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INTERVISTA AD ALDO BONOMI - 8 NOVEMBRE 2001


Quindi, devo dire che queste non sono due radici che non riconosco, anzi le riconosco e hanno avuto un influsso; sono radici che mi hanno magari dato molto come punto di elaborazione concettuale e culturale, probabilmente il mio ritorno continuo all'interrogarmi sul concetto di comunità dipende parecchio dal fatto che, a differenza di altri intellettuali, ricercatori o sociologi, non vengo da una situazione metropolitana; quindi, la dimensione dello spaesamento, del rimanere senza paese, della microdimensione e dell'entrare in una realtà allargata, è una questione che ho presente. Quello pesarese è stata un luogo di formazione, perché non c'è dubbio che se non fossi andato dalla Valtellina ad una "zona rossa" come l'Emilia Romagna e la parte finale delle Marche credo che non avrei mai incontrato il dibattito con il comunismo, chiamiamolo pure così. Io ero figlio di un sindaco democristiano di un piccolo paese della Valtellina, il comunismo l'ho incontrato sui banchi di scuola del liceo di Pesaro perché il mio compagno di classe era iscritto alla FGCI, quindi ho cominciato a capire cosa erano queste cose lentamente. Dunque, lo sradicamento dalla Valtellina a Pesaro è stato importante, però ciò è avvenuto senza quell'accumulo di capitale sociale che probabilmente altri miei coetanei avevano avuto dentro le loro esperienze di liceo; soprattutto, si tenga presente che gli anni importanti per la formazione di una persona, dai 6 ai 18, io li ho giocati tutti in termini individuali, nel senso che non ero dentro una comunità di riferimento. Quindi, basso capitale sociale e invece forte identità dei luoghi di provenienza, cosa che mi è sempre rimasta, o forse si tratta di rimpianto. Partendo da questo posso dire che, al di là delle dimensioni amicali ed affettive, reti di relazione, capitale sociale, beni relazionali che mi hanno aiutato a vivere ne ho avuti pochi, sono uno che probabilmente ho dovuto imparare a sopravvivere. Dico anche, come ho già affermato nella precedente intervista, che questo confronto con le istituzioni forti ti costringe a vivere oppure uscire. Dunque, credo che ciò mi abbia rafforzato, se uno sopravvive a questa dimensione di sradicamento iniziale è probabilmente più forte di fronte all'essere sradicato e all'andare nel mondo. Già nell'altra intervista dicevo che se uno risponde ad un interrogatorio in corte d'assise o davanti ad un tribunale ha poi certamente meno imbarazzo a discutere in pubblico, in un'assemblea o in situazioni di questo genere. Quindi, quando io arrivo a Sociologia a Trento non ho capitale sociale, non ho reti di relazione, ci arrivo individualmente, non con qualcuno che veniva come me dalla Valtellina o da Pesaro: ci arrivo con una compagna di vita con cui stavo e basta. Dunque, da questo punto di vista le reti di relazione ho dovuto con difficoltà costruirle.
Se faccio un bilancio, di capitale sociale proveniente dalla politica, da tutta quell'esperienza che va dal '68 in avanti, ne ho conservato poco. Anche perché io credo che si trattasse di un luogo di negazione dei beni relazionali: se devo fare una critica a quel modello del fare politica, dico che questo distruggeva i beni relazionali, perché era un modello del fare politica basato sulla categoria amico-nemico, sia nella dimensione del nemico esterno, sia anche in una categoria amico-nemico giocata all'interno. Quindi, diventava un meccanismo di estrema selezione, leadership, slittamento verso l'alto, in cui il problema dei beni relazionali, della solidarietà di gruppo non c'era. Cito un esempio: mi è capitato un mese e mezzo fa di andare a cena con Dalmaviva e Magnaghi, che parlavano delle loro esperienze "comunitarie" dentro Potere Operaio, perché si sentiva una specie di comunità; io, invece, non ho un racconto specifico di comunità di appartenenza dentro il quale la militanza politica produceva beni relazionali. E non ho nemmeno l'impressione di un meccanismo dentro il quale questo far politica producesse beni relazionali: io non ce l'ho, forse può essere un limite mio perché, arrivando privo di reti di relazione e di capitale sociale, a questa mancanza non ho poi saputo sopperire. Però, ho l'impressione che più che creare valore di legame e legame sociale, c'era la forma dei gruppi e dei gruppuscoli l'un contro l'altro in disquisizione teorica e di egemonia, c'era il problema di chi poneva l'egemonia: nella grande dimensione ciò si verificava a Milano tra il Movimento Studentesco, Lotta Continua, Avanguardia Operaia ecc., ma anche in piccolo a Trento il problema era questo. Dunque, ho un ricordo di queste realtà in cui si distruggeva il valore di legame e il capitale sociale. Anche perché, appartenendo ai microgruppi, si era più in una dimensione da setta che in una dimensione aperta. E credo che alla base di questo ci siano poi forme che ritroveremo negli anni: è una generazione in parte perduta da questo punto di vista, perché non ha saputo costruire valore di legame e capitale sociale, quindi alla fine si ritrovano alcune cose su cui riflettere, senza fare nessuno esempio perché non sta a me dire.

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