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INTERVISTA A SERGIO BIANCHI - 15 OTTOBRE 2001


In una situazione del genere ci si doveva far carico anche di tutti i disastri che accadevano in generale: cosa si poteva dire ad esempio riguardo la lotta armata? Non si poteva assumere un atteggiamento di indifferenza. Mi riferisco a quando se ne doveva discutere, ad esempio, dentro un bar, perché, chiaramente, questo argomento era più facile da affrontare dentro le fabbriche. Ma la tua vita sociale, il tuo agire politico comportava anche il fatto di parlare al bar della stazione, perché tu stavi lì, non è che potevi andartene, tu contavi perché stavi lì tutti i giorni sotto il lampione. È qualcosa che è molto simile alla presenza mafiosa sotto il lampione, tu conti qualcosa nel territorio in rapporto al fatto che sei disponibile a star lì tutte le sere sotto quel lampione, e le persone ti riconoscono per questo. Quindi, per il fatto che rappresenti un'area sociale che è in rivolta, devi tener conto e dare risposte riguardo anche all'ultima cosa lontana che accade. È chiaro che ciò distoglieva forze, energie e tempo da dedicare al lavoro politico; le mediazioni purtroppo erano anche di questo tipo, però la convulsione è stata talmente forte per cui è venuta meno la possibilità di usare il tempo. L'errore generale, secondo me, è stato quello di non essere riusciti a trovare il tempo per agire le mediazioni necessarie. Però, è anche vero che gli elementi di sovradeterminazione dentro il movimento sono stati tanti e tali da bruciare questa condizione, mica solo per noi che eravamo la periferia della periferia del mondo, le ha bruciate per situazioni molto più ricche e molto più strategiche. Quando ce ne si è resi conto, i giochi purtroppo erano fatti, cioè non c'era più il tempo per recuperare quel tipo di scarto, rimaneva semmai solo il tempo per elaborare una strategia di resistenza.


Quali sono stati, secondo te, i limiti e le ricchezze dei percorsi a cui sei stato interno e più in generale dei movimenti degli anni '60 e '70, in particolare delle esperienze di matrice operaista?

Mi limito ancora a parlare della mia piccola esperienza militante fatta in un paese di provincia. La ricchezza principale consiste nell'essere stati protagonisti di una rottura sociale che credo sia stata unica dal dopoguerra in poi, dal punto di vista del voler rompere un assetto sociale, culture, forme esistenziali, modi di essere. La nostra, come esperienza collettiva, era anche una rivolta di carattere esistenziale. Era fortemente maturata a partire da condizioni materiali, ma aveva però anche tutti i caratteri di una rivolta esistenziale complessiva, perché si mettevano in discussione anche le relazioni affettive, di genere, relazionali, famigliari. È stata una cosa molto forte da questo punto di vista, è rimasta anche nella memoria della storia di quel territorio. Dal punto di vista politico i limiti erano gravi: di elaborazione teorica, di organizzazione, poi tutto il resto veniva a catena. I limiti sono stati tanti, ma riflettendo sugli errori posso dire che sono stati minori di tante altre situazioni similari. Ad esempio, nella nostra realtà, che è stata fortemente sottoposta alla repressione, alla fine l'elemento veramente devastante e distruttivo è stato quello dell'eroina. Questa è una cosa su cui mi sono sempre interrogato, perché da noi la falcidia vera e propria non è stata la repressione, ma l'eroina. A proposito di questo ho già scritto delle cose sul libro "Settantasette. La rivoluzione che viene", in cui parlo di quel periodo tremendo che è seguito al convegno di Bologna e fondamentalmente al dopo Moro. Cosa si è scatenato dentro quell'esperienza e quella storia di movimento? Lì c'è stata proprio una scissione interna e tutto si è sfaldato nel giro di pochissimo tempo.
Dal punto di vista politico, secondo me, quell'esperienza conteneva in sé la capacità di una mediazione, nonostante tutto, e si differenziava da realtà simili perché non era una situazione estremista nel senso corrente del termine. Anche perché, se nei primi due anni la caratterizzavo come un'esperienza generazionale limitata proprio ai giovanissimi, invece negli anni successivi, dal '77 al '79-'80, quella realtà era riuscita a coinvolgere soggetti più anziani: eravamo arrivati a relazionarci con persone che avevano oltre i trent'anni, che non vivevano la condizione del giovincello insomma, quindi ciò vuol dire che le mediazioni si era capaci di farle. Iniziative ingestibili sul territorio noi non ne abbiamo mai fatte, nel senso che non si è mai prodotta una lacerazione forte e una nemicità con il tessuto sociale in generale.

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