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ROMANO ALQUATI
SUL SECONDO OPERAISMO POLITICO. Estate 2000


In vero limitatissimo era il taglio con cui fra i panzieriani stretti si pensava alla cosiddetta "classe operaia". Essi al più volevano studiare scientificamente qualche aspetto della forza lavoro come forza produttiva del capitale. Nella ricerca sul nuovo capitale (che se si fosse davvero fatta sarebbe già stato molto...), che Panzieri vendeva in giro ma non aveva nessuna idea neppure su come iniziarla. Su pochissimi aspetti dell'effettivo rapporto classe-partito Panzieri, e non solo lui, in vero fu disposto a cercare (o meglio a lasciarci cercare, nella misura in cui dipendevamo da lui) dati e conoscenze. Ma non tanto per un qualche tatticismo, bensì proprio per la sua vecchia ed inadeguata e modesta visione strategica, da trozkista\luxemburghiano, da trotzkismo italiano inchiodato al vecchio socialcomunismo dell'operaità di mestiere.
Però è importante che, almeno, ci si renda conto di cosa significa questa mia ipotesi pure di un movimento operaio italiano e soprattutto torinese lavorista, operaista, scientista, tecnicista, sviluppista, produttivista, statalista, oggettivista, nazionalista, maschilista e "mestierista". E che forse tantopiù lo erano proprio certi militanti comunisti, che stavano in prevalenza ancora nel PCI: i più duri col capitalismo e col riformismo; spesso duri anche con la stessa FIOM che avvertiva certi cambiamenti. I quadri comunisti pre\'60 erano tutti per il progresso scientifico e tecnico e lo sviluppo economico; odiavano i capitalisti perché secondo loro lo impedivano o frenavano! Però ora si trovavano di fronte ad un capitale e capitalisti nuovi, che portavano gradualmente il sistema industriale italiano ai livelli internazionali, e questo li metteva in crisi. Su tutta questa serqua di caratteristiche "ideologiche", religiose, ed altro, comunque, avevo, con altri, anche riserve e perplessità già dagli anni '50; non solo dunque sul partito bolscevico, la separatezza, l'autoreferenza, gli apparati, la burocrazia ecc. Quando a Roma, credo nel '61, Illuminati mi chiese "ma Stalin?" gli risposi che per me era qualcosa come Garibaldi... Con il diffondersi dell'operaio-massa ed il taylor-fordismo si diffusero operai che dico di nichilismo fordista, ai livelli bassi di realtà: i quali nella ricomposizione e risoggettivazione sembravano poter andare anche contro se stessi... Questo!
Spesso chiedevo rompendo le scatole piuttosto: perché gli operai e i tecnici vecchi e nuovi, rispettivamente, da un lato come grandi gruppi sociali in senso piuttosto sociologico e dall'altro lato la problematica classe-operaia (in senso "dicotomico", di quelle che poi Tronti chiamerà "le due grandi-classi-parti"), di dubbia osservabilità empirica e talora un tantino metafisica, erano talora soggettivamente diversi dalla borghesia? E com'erano e da dove venivano le eventuali differenze di ieri e dei primi anni '60? Che talora proprio c'erano! Nella lunga storia plurisecolare degli operai, e non solo in Italia od in Europa. Infatti, io ho scritto più volte sui passaggi storici dagli operai come artigiani nelle proto-fabbriche e poi come operai professionali (integrati dalle donne e dai fanciulli ancora nella grande industria) agli operai-massa, ripeto sovente ex-contadini o loro figli, giovani e scolarizzati.
Ma cos'è un operaio se non è tanto questione solo di manualità?, di braccia? Come io non ho mai creduto che fosse? Anticipo che io intendevo ed intendo tuttora l'"operaio" industriale come "(il proletario) attivatore ed innovatore trasversale del macchinario tecnoscientifico e dell'organizzazione razionalizzata mediante tecno-scienza". Comunque da dove prendevano nei primi anni '60 gli operai questi momenti di soggettività antagonista peculiare? Da quei partiti storici che spesso non avevano mai incontrato? E da dove venivano o dovevano prendere spunti e spinte per voler uscire dal capitalismo? Oltre che darli. Certe genealogie..., di certe soggettivazioni... Era evidente una tradizione, anche selettiva, interna, relativamente autonoma, che trasmetteva una cultura propria da una fase storica all'altra, trasformandosi: questa ri-soggettivazione non veniva tutta solo da fuori... Dall'esterno? Tutto da élite esterne? O tutto solo dalla nuova esperienza del lavoro di fabbrica? In specie di quello nuovo di questa fase classica, nell'organizzazione scientifica esogena e nella serialità ed alto automatismo? Non anche innanzitutto dalla ricomposizione fra vecchi e nuovi operai che si andava gradualmente realizzando nei conflitti, nel crescere delle mobilitazioni? Ma anche da qualcosa di più profondo, sotterraneo e diffuso? Infatti era chiaro che almeno un pochino in particolari momenti storici certe (spesso vaghe) diversità soggettive dalla borghesia c'erano state davvero e si riaffacciavano: malgrado le comuni origini lontane: le due metà dell'artigiano\contadino avevano talora fra loro qualche differenza soggettiva. E queste differenze si manifestavano; ma allora da dove altro le differenze venivano? Vi pare una domanda da poco? E' anche questa una domanda rimasta ancora piuttosto aperta. Storie anche molto lunghe. Però proprio questa era una questione importante per cercare quell'uscita dal feticismo... Ma poi qual era la politicità di tutto questo, nel politico e rispetto alla politica?
Riprendendo il filo di prima, posso anticipare ultra schematicamente che a mio parere Marx (più deduttivo che induttivo, malgrado tutto...), spessissimo spingeva astrattamente al limite estremo le tendenze in atto, e ragionava assai riferito a quel punto terminale immaginato. Ma di solito nella realtà storica sua innanzi tutto, ma poi pure nostra di allora, un secolo dopo (e perfino ancora oggi), le tendenze effettive non avevano quasi mai raggiunto quel limite estremo. Spesso erano addirittura solo agli inizi... Cosicché per moltissime variabili del suo presunto modello "chiuso", la realtà effettiva di quel dato momento storico in cui si faceva il riscontro empirico, o anche l'intervento, era molto più indietro, e talora anche diversa, nel senso che sembrava poter stare perfino su un'altra traiettoria, e questo già rispetto alla vecchia operaità di mestiere; ma tanto più ora, nel '60, rispetto alla nuova operaietà, la quale diffondeva nuovi momenti soggettivi anche là dove l'operaio della grande serie non c'era... L'altra faccia della ricomposizione. Quindi, come ho già detto, a maggior ragione c'era anche ancora pure per noi la possibilità di modificare la tendenza da lui intravista, anche se magari solo temporaneamente, di modo che magari il processo non andasse a sboccare proprio nel punto previsto da Marx; ed allora anche noi potevamo far qualcosa in questa direzione: già a livelli medi, ma soprattutto medio-bassi. La realtà poteva diventare un'altra da quella prevista e rappresentata in certi testi. Almeno fino al medio livello; ma magari arrivare, per una volta, anche un pochino più su, come poi avverrà alla fine degli anni '60: quando si pose la possibilità di un salto mai visto prima, ma non ci fu un partito adeguato a raccoglierla. Certo per capirlo bisogna anche intendere qualcosa della faccenda dei livelli... Io ed il gruppino che nel '60\'61 lavorava e ricercava con me anche in autonomia da Panzieri non avevamo certo mai creduto che avremmo fatto la rivoluzione... Però si poteva esplorare almeno la forza, le probabilità della vecchia utopia in quel momento storico e in quel luogo dato.
Tuttavia il fatto è anche (molto) che gran parte anche dei miei pochi interlocutori in specie lombardi avevano già esplorato appunto fin d'allora l'utilizzo di Nietzsche e di Freud e Jung, e Husserl (la scienza altra) e perfino di Heidegger ecc., per ricercare la suddetta via d'uscita dalla trappola marxiana. Dentro il nuovo muoversi del proletariato. Come conoscevamo molti dei critici del taylorismo e del fordismo degli anni '30 e '50. E quasi su tutto ciò ci si ritrovò nel '62\'63, almeno in apparenza, e temporaneamente, più o meno, anche con un altro gruppo d'intellettuali, in specie romano, o meglio con alcuni di loro. A parte la questione del PCI. A me però sembrava che dopo un'ottantina d'anni leggere Nietzsche riuscisse a dare ormai molto meno di quel che alcuni dicevano, in specie dopo l'avvio del consumismo di massa e del cosiddetto fordismo - fine anni '50 in Italia - , però qualcosa allora offriva ancora. Anche la psicanalisi, forse. (Ma oggi, con l'edonismo obbligatorio, con il licitazionismo, come dice il milanese, la portata di Nietzsche non si riduce ancora?)
Comincio a dire subito molto semplificando e banalmente che c'erano anche da noi due tipi di marxiani\nietzschiani già all'inizio degli anni '60: i nietzschiani tecnocratici iper-razionalisti della "critica di tutte le ideologie" e poi dell'autonomia della politica come tecnica settoriale specializzata e che presto sboccheranno nel PCI come "partito laico": e invece, diciamo, i neovitalisti e nihilisti-attivi che cercavano di usare questo filosofo, l'utopia nietzschiana, pure per aprire Marx...; ciò anche per una rilettura o lettura nuova ed originale di certi comportamenti effettivi del grande gruppo sociale degli operai in nuova ri-composizione, e magari in ri-soggettivazione, ri-scoperti sul campo, con ricerche sociologiche, inchieste operaie e sprazzi di conricerca: comportamenti ed atteggiamenti e soprattutto vissuti operai spesso ben lontani proprio dalle estraneità previste da Marx, e poi ri-sottolineate dal Màdera. Lontani proprio da certi aspetti della rappresentazione marxiana del "feticismo del capitale". Sottolineo: soprattutto i vissuti operai della loro situazione oggettiva di livello meno basso ed i loro slanci mostravano ancora un gap mutevole rispetto all'astratta deduzione marxiana. Replico, gap da cui, rimarco in aggiunta, si poteva forse partire pure per evitare soggettivamente con un'iniziativa politica che gli operai in ricomposizione si riducessero davvero anche nelle loro teste e loro inconsci a capitale variabile: iniziativa magari "di partito"?, ma eventualmente di un partito assai diverso dal PCI. Questo sogno!

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