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INTERVISTA A SERGIO BIANCHI - 15 OTTOBRE 2001


Era un lavoro certosino di ricerca paziente di testi che venivano scoperti man mano, di una loro ricostruzione filologica, un lavoro di autoformazione, di studio appassionato in piccoli gruppi, di situazioni seminariali fatte la sera, dopo il lavoro, dentro una sede che avevamo affittato al centro del paese e che suscitava scandalo e riprovazione non solo tra i benpensanti ma anche tra i personaggi della sinistra istituzionale. Comunque si è capito quasi subito qual era il problema: una ricomposizione di forza operaia dentro una situazione così frantumata dal punto di vista produttivo era quanto mai improbabile, l'unica possibilità era quella di tentare di ricomporla sul territorio, per poi ritornare nelle fabbriche, diversamente non si poteva organizzare nulla di realmente incisivo. Si è quindi dato vita a una lotta che ancora adesso vive nella memoria di quel territorio: l'occupazione di un centro sociale. Bisogna tenere conto che quella occupazione fatta a Tradate è stata realizzata autonomamente proprio da quella situazione che non si è avvalsa del supporto di alcuna realtà politica preesistente, e si è trattato della seconda occupazione di un centro sociale in Italia, fatta alla fine del '75. È stato occupato un grande spazio di proprietà della Curia, tra l'altro in una contingenza molto particolare perché pochi mesi prima la sinistra istituzionale era riuscita dopo trent'anni ad andare al governo di quella cittadina, e immediatamente è scoppiato loro tra le mani quel tipo di contraddizione. Certo, dentro l'occupazione vivevano anche tutti i contenuti di agitazione ludica, dei bisogni culturali, della critica dell'uso del tempo libero, della liberazione del corpo, della legittimità dell'uso delle droghe leggere, della sessualità, delle differenze di genere, della libertà dai vincoli e retaggi famigliari ecc.; ma l'elemento forte del programma di occupazione era quello di fare un centro sociale che nulla c'entrava con quella che poi è stata l'esperienza dei centri sociali della metà degli anni '80 e poi quelli degli anni '90 che abbiamo conosciuto. Il nostro centro sociale era immaginato come un posto che doveva servire a ricomporre le varie figure del lavoro operaio frantumate sul territorio. E questo al di là dell'esito dell'occupazione in sé, che si è risolta in tre giorni di feste straordinarie, di assemblee permanenti, di agitazione, di casino, una piccola Comune di Parigi insomma. Poi, ovviamente c'è stato lo sgombero forzato. Ma quell'esperienza riuscì a condensare molta forza territoriale, tant'è che due anni dopo il centro sociale, attraverso una trattativa molto dura e lotte continue, è stato concesso dalle autorità locali. Alla fine l'amministrazione comunale ha dovuto concedere per un periodo un pezzo del municipio, finché poi ha trovato una sistemazione definitiva, che esiste tuttora, ciò proprio perché c'era una pressione costante e molto forte. Comunque, l'elemento conflittuale era prevalentemente generazionale. Mi è capitato di ridiscutere con i mie compagni di allora di quella vicenda e di analizzarla a fondo. Il nostro giudizio finale è che il suo limite è consistito nel non essere stati capaci di trovare mediazioni e alleanze con altre soggettività operaie. Lì c'era una soggettività che spingeva fortemente sul terreno del rifiuto del lavoro operaio e che faticava a trovare mediazioni, perché l'aspirazione era prioritariamente quella di uscire dalla fabbrica, cosa che poi è avvenuta qualche anno dopo in maniera definitiva: più nessuno, infatti, è rimasto in fabbrica. Non sto parlando di qualche persona, di un piccolo gruppo bensì di centinaia di soggetti che erano radicati nei luoghi di lavoro. Persone che tra l'altro in quegli anni avevano anche intrapreso un percorso di rappresentanza politica nei Consigli di fabbrica. Era gente rappresentativa, però si trattava di componenti che esprimevano un tipo di tensione molto determinata che faticava a relazionarsi ad altre culture operaie. Quella è stata la vera contraddizione che abbiamo vissuto. In varie occasioni ho provato a interrogare a vent'anni di distanza i miei compagni sul senso di quello che è stato fatto. Le persone che allora furono protagoniste di quella storie mi hanno risposto che era l'unica cosa che si poteva fare, perché comunque la questione dell'andarsene dalla fabbrica per loro aveva il significato di liberarsi da una situazione che non sopportavano più, che avevano ereditato per condizioni di classe, di trafila famigliare ma che non gli apparteneva.
Quel movimento ha costituito una rottura culturale dentro quel territorio, perché la rivolta era anche dentro la famiglia, con il figlio operaio incazzato che si scontrava con il padre operaio sindacalizzato, il quale riteneva folli le argomentazioni e le proposte del figlio. Quindi, è stato una contraddizione lacerante che ha spaccato quel pezzo di società.

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