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INTERVISTA A SERGIO BIANCHI - 15 OTTOBRE 2001


Nonostante rivendicassimo apertamente l'appartenenza a un'area politica riconosciuta in generale e criminalizzata o agitata come estremista, anzi come estremismo dell'estremismo, non c'è mai stata un vivere una condizione di strappo assoluto con il resto dell'ambito sociale in cui eravamo inseriti. Una delle scelte fondamentali era costituita dal fatto che quel movimento non intendeva esercitare strappi dal punto di vista dell'uso della forza e della violenza, non è mai accaduto nulla di devastante o di lacerante sul piano delle relazioni sociali per tramite dell'uso della forza, un uso di cui, d'altra parte, potenzialmente disponevamo con grande abbondanza.
Un altro elemento di ricchezza è stato, nel bel mezzo del processo di criminalizzazione e di repressione, la capacità di intuire che si andava verso la fuoriuscita di massa dalla fabbrica da parte di questi soggetti, e quindi non solo di quelli che erano i nostri militanti, l'area amicale, quella del movimento vero e proprio, ma diciamo della variegata soggettività che componeva il movimento e le sue aree sociali affini. Su questo abbiamo immediatamente dato vita a un dibattito sulla questione della costruzione di processi cooperativi sociali alternativi a quelli della fabbrica. Abbiamo dunque fatto in tempo a esemplificare la costruzione di catene di lavoro cooperativo alternativo al lavoro dipendente di fabbrica, cioè abbiamo fatto in tempo a esemplificare l'inserimento dentro cooperative di lavoro autocostituite, abbiamo fatto un bar che poi per la gente del movimento è valso come uno dei punti di resistenza e di trincea rispetto al dramma che è accaduto. Tuttavia, l'idea era quella di costruire le catene dei bar, delle librerie, dei cinema, le catene insomma della produzione della resistenza davanti all'attacco che si profilava. Quella è stata una grande intuizione, non siamo riusciti a svilupparla adeguatamente perché poi la situazione è degenerata in tempi velocissimi. Avevamo cioè avuto perfettamente la consapevolezza che la fuoriuscita massiccia dal lavoro di fabbrica così come si profilava, senza offrire delle alternative, poteva rappresentare quello smarrimento di identità che poi ha collimato anche con il fatto di non capire assolutamente più che identità si avesse, e ciò ha coniugato al sentimento della sconfitta la disperazione per il disastro subìto in generale.
Gli elementi di povertà sono quelli rintracciabili dentro tutta la storia di quel movimento che è andato a finire come sappiamo, non è che da noi ci sia stato qualcosa di particolarmente miserabile che ha sopravanzato la limitatezza generale. Se c'è una cosa da rimproverarsi è che sicuramente non c'è stata la capacità di essere fermi dal punto di vista di una serie di affermazioni teoriche, di pratiche, di modi di essere, di comportamenti, del veicolarli nel sociale, coniugandoli però a una grande capacità e duttilità tattica. È però anche vero che noi vivevamo il problema dell'essere circondati da condizioni generali di un certo tipo. Siamo sempre stati considerati dentro l'area dell'Autonomia come quelli più di "destra", ma non con un atteggiamento di polemica politica: eravamo di "destra", detto anche ironicamente, perché praticavamo molto la mediazione politica, nel senso che non puntavamo alla rottura esemplificativa, e qui mi rifaccio agli accenni polemici rispetto alle situazioni che ho definito prefabbricate. Per noi era un problema di agire quotidianamente dentro un territorio dove le rotture potevi darle tenendo fermissime le tue affermazioni, il tuo modo di essere, però le esemplificazioni non potevano avere il carattere della spettacolarità, perché ciò non sedimentava niente nei soggetti, era solo un agitare un po' di elementi di ribellismo stupido che però non andavano a consolidare nessun processo reale di potere sul territorio. Questo non significa ovviamente che abbiamo visto tutto giusto, sicuramente no, però non c'è stato il tempo per metabolizzare una serie di processi di mediazione utili a evitare danni peggiori, che sono capitati comunque.
Tutto è scoppiato dall'esito del ratto di Moro, quello è stato il crinale. In una situazione come la nostra ha preso il sopravvento una forma di disperazione basata sull'esaltazione della teoria del desiderio. Sergio Bologna, a tempo debito, l'aveva detto esplicitamente: se si teorizza a fondamento della liberazione il desiderio di per sé, disancorato dai processi di liberazione che devono segnare passaggi materiali, è inevitabile finire in una certa direzione. Questi temi del desiderio, guarda caso, si innestano sempre nei momenti di crisi. A metà degli anni '90, quando i Centri sociali sono andati in crisi, molte situazioni hanno cominciato a elaborare una serie di teorizzazioni che mi hanno ricordato molto quel periodo: c'è stata la fase dei rave, è risaltata fuori, ad esempio, la teoria dell'uso dell'ecstasy come processo di liberazione.

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