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ROMANO ALQUATI
SUL SECONDO OPERAISMO POLITICO. Estate 2000


Su questo ritornerà fra noi soprattutto dal '65 la faccenda abbastanza tattica, almeno per me, dell'"operaismo politico bis" (che pure chiuse e liquidò alcune novità ed esperimenti nostri, significativi, dei primi anni '60). Ripeto che fra il molto altro, il secondo operaismo-politico aveva uno spazio notevole anche nell'"ordinovismo" ancora caratteristico del "movimento operaio ufficiale" torinese malgrado certe vetustà soprattutto "politiche". A parte l'operaismo neopopulista del sindacato (in specie FIM) e dopo sviluppato da molti gruppetti populisti post-sessantotto.
Su questa base di com'erano, e perché, gli operai effettivi all'inizio degli anni '60, in specie in certe componenti, ancor oggi dissento da almeno una metà di quel libro importante del giovane Màdera, dove fa proprie ancora troppe delle astratte forzature contenute nel modello presunto marxiano: lo ribadisco a vent'anni dalla morte (almeno nell'Occidente) di quella transeunte ed effimera centralità operaia medesima. Essendo piuttosto movimentista, io fui parecchio interessato alla distinzione fra il politico e la politica (istituzionale), oggi politichetta, e rivolto soprattutto al primo, e magari ad una dialettica dei due. Sono più di trent'anni che parlo di "politicità intrinseca" di questo e di quello... D'altronde in uno dei primi Q.R. De Caro aveva criticato e respinto l'approccio istituzionale ed istituzionalista alla storia, ed al presente, esclusivo nel PCI. Le questioni politiche però non furono granché indagate a fondo nei primi anni '60. Allora dal '64 mi incentrai anche sul punto di incontro fra militanti ed attivisti: su quel grande travaglio che avveniva lì. Ma dal '65 gli "operaisti politici" di ritorno, persa la fiducia nella "nuova classe operaia" e nelle sue "giovani forze" (dissi io) fusesi dialetticamente con le vecchie, abbandonarono il "movimento degli operai" proprio alla vigilia della più grande esplosione di lotte operaie della storia italiana ed in parte pure europea, sebbene queste fossero il canto del cigno della lotta di classe operaia nostrana; e parecchi regredirono a vecchie formule ed alcuni anche all'entrismo: così nell'inizio del '66 me n'andai da lì anch'io e mi privatizzai; e continuai a studiare e ricercare ed a con-ricercare con nuovi compagni. Guardando poi dall'esterno anche un poco all'autonomia del politico e financo al partito laico, magari come "armamento leggero"; ero almeno curioso, pur nel mio forte pessimismo, sul comunismo operaista e politico dei quadri, che si era fatto più forte proprio da quando se ne intravedeva la sconfitta ed il futuro declino, che poi fu di una rapidità incredibile. E sono tornato di tanto in tanto a dir la mia con alcuni testi che sono perfino riuscito a pubblicare ed hanno lasciato ancora un certo segno, perché ancora anticipavano... E in cui cominciavo, alla metà degli anni '70, a prendere le distanze anch'io dagli operai vecchi e nuovi pure fra loro ricomposti, esplorando anche altre "nuove forze".
Però, secondo me, e me quasi solo, replico pure che sarebbe stato necessario allora conoscere e valorizzare anche quello che c'era nei vissuti operai, in senso ampio, e dunque nella loro sconosciuta e ripudiata soggettività, passando anche per gli individui, l'effettiva soggettività operaia, che, ripeto, certo non era tutta e sempre soggettività antagonista: tutt'altro! Ma talora sì. Solo il padrone capiva questo e l'usava e ne cercava il controllo; gli intellettuali organici "marxisti-leninisti" e piccolo-borghesi del movimento operaio "istituzionale" purtroppo no. La religione comunista\collettivista solo per la proprietà oscurava la vista. Già negli anni '50 dicevamo che solo il padrone più avveduto aveva letto e capito "Il capitale" di Marx... E che Marx era stato capito più da certa destra che dai sinistri democratici. E poco dopo anche Nietzsche e Freud, e Weber, ecc.


Ritorno un poco a Màdera

Ma è uscito nel '97 un altro importante libro di Màdera (il suo terzo), più politico e soprattutto meno chiuso e rigido: "L'alchimia ribelle", con una bella parte contro Severino; e nel '99 l'ancora più sintetico "L'animale visionario", Il saggiatore, (il quarto); entrambi sempre fondati sulla teoria marxiana reinterpretata del feticismo. Le analisi teoriche di questo milanese sono comunque opposte a tutte quelle fatte nell'ambito operaista, da Tronti a Negri, per non parlare dei marxisti tradizionali (cominciando da Panzieri...). Egli parla di un Marx che, così, non l'ha mai valorizzato (quasi) nessuno, di un Marx per lo più quasi sconosciuto! Due paroline in prima istanza.
All'inizio del nuovo libro del '97 Màdera nomina (fra il molto altro) quello che secondo lui è forse il nostro maggior nemico, il più nefasto prodotto del feticismo capitalistico: questo è la "cosalità". Ma cos'è questa cosalità alla quale l'umanità occidentale ormai appendice della grande macchina, del grande automa, per di più, è sempre più ridotta? Orbene, le "cose" nel materialismo (volgare) possono essere intese come la materialità sensibile contro le astrattezze, contro le idee e le idealità: le cose sensibili, che si percepiscono coi sensi e sulle quali si può appoggiare il nostro senso della realtà. Ma oggi il lavoro umano occupato e dipendente nel nord del mondo è ormai prevalentemente riproduttivo, lavora e consuma nei servizi primari di riproduzione della capacità umana, ed è proprio qui il regno dell'intangibile; e tantopiù in quello cosiddetto autonomo. Il buono qui allora è invece anche che Màdera non vuol affatto dirci che il nemico è il tangibile; le cose oggi non si possono più intendere come il sensibile, o come il materiale\sensibile. Il nemico semmai oggi è una cosalità intangibile, insensibile. Oggi arretra la percezione, e non solo l'esperire sensibile. Non per nulla però fin dalle sue origini l'adattamento umano ai diversi e mutevoli ambienti é culturale e richiede l'onirico, il visionario, l'immaginazione, ecc. Màdera ripartendo da qui (anche contro Gehlen) ce n'offre (già dal '77) una concezione "immateriale", nel senso di insensibile, importante; anche se un pochino a spizzichi e dispersa fra le pagine. E lì c'è dunque una critica forte della cosalità come momento del feticismo, poi pure capitalistico, anche immateriale ed intangibile (e non dal punto di vista della metafisica). Il feticismo capitalistico poi sfocia nella nostra assenza di controllo, consapevolezza e quindi progettazione autonoma nel lavorare, nel lavorare-specifico, aggiungo io, lavorare in tutti i sensi, anche nella propria riproduzione, semplice e allargata, anche nel tempo libero e nel consumo; e dunque anche nel consumo finale e nella politica: e questo è appunto il nucleo più rilevante della nostra cosalità. Questo oggi è un nodo assai importante, in cui scavare molto... Storia generica e categorie specifiche.
Purtroppo nel farci la storia del feticismo a mio parere Màdera partendo giustamente dalla merce e dal feticismo della merce oscilla fra una merce impropria, pre-capitalistica, e la merce in senso proprio, che è appunto quella capitalistica, e fa una certa confusione fra certi momenti generici ed impropri del feticismo medesimo ed il feticismo della merce specifica, e del valore, del denaro in senso proprio, ossia dentro il capitalismo ed il capitale, ed in fine col feticismo del capitale. Così si confonde un poco il lungo processo generico di centinaia di migliaia d'anni d'uscita dall'animalità, la quale rimane al di sotto come momento incluso e trasformato, con appunto lo sviluppo del relativamente recente feticismo del capitale: che magari ormai sta declinando a sua volta?
Màdera (in parte) va contro Gehlen, ritornando a Jung e di lì ripartendo, per arrivare oltre Jung (ed oltre Marx). Egli non è laicista. Ha scritto anche un libro che s'intitola "Dio il mondo" che a me non è molto piaciuto. La necessità che Màdera propone e m'interessa di più però non è tanto neppure quella di riconsiderare le religioni più o meno tradizionali, dall'animismo e la superstizione (riguardo alla magia), al monoteismo della civiltà contadina, ed i movimenti eretici ed i protestantesimi più radicali: come funzionano oggi, ecc.; cose che pure mi interessano molto. Bensì è, negli altri suoi testi e in specie negli ultimi, soprattutto la necessità di criticare e capire la "religione della quotidianità capitalistica", la sua genealogia, tendenza, portata: questione ritrovata anch'essa in Marx. Il capitalismo stesso come religione! I modelli di vita che nella nostra società in specie i mass-media, i rotocalchi, con grande potenza continuamente propongono ed impongono, colonizzando le menti: modelli presi vissuti ed osservati come dogmi di una religione tendenzialmente globale, spesso però compatibile con altre: nuove ed antiche. Che sovente riprendono slogan circolati nelle lotte della classe operaia del fordismo classico, ed appunto momenti di quella soggettività-operaia di cui gli operaisti non vollero granché occuparsi. E lì dentro semmai si rinnova la religione della tecnica, la religione della tecnoscienza e la tecnica realizzata come Dio (che ripeto, ritrovammo negli anni '50 nel marxismo-leninismo e nella vecchia tradizione e vecchia religione comunista\collettivista). Replico che di religione mi sono sempre interessato molto anch'io.

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