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INTERVISTA A SERGIO BIANCHI - 15 OTTOBRE 2001


In Germania l'operaismo ha ormai una sua tradizione. C'è un fermento in Spagna, con iniziative editoriali importanti che non solo si fanno carico di rieditare i classici dell'operaismo italiano, ma anche testi più recenti. Ci sono compagni che stanno facendo un lavoro straordinario dentro case editrici importanti, è un po' un'operazione come quella che fu Materiali Marxisti dentro la Feltrinelli negli anni '70. C'è una significativa presenza in Inghilterra, Canada e negli Stati Uniti, in ambiti non solo accademici. Insomma, c'è un fermento di diffusione di questi temi e di questi impianti teorici ormai a livello europeo e internazionale. Si tenga presente che negli ultimi vent'anni i testi classici dell'operaismo sono stati tradotti praticamente in tutto il mondo. Certo, resta una cosa ancora circoscritta, di nicchia, prevalentemente di dibattito intellettuale.
Riguardo le aree di riflessione teorica che condizionano i nuovi movimenti credo che un considerevole ruolo lo abbia svolto il circuito che si raccoglie attorno a Le Monde Diplomatique. Deleuze è stato un'autore molto letto negli ultimi dieci anni con risultati importanti dal punto di vista dell'elaborazione di nuovi paradigmi. L'equivoco dei teorizzatori del "pensiero debole" pare invece fortunatamente risolto. Poi c'è il filone del pensiero "felicista", quello del sicuro progresso e liberazione attraverso lo sviluppo informatico comunicativo che sopravvive nonostante il chiaro approdo nei lidi della nuova destra. Pensieri che hanno condizionato il dibattito e la ricerca per tutti gli anni '80 e '90.
Personalmente a me interessa solo tutto ciò che si riferisce alla trasformazione dei rapporti materiali di produzione e riproduzione. All'attuale movimento andrebbe detto che ogni minuto perso rispetto a questo riferimento è un minuto perso rispetto ai processi di liberazione.
Per cui la grande battaglia da fare dentro il movimento, per gli strumenti che abbiamo, la cultura che portiamo, è questa: con tutte le mediazioni possibili, con tutto il rispetto dei passaggi e delle differenze, però il principio fermo su cui non derogare è la questione di riportare tutto a questa banale questione, che tra l'altro è quella fondante dell'intera nostra storia; il problema è infatti ancora quello antico del come si lavora, come viene sfruttata la gente ecc.


Quali sono stati i numi tutelari del tuo percorso di formazione, intesi sia come figure sia come testi di riferimento?

Sono quelli classici e ricorrenti dentro la tradizione teorica operaista. Con alcuni nei termini della semplice lettura dei testi, soprattutto coloro che dal '67 al '77 hanno preso la strada che sappiamo; con alcuni degli altri ho avuto la fortuna di una conoscenza e di una frequentazione personale intensa, quotidiana, anche per lunghi periodi. Parlo in particolare di Toni Negri, Luciano Ferrari Bravo, Giairo Daghini, Nanni Balestrini, che non è stato un teorico dell'operaismo, però sicuramente una sua, per così dire, articolazione artistico-poetica. Con queste persone ho condiviso innanzitutto l'amicizia, poi la militanza, il carcere, l'esilio. Con Sergio Bologna non ho vissuto nulla di tutto questo ma è stata una delle persone il cui pensiero ho sempre considerato importantissimo, per rigore, lucidità, acume. Questo per quanto riguarda i "padri nobili" della riflessione teorica e classica dell'operaismo, i "cattivi maestri".
Ma ho avuto l'ulteriore fortuna di rapporti con decine di altri soggetti della tradizione militante di derivazione operista appartenenti alla mia generazione e a quella precedente, tra questi Alberto Magnaghi, Franco Piperno, Franco Berardi (Bifo), Lucio Castellano, Paolo Virno. Poi c'è stato il rapporto fondamentale con Primo Moroni che, anche se non è ascrivibile appieno alla tradizione operista, comunque è stata una persone che ne ha sicuramente seguito fino in fondo e molto profondamente il senso, la storia, le radici.

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