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INTERVISTA A FRANCO "BIFO" BERARDI - 19 NOVEMBRE 2000


In qualche modo io ho sempre percepito un doppio discorso interno a PO: da una parte un discorso ufficiale che si faceva al congresso, al convegno, all'incontro, insomma nei luoghi della discussione politica, dove in fondo l'assunzione di un'ipotesi di tipo leninista (quindi la costruzione della struttura di partito, l'identificazione dell'organizzazione come il luogo che in qualche modo deve dirigere il movimento), tutto questo faceva parte del linguaggio ufficiale; però, nella discussione non ufficiale, diciamo così, la percezione di sé del militante di PO era di tipo spontaneista. Cioè, anche se il discorso ufficiale era quello di tipo leninista, noi ci sentivamo comunque i meno leninisti di tutta la famiglia. Debbo dire che questo ho continuato a percepirlo nel comportamento quotidiano: io per anni ho fatto il nomade, andavo tra Torino, Milano, Bologna, Roma, Ferrara, ma anche altre situazioni (non in Veneto), dove avevo un certo numero di amichetti, generalmente dell'area di PO, più o meno militanti, ma tutti con un rapporto molto free sul piano organizzativo, e però gente che poi interveniva in una fabbrica, lavorava in una fabbrica saltuariamente, faceva questo e quello, con un riferimento politico generale all'organizzazione, ma poi con l'organizzazione poteva avere anche un rapporto militante ma molto ironico, cioè "sì, d'accordo, il venerdì c'è la riunione di partito e faccio finta di essere un militante di partito, ma in realtà sono un agitatore anarchico". Questo elemento di autoidentificazione libertaria, spontaneista, per me è sempre stato il segnale di riconoscimento più forte del militante operaista; e la forma organizzativa leninista in qualche misura era sovrapposta a questo tipo di identità. Forse non è stata la stessa cosa a Roma. Da un certo momento in poi alcuni settori e componenti hanno finito per prendere molto sul serio quella svolta anche sul piano personale, fino alle conseguenze poi diciamo della scelta di organizzazione armata. Ma fin quando l'esperienza di PO è stata viva e attiva direi che sul piano culturale l'identificazione fondamentale non era quella leninista ma era quella spontaneista.
Nel '72 sono stato arrestato, subito dopo la morte di Feltrinelli: la settimana successiva, evidentemente nell'ambito delle ricerche e delle indagini, mi hanno arrestato, sono stato in galera per sei mesi e quando sono uscito, nell'estate del '72, per alcuni mesi ho cominciato a fare lavoro politico a Francoforte. Ho dimenticato un piccolo particolare, e cioè che dopo il congresso di Roma, nel luglio del '71, io ho chiesto ufficialmente (e mi sembrava una bizzarria estrema e un segnale di tipo polemico) l'iscrizione a Lotta Continua. Cosa per cui per due mesi ho anche frequentato la sede bolognese di LC, contemporaneamente sul giornale Lotta Continua usciva un articolo di Guido Viale che mi attaccava personalmente per "Contro il lavoro", questo libretto considerato come un segnale di follia estremista. Dico questo perché in fondo il rapporto di militanza io l'ho considerato come una cosa molto alla cinese, fatto di gesti simbolici, in cui non ha nessuna importanza la fedeltà di partito, mentre ha importanza il fatto di spostare un poco gli elementi simbolici che definiscono il quadro. Per cui in quel momento Lotta Continua ai miei occhi rappresentava una componente più spontaneista di quanto fosse Potere Operaio; anche se sapevo benissimo che la sostanza teorica di quello che Potere Operaio aveva elaborato aveva uno spessore molto maggiore di quello che aveva prodotto Lotta Continua, però in quel momento mi sembrava importante accentuare un discorso sul carattere di spontaneità del movimento, quindi insomma un discorso di tipo antibolscevico. Il mio rapporto con Lotta Continua poi è sempre stato molto amichevole anche perché nella vita quotidiana era la gente che frequentavo di più; abbandonata la casa con Franco Piro mi ero trasferito a casa di un gruppetto di persone di LC con cui poi ho vissuto nei vent'anni successivi. Tutto questo aveva dunque dei caratteri che mi fa un po' ridere vedere come politici, facevano parte proprio del quotidiano. Nel '73, quindi dopo essere uscito dal carcere, ho passato un periodo a Francoforte dove c'era una piccola sezione di Potere Operaio fatta di operai della Opel di Russelscheim con cui ero in contatto. Poi avevo anche fatto uscire un opuscoletto che si chiamava "Classe operaia multinazionale" (lì a quel punto avevo ripreso i rapporti con Negri anche), dove si tentava un poco di riproporre un percorso di autorganizzazione non leninista a livello internazionale, partendo dai circuiti spontanei di movimento degli operai immigrati. E' anche il periodo in cui escono un certo numero di copie di Potere Operaio dedicate proprio al problema dell'immigrazione: mi ricordo che c'era un numero che si chiamava "Friulani negri d'Europa", sull'immigrazione friulana, sulla sua capacità di funzionare come elemento di autorganizzazione a livello europeo. Cioè, si tratta di una serie di intuizioni che in fondo dal mio punto di vista costituiscono il vero contributo di Potere Operaio, mica l'organizzazione di qua o di là, ma l'individuazione di alcuni nuclei di grande potenza autorganizzativa, come l'individuazione del fatto che l'immigrazione è un fattore di autorganizzazione culturale, quindi politica ecc. Sono poi intuizioni che hanno lavorato molto al di là della crisi politica, della fine politica del gruppo.

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