un ragionamento che in parte riguarda ciò che io ho chiamato il sincretismo biografico, credo che bisogna riflettere non tanto in termini di numi tutelari oppure di figure di riferimento intellettuali, ma cercando di capire qual è stato il mio capitale sociale o quali sono stati i miei beni relazionali. Secondo me, questa è una categoria anche socio-politica importante, intendendosi con essa quella rete di relazioni che permette al soggetto di essere meno solo, per dirla banalmente; come sostiene Bourdieu, è il problema per cui una monade, cioè un soggetto, in base a un meccanismo di relazioni riesce ad aumentare il suo raggio d'azione, il suo raggio di comunicazione, il suo raggio di socialità, il suo raggio di comprensione dei processi. Allora, diciamo subito che da questo punto di vista, se devo fare un po' di sincretismo biografico, io ho avuto una sfiga tremenda rispetto ai processi di inizio. A differenza di quelli che hanno la mia biografia in termini di età e di esperienza politico-culturale, almeno per gli anni del '68, qual è stata la mia sfiga? Non voglio qui citare e scomodare Pasolini, il quale diceva che eravamo i figli della borghesia, affermazione in cui non c'è dubbio che parte di verità c'era: infatti, era un movimento figlio di un'élite che esprimeva un disagio anche a fronte della carenza di processi di modernizzazione, di cambiamento e di problemi di questo genere. Però, senza adesso arrivare lì, anche perché poi di queste cose ne sono state fatte delle banalizzazioni, se penso alla prima parte della mio biografia non c'è dubbio che io nasco con un capitale sociale estremamente povero. Ciò dipende innanzitutto dal luogo di provenienza: io arrivo da un piccolo paesino della Valtellina che, pur essendo zona di confine e di frontiera, non è mai stata né per tradizione né per storia un luogo di grandi reti lunghe, bensì di reti corte e comunitarie, in cui è fondante la dimensione della montagna anche come luogo della chiusura. Vengo da una famiglia che si sarebbe detto un tempo piccolo borghese di un paesino della Valtellina, con tutti i deficit e i pregi di una dimensione di questo genere: il deficit primo è quello delle reti relazionali bassissime, che mi si sono complicate ulteriormente quando a 6 anni sono andato via e ho studiato in un collegio, che nella società laica è ciò che c'è di più simile all'istituzione totale. Ho dunque studiato in collegio a Pesaro dai 6 ai 18 anni, facendovi quindi le scuole medie e la maturità. Il vero problema è che io non avevo né le reti di relazione della comunità locale valtellinese, né le reti di relazione pesaresi. Lo dico perché nel vostro racconto e nel vostro grande affresco di storia vi sarà anche capitato di vedere biografie di intellettuali, compagni, militanti che sono nate dentro il liceo, dove ad esempio Gad Lerner stava con Agnoletto: c'erano una serie di scuole o università di riferimento, che ovviamente producevano reti. Ma questo non vale solo per il movimento dal '68 in avanti, basti pensare che una parte della sinistra riformista di questo paese (come Occhetto o Craxi, ad esempio) si è formata dentro le federazioni studentesche, che erano poi le fucine di formazione politica precedenti, i luoghi in cui uno formava le sue relazioni di capitale sociale. Dunque, nella fase adolescenziale e nella prima parte del mio romanzo di formazione io avevo un capitale sociale bassissimo, che non mi si è nemmeno implementato con questo salto di totale discontinuità nel passare dalla Valtellina e dal collegio a Pesaro direttamente dentro la facoltà di Sociologia di Trento. Quella facoltà mi affascinava, mi interessava, avevo fatto una parte del movimento studentesco pesarese ma l'avevo subito lasciato: quando sono precipitato a Trento, ero uno che era stato per i primi sei anni della propria vita in un piccolo paese della Valtellina, per gli altri otto in un'istituzione concentrazionaria, che quindi nega l'aumento delle relazioni, pur essendo nella dimensione dell'area pesarese. Se lo rileggo oggi, devo all'essere stato a Pesaro per otto anni il fatto che poi ho scritto, quando avevo 50 anni, "Il distretto del piacere", perché quello era un luogo (l'ho detto anche nel libro) che io osservavo dalla finestra del collegio vedendo la spiaggia, il loisir e tutto il resto: quindi, è una cosa che mi è rimasta, è stata una specie di ritorno alle mie origini. Allo stesso modo, in molti miei scritti il tema della Valtellina torna, con la questione della comunità locale, del territorio ecc.

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