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INTERVISTA A FRANCO "BIFO" BERARDI - 19 NOVEMBRE 2000


Lì c'è stata secondo me una strada sbagliata, perché il momento in cui il problema si è posto è stato il settembre del '77 al convegno di Bologna, anche per la potenza simbolica che aveva assunto quell'evento, nel senso che in qualche modo l'attesa era che lì si condensavano dieci anni di esperienza e si aprivano i dieci anni successivi. Io ero latitante, quindi il convegno di Bologna l'ho seguito al telefono, non c'ero di persona ma ho cercato di capire quell'evento, che d'altra parte avevamo lanciato io e Guattari, quindi è proprio una cosa che noi abbiamo minuziosamente preparato, sbagliando tutto: per esempio, abbiamo sbagliato nel lanciare l'appello sulla repressione, cioè noi non avremmo dovuto concentrare l'attenzione sulla repressione, non doveva chiamarsi convegno contro la repressione, doveva chiamarsi convegno per la sperimentazione di nuove forme della società. Tra l'altro debbo dire che poi siamo stati fessi anche, perché nella nostra esperienza precedente avevamo imparato che non bisogna mai mettere l'accento sulla repressione come se fosse l'unico punto dello scontro. Comunque lì la concentrazione sul problema del muro contro muro, sul problema della repressione ci ha portato a creare una situazione favorevole ad una svolta di tipo militarista, non c'è dubbio. Quella doveva essere l'occasione invece per lanciare un processo di sperimentazione.


Spesso quando si parla di leninismo ci si riferisce a un qualcosa di assolutamente decontestualizzato che ripropone delle rigidità quando addirittura non dei feticci di forme organizzative precostituite. Questo ha però molto poco a che fare con il Lenin che ha indagato la soggettività operaia, la nascita del capitalismo in Russia, quindi una dinamica di contesti che andavano mutando in cui si è posto nella teoria e nella prassi il nodo del rapporto tra spontaneità e organizzazione. In questo senso non si danno soluzioni organizzative staticamente valide ed esportabili in qualsiasi contesto, però lui è riuscito a porre la questione ed affrontarla nell'ambito di un processo reale. Rispetto alle chiusure di cui parlavi tu, questo Lenin non è stato molto studiato.

Lenin, per grande o grandissimo che sia stato, è un uomo che pensa al XX secolo. E' veramente il pensiero del XX secolo, da molti punti di vista: l'analisi dell'imperialismo, il rapporto tra Stato come cervello e realtà sociale come articolazione in qualche modo decerebrata, la stessa nozione di lavoro intellettuale. Il "Che fare?" è un libro geniale per capire il rapporto tra lavoro intellettuale e lavoro produttivo nell'epoca del capitalismo industriale nascente: ma tutte queste sono delle false piste quando invece sta per l'appunto modificandosi l'essenziale di questa questione. Per esempio, si veda il problema del rapporto tra lavoro intellettuale e lavoro sociale: in Lenin c'è un lavoro sociale operaio senza autogoverno e un lavoro intellettuale senza produttività sociale, quindi il problema del partito è mettere le due cose in correlazione, il partito è la coscienza del processo che manca al lavoro produttivo, solo stante questa condizione il lavoro produttivo potrebbe darsi quella coscienza storica. Tutto questo, al di là della patina idealistica, è perfettamente funzionante nella realtà della società industriale, ma noi negli anni '70 dovevamo creare le condizione per pensare la società postindustriale. Il fatto essenziale della nostra esperienza è che noi abbiamo fatto l'ultimo movimento della classe operaia industriale ma contemporaneamente abbiamo anche fatto il primo movimento di autorganizzazione del lavoro mentalizzato. Il '77 è questo, ma anche il '68 in fondo è questo, cioè è anche il lavoro di quello che dice Krahl, cioè il primo movimento di autorganizzazione del lavoro tecnico-scientifico, è la prima volta in cui il sapere non concepisce più se stesso come qualcosa di esterno rispetto alla composizione sociale, ma il sapere concepisce se stesso come articolazione interna al sociale. Non era Lenin la chiave: a ripensarci (già lo pensavo allora ma lo penso ancora di più adesso) mentre la riproposta di Marx aveva degli elementi straordinari, perché lì proprio il concetto di general intellect ti permette di impostare il problema dal punto di vista più avanzato possibile, la riproposta di Lenin era comunque, anche nella migliore delle ipotesi, una strada che ci portava in una direzione inutile o pericolosa. Mica perché Lenin era più soggettivista o più malandrino, ma semplicemente perché poneva un problema troppo strettamente determinato da quella composizione del lavoro intellettuale e del rapporto tra lavoro intellettuale e lavoro operaio.

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