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INTERVISTA A FRANCO "BIFO" BERARDI - 19 NOVEMBRE 2000


Io ho sempre avuto simpatia per un'ipotesi nella quale la politica non ci fa fare nessuna fatica, cioè non è che noi dobbiamo fare qualcosa, per cui dobbiamo organizzare gli operai fuori dalla fabbrica, dobbiamo costituire il reparto d'avanguardia, dobbiamo batterci perché questo o perché quello. Non c'è nessuna fatica da fare, si tratta semplicemente di assumere consapevolmente la direzione del processo medesimo. D'altra parte la cosa che da Tronti in poi mi pare forte in tutto il pensiero operaista è l'idea secondo cui c'è un'alleanza fortissima tra classe operaia e capitale, che è l'alleanza che si manifesta poi con lo sviluppo tecnologico. Cos'è lo sviluppo tecnologico? E' il risultato di una pressione comune degli operai che vogliono lavorare di meno e dei padroni che vogliono avere meno rompicoglioni tra i piedi, questo è il punto: e quanto più casino fanno gli operai tanto più i padroni saranno indotti a sostituirli, il risultato è che si lavora di meno, e il risultato è anche che l'intera società gode di una maggiore potenza produttiva del general intellect, dell'intelligenza trasformata dei macchinari ecc. Lo schemino di fondo funziona alla perfezione negli anni '60 e '70, cioè negli anni '60 e '70 accade proprio questo, ossia che la pressione operaia incontra una disponibilità capitalistica all'innovazione e il risultato è quello che accade poi con l'introduzione dell'informatica: è a quel punto che noi abbiamo perso il filo del ragionamento, perché nel momento in cui cominciamo a pensare che compito dei rivoluzionari sia quello di opporsi alla ristrutturazione tecnologica a quel punto non ci si capisce più niente, per cui inizia quel processo in cui sembra che la soggettività debba costituirsi al di fuori del processo di autorganizzazione sociale, del processo di costituzione del general intellect e c'è quel periodo di soggettivismo scatenato che poi coincide con la disfatta. Ecco, l'elemento forte (forte allora ma forte anche oggi) consiste invece nel riconoscere che c'è un'alleanza tra soggettività autonoma, tra composizione autonoma della società e interesse capitalistico; quando quell'alleanza si determina è un'alleanza sempre conflittuale, però accanto alla conflittualità bisogna anche riuscire a vedere la cointeressenza. Se si perde di vista la cointeressenza si crede nel fatto che la soggettività sia capace di costituire il mondo, e io non ci credo, diciamo che si crede nel fatto che il mondo sociale è il prodotto della volontà politica che si costituisce in elemento totalitario, perché poi il punto è questo, se si crede nella potenza costitutiva della volontà politica l'unica cosa è fare come fa Pol Pot per cui quelli che hanno gli occhiali li mandiamo nei campi di concentramento; altrimenti è dall'interno della dinamica sociale che bisogna trovare gli elementi capaci di produrre l'innovazione.


C'è un'ambivalenza nell'innovazione capitalistica, per cui da una parte c'è l'apertura di tutta una serie di nuove potenzialità che possono controusarsi criticamente in un'altra direzione; c'è però l'altra faccia della medaglia, quella oggi dominante, che è il discorso del dominio, dei fini, di dove tendono processi capitalistici che non sono dati oggettivamente ma sono il frutto di quello che tu chiamavi uno scambio conflittuale. In Marx c'è il rischio del trovarsi in un circolo chiuso, per cui c'è un'eccezionale individuazione delle linee di tendenza, però resta irrisolto il problema che nell'ambivalenza dello sviluppo il prevalere di una direzione o di un'altra non è deterministicamente e oggettivamente dato.

Io vado in una direzione diversa da quella che tu suggerisci, e la direzione nella quale vado io è questa: se c'è un problema nel pensiero di Marx sta nel concetto di struttura e sovrastruttura. Cioè quello che manca, se si vuole, al discorso di Marx rispetto al general intellect e alle implicazioni che questo contiene, è l'idea secondo cui c'è una sfera della soggettività o della soggettivazione che è la sfera del culturale, non dell'organizzazione politica. Il vero problema è che si tratta di creare le condizioni culturali, antropologiche, quotidiane, abitative, relazionali, psichiche, comunicative e così via perché un processo di autorganizzazione della società possa liberarsi dei vincoli che il comando capitalistico determina. Però, Lenin individua una modalità specifica di questo autocostituirsi del culturale, ed è una modalità specifica che non si può assolutizzare; dopo di che il leninismo ha detto "dal momento che nella Russia del '17 ci si è costituiti in partito e il partito ha rappresentato il reparto d'avanguardia della classe operaia, e la classe operaia ha rappresentato il reparto d'avanguardia della società, così bisogna fare dovunque". Solo che nel frattempo la classe operaia era diventata maggioranza della società mentre in Russia ne era una piccola parte, il lavoro tecnico-scientifico non era più un elemento emarginato ma era diventato elemento centrale: era cioè cambiato tutto. E' questo il punto: io non nego affatto che il leninismo sia stato un'esperienza puntualissima ed efficacissima, ma nel 1917 a San Pietroburgo e non nel mondo per tutto il XX e il XXI secolo. Dopo di che è vero che come tu dici c'è un limite interno all'impostazione di Marx dei "Grundrisse", ma quel limite (che è più di Engels che di Marx) è relativo alla distinzione deterministica tra struttura e sovrastruttura, l'idea secondo cui la struttura determina la sovrastruttura, cioè l'economico determina il culturale: non è così perché il culturale fa parte dell'economico e l'economico fa parte del culturale. Lì è tutta un'altra questione che è relativa alla rigidità del materialismo dialettico su questo punto.

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