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ROMANO ALQUATI
SUL SECONDO OPERAISMO POLITICO. Estate 2000


Ad esempio, la formazione, dico io, è sempre anche violenza: violenza sulle anime e sulle menti (pure sui corpi), di solito altrui, ma l'autoformazione è pure violenza su se stessi. Ma per cosa? Non a caso anni fa a Genova in certi centri sociali i ragazzi mi dicevano d'essere contro ogni formazione, ma per il contagio, la contaminazione. Comunque, oggi se una certa ingegneria delle anime non la fai tu, la fa certo tutt'oggi il padrone, malgrado certe potenzialità della rete nelle quali declina proprio la padronanza; e lui la fa ancora e senz'altro, ancora con efficacia ed efficienza. Allora spesso bisogna ancora scegliere tra almeno due violenze, e bisogna farlo per "salvare la dignità umana"; non è meglio allora farlo consapevolmente che senza rendersene conto, illusi: bisogna usare ancora la violenza pure per mettere fine alla violenza? Il vecchio paradosso? Questo è comunque parte dello "sguardo tecnico sul mondo"?
Ma il fatto è anche che non tutte le violenze si equivalgono! Anche in termini qualitativi. Se non si scava anche qui e non si sceglie qui dentro, limitando, anche nel tempo, anche interpretando ed un poco discutendo, di molte di queste conflittualità del sincretismo antagonista secondo degli scopi comuni non te ne fai molto. Infatti, lì neghi proprio il progetto comune, gli scopi comuni. Resta solo una comune maniera di sentire?...
Inoltre è necessario porre la differenza fra la semplice conflittualità e l'antagonismo. Si può essere in conflitto e lottare per prendere il posto dell'avversario e voler fare quello che fa lui, occupare la sua posizione. Questo non è antagonismo. Molte volte poi è perfino meno peggio la civiltà capitalista del mondo che vorrebbero alcune di queste persone che sono o si mostrano in conflitto! L'essere "arrabbiati", dunque, non vuol dire essere antagonisti. L'antagonismo è in relazione con l'alterità: questa non è necessariamente unica, ce ne possono essere più di una; allora bisogna ancora scegliere! E nella scelta magari tuttora la vera linea é il metodo... Scegliere anche i criteri della scelta. Oppure conformarsi, conformare.
Di tutto ciò era consapevole non solo il gruppo bolscevico, ma ad esempio anche Gramsci quando parlava di formazione dei militanti. Io di Lenin, dal '54 circa fino a dieci anni dopo, rileggevo soprattutto il "Che fare?". La questione del metodo. Sono sempre stato stupito di come egli malgrado tutto fosse spesso più consapevole dei limiti ed i rischi della sua politica di molti dei suoi stessi critici; malgrado tutto nelle condizioni generali ancora allora vigenti l'esplorazione meno peggiore pareva la sua... poi l'ottobre rosso (durato solo qualche anno: nel '21 era già fallito?) rimane lo stesso il maggior evento storico del '900. Già negli anni '950 la mia generazione ha fatto talora (almeno un poco) i conti con questo nodo oggi rimosso. Ma oggi la realtà è davvero molto cambiata e siamo solo all'inizio di una nuova ulteriore fase. Si può rivedere tutto quanto, anche la storia, assai diversamente da solo qualche anno fa. Ma come si riproporrebbero oggi certi atteggiamenti e stili di ieri?
Premetto che io metto i desideri ben al di sopra dei bisogni. Ero passato un poco per Jung anch'io! Oggi ci sono quasi solo più bisogni: negatività, mancanze, adesso "indotte dal sistema", con la pubblicità, la promozione, i modelli e le mode, ecc. Il padrone ha vinto forse più coi rotocalchi che con le nuove tecnologie! Si oppongono forse i desideri radicali... Ma chi ne parla? Inoltre, ad esempio, si può e si deve ancora essere in grado di individuare certi interessi, bisogni e desideri che la gente o altri ha ma non sente, non avverte con coscienza: avere questa presunzione? Pur mirando alla consapevolezza anche altrui, o a mettere pure gli altri in condizione di controllare la propria situazione ed in specie il proprio lavorare specifico e pure riproduttivo, di progettarlo, di esperire ecc.: il micropezzettino della megamacchina. O essere, in partenza, all'inizio, in grado di fare una critica che altri non si trovano in grado di fare, d'avere informazioni e soprattutto conoscenze che essi non hanno. Noi allora lo pensavamo, anche assumendoci certe contraddizioni. Ecc. ecc. Ancora oggi non tutti gli esperti sono equivalenti, in particolare nella dimensione di un avvio di uscita dal feticismo, e non c'è una maniera unica di usarli: ci sono livelli in cui un certo specialismo in certe cose piuttosto che altre può servire. La mia ipotesi è che sono tuttora opportuni dei formatori: antagonisti. Dei contro-formatori. Dei violentatori d'anime altrui in alternativa alla formazione capitalistica. Il problema è, come si diceva un tempo, che il formatore deve essere formato. E come lo è, e quindi come forma e per cosa... Contro-formare, come, con che fini, metodi, contenuti, ecc. Oppure, come quasi tutti, conformare o lasciar conformare.
Oggi la formazione si trova al centro di tutti i differenti percorsi. Che adesso se ne parli tanto e sempre di più di per sé non è una gran buona cosa per noi! Bisogna stare attenti: occorre distinguere scopi, contenuti, risorse e metodi: metterli a confronto rispetto a certi fini: ad esempio il suddetto riscoperto (dal Màdera) comunismo secondo Marx! Metterlo al confronto col muoversi...
Quello che il padrone ha saputo fare di più e meglio è proprio la formazione ideologica dell'"iper-proletariato", coi mass-media (coi rotocalchi...), con l'intrattenimento. Dunque, la soggettività non è una zona bianca, neutra. Essere pluralisti, ma che si tratti d'antagonismi veri: soprattutto nella maniera di porre e di vivere, ma anche nei contenuti! Non c'è più l'ortodossia della linea unica; per me che anche negli anni '60\'70 ero abbastanza "movimentista" mio malgrado forse non c'è mai stata; ce ne possono essere tante. Ma ipotizzo che quasi tutte lasciano un certo spazio pure ad un nuovo "contro-lavoro" di nuova militanza, non escludono necessariamente neppure un certo (residuale?) radicamento, magari mobile, nell'arco delle 24 ore, magari in deterritorializzazione; purtroppo però dalle nostre parti ben pochi si deterritorializzano, ed i più di loro si riterritorializzano subito, e poi si ancorano lì...: in produzione con la minuscola e in riproduzione, semplice ed allargata... Entrambe e sempre più la seconda sono adesso Produzione: ancora di capitale, nella sua ambivalenza, ed accumulazione. Purtroppo, forse, qualcosa che in Italia si vede ben poco è proprio l'esodo: da noi gli italici esodavano molto di più negli anni '50\'70: che cos'era la stessa migrazione? Adesso esodano ad esempio molti islamici, venendo qui, sempre di più, inesorabilmente. Finché sono minoranze... Diventiamo islamici? Speriamo che il capitalismo islamico sia migliore? E basta?
Ripeto. Il capitolo de "Il capitale" sul feticismo delle merci è quello che impressiona di più gli intellettuali, almeno da cinquant'anni. Ma da questi le merci vengono sempre identificate con i beni tangibili: per costoro, quindi, l'operaio proletario (e in quest'accezione il termine più importante per me è proletario, non operaio) produce le merci, che sono delle cose (nel senso del sensibile, del tangibile: cose tangibili), per costoro; è il "materialismo volgare". Però ho già detto e ripeto che la cosalità di cui parla Màdera non si riferisce, invece, alle cose tangibili. Il feticismo delle merci non è il feticismo delle cose tangibili. Pure Foucault, Sartre e altri intellettuali, anche esistenzialisti (soprattutto francesi), pensano solo alle cose tangibili. Inoltre mentre le cose diventano persone, le persone e i rapporti sembra che per loro non diventino, non siano diventati, cose... Che la reificazione ai suoi vari livelli di realtà non ci sia stata. Si limitano alla prima metà del feticismo delle merci, alla metà meno importante! Si veda ad esempio "Spettri di Marx" di Derrida: è tutto incentrato sul feticismo delle merci intese come cose tangibili. Ma anche il proletario, quello che io chiamo l'agente-lavorizzato-umano, è merce, ed allora il discorso deve cambiare completamente. Ma di questo Derrida non s'accorge: eppure sono secoli...: è come la storia del sapere che non si deve mercificare e non può essere mercificato, eppure la proletarizzazione lo fa da secoli, e lo fa soprattutto. Noi, innanzi tutto noi, siamo ancora merce! Quindi, non si può andare contro le merci (intese come cose sensibili) solo in nome dell'uomo d'oggi, perché anche questo è tutt'oggi merce; anche se adesso intorno alla rete si intravede finalmente qualcosa che legittima discorsi se non sulla fine almeno sulla riduzione della proprietà stessa e del vecchio mercato della proprietà contro denaro e allora delle vecchie merci: si riapre il discorso della neo-merce (che aveva iniziato ingenuamente fra gli altri il mio amico Marco Merlini). Siamo ancora merce, magari in affitto, da sempre in affitto, innanzi tutto noi! La prima neo-merce! Sono secoli che la capacità-lavorativa umana si cede in leasing! Non lo dico come ipotesi provocatoria. Inoltre, solo giù in basso, dal medio raggio in giù c'è la differenza: le merci non hanno tutte lo stesso valore-d'uso; perché fra l'altro il valore-d'uso finora si è piuttosto trasformato ma non è per niente finito. Sebbene magari adesso per alcuni avrebbero cominciato a finire proprio le merci! E' da vedersi... Poi, ripeto, occorre passare dal feticismo delle merci al feticismo del capitale. Ponendo anche l'ambivalenza dello stesso capitale, che contiene come sua parte anche i lavoratori proletari, iperproletari: con le loro lotte.

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