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ROMANO ALQUATI
SUL SECONDO OPERAISMO POLITICO. Estate 2000


A Torino nei due sottogruppi più o meno sociologici il bello era proprio l'apertura, la convivenza dei diversi, il continuo confronto aperto. Quando nel '63 circa ci si chiuderà e si comincerà a cristallizarci, comincerà l'impoverimento soggettivo nostro.
Anticipo subito alcuni primi grossi nodi (ipotetici) da approfondire sul rapporto Marx-Lenin, buttandoli lì: Marx non era lavorista, ma Lenin si! Lenin non era granché operaista, ma Marx si! Entrambi erano scientisti, sviluppisti, razionalisti, industrialisti, tecnicisti, statalisti, in fondo anche se tatticamente, un po' oggettivisti, ecc. La religione comunista vecchia e collettivista riferita agli operai di mestiere conteneva pure tutto ciò. Così era pure Panzieri, ovviamente... E così però era fra gli altri anche il movimento operaio organizzato italiano, e forse a Torino più che altrove; e malgrado tutto nella mia ambiguità un pochino schizoide, ero (e magari sono tuttora) coinvolto in qualcosa di tutto questo anch'io. In questa religione piuttosto inconsapevole. Ma già allora pensavo che se era vero che ci si dovesse occupare del rapporto classe-partito, su ciò era importante capire anche com'era "la classe", e soprattutto soggettivamente, perché del vecchio ed obsoleto partito qualcosa si sapeva; ma nessuno mai volle preoccuparsi di questa soggettività della classe, in specie di quella in ricomposizione e nuova. Dal '61 al '66. Il mio é stato un operaismo ritardatario esplorativo, ma pure già nuovo ed anticipatore: appunto molto diffidente... Qualcuno mi diceva che ero fabbrichista perché studiavo il lavoro ed i lavoratori della nuova fabbrica: io mi troverò d'accordo col primo Tronti che ho letto, che diceva che bisognava studiare proprio quel che si odiava, per poterlo distruggere. Tutti questi fastidiosi cretini invece... Inoltre si confondeva lo "stabilimentismo" (e lo stabilimento come luogo del lavoro artefattivo prevalentemente manuale) col fabbrichismo che invece è amore pel Produrre capitale... Non sono mai stato davvero un fabbrichista. E, ripeto, la sinistra italica era ferma a vecchi schemi ottocenteschi del lavorare industriale capitalistico e dell'operaietà e proletarietà.
Orbene, semmai il nostro "operaismo" nei primi anni '60 ha dovuto essere contingentemente, temporaneamente stabilimentista malgrado noi, proprio volendo muovere contro la fabbrica per superarla, e proprio perché in primo luogo in Italia in quel momento il taylorismo con la nuova organizzazione scientifica e così razionalizzante del lavoro era ancora piuttosto circoscritto a certi stabilimenti, ed in specie nei suoi eccessi; e lì creava malvivibilità ed invivibilità insopportabili, anche come prezzo del fordismo potenziale: allora magari certi stabilimenti potevano essere esplorati come luoghi (non esclusivi) di "mobilitabilità" dei nuovi proletari contro l'esistente e per "qualcos'altro", ma allora non più nell'industrialismo ottocentesco al quale aveva guardato il social-comunismo storico! La dizione taylorismo\fordismo diceva già una grande ambivalenza. Ma in essa il momento del consumo finale, con la rivendicazione e concessione mediante lotta di relativamente alti salari e l'avvio del consumismo di massa (il fordismo in senso più stretto) si poneva ancora piuttosto come luogo dell'"integrazione". Da noi a quel tempo non si poneva ancora in primo piano l'ambivalenza del consumare eccedente, eccessivo, consumistico dispiegato, che fu raggiunta solo nella seconda metà degli anni '70; e i costi-umani dell'accumulazione capitalistica erano pei più soprattutto quelli dell'artefare, e molto più vistosamente se si andava a guardare lì dentro come funzionava effettivamente la nuova maniera di produrre in grande serie, come facevamo noi: altro che integrazione, che "paradiso FIAT", ecc.! Allora questi costi li pagava soprattutto chi poneva mano alla manipolazione del tangibile! "Il produttore sul luogo di produzione (ormai tayloristica)" ci si imponeva! Lì, nel boom, c'era la maggiore forza, e forse lì prima o poi questa forza poteva essere mobilitata "per altro". Inoltre bisognava scalzare la fede stalinista che tutto il male derivava dalla cosiddetta anarchia della distribuzione e circolazione capitalistica, e basta, e che la questione del comunismo era essenzialmente questione di pianificazione centrale dell'esistente. Ma, sottolineo, lo stabilimento incluso nella fabbrica non era solo il luogo del maggior risvolto di malcontento; ma era pure in quel momento (primi anni '60), sebbene relativamente, il luogo della massima forza! Non solo luogo scoperto nella realtà effettiva per piangere e denunciare, nuova occasione di pianti ed indignazioni; ma al contempo luogo di una grande ed accresciuta forza-umana vivente da vedere ed esplorare come potenziale di liberazione, di uscita... Fra l'altro l'operaismo politico rovescerà la visione paleo-comunista dell'anarchia del capitalismo mettendo in campo l'esistenza ed il funzionamento del "Piano del capitale" che riduceva la concorrenza fra imprese con la competitività in buona parte pianificata... ed enfatizzando la concorrenza fra proletari. Che da parte nostra invece bisognava tornare a ridurre il più possibile. E rinviava però all'effettiva soggettività proletaria di quella fase dell'operaità. Pertanto il produttore di merci e beni\merce (anche e di più collettivo) era allora e doveva essere in un breve volger d'anni comunque il nostro referente privilegiato, anche a prescindere dalla sua soggettività. Questo era uno dei pochi orientamenti in cui era d'accordo anche Panzieri. Oggi certo non è più così.
Certo, la soggettività operaia o proletario-operaia, quella vecchia, dei vecchi professionali e quella nuova dei nuovi unskilled scolarizzati, andava letta soprattutto nei movimenti ed in specie nelle lotte. Ma come? E solo lì?
A Torino c'era anche il vertice, l'avanguardia, un po' strana e folle, del nuovo capitalismo industriale e fordista. Fra l'altro, il grande boom di nuova industrializzazione in Italia quasi coincise con la rivolta ungherese e certi esiti del rapporto Kruscev. Però, come ho detto, era in notevole ritardo rispetto agli USA, ma anche rispetto ai principali paesi dell'Occidente europeo, inclusa la Francia. Ci si poteva valere, se si voleva e sapeva farlo, dell'esperienza degli altri che ci avevano preceduto, e non di poco. Questo nella sinistra italica lo seppero fare ed ebbero la tenacia e la caparbietà di farlo in pochissimi. Io pure studiai in una vasta letteratura scientifico-sociale anche operaista straniera, una complessa sintesi delle esperienze dell'industria e società industriale capitalisti taylor-fordisti precedenti la nostra. Questa era conoscenza, e forza. Nel mio piccolo seppi valermene nella grande ignoranza italica ed in specie data quella del "movimento operaio ufficiale" italico, ripeto, fermo all'800. Ad esempio, nel '58-'59, allorché la Di Leo (che molto mi insegnerà sull'Unione Sovietica) ancora ragazzina faceva la sua ricerca sui contadini del Sud io a Cremona scrivevo un opuscolo sugli operai della "fabbrica verde", e un altro sul nuovo cottimo, ecc. Un secolo di distanza fra noi... La compresenza dei non contemporanei? Quando a Torino nel '60 cominciammo la ricerca, il clima locale del "movimento operaio ufficiale" era di sconfitta e rassegnazione: dicevano tutti che gli operai con buoni stipendi in quello che, come ho detto prima, ormai chiamavano "il paradiso FIAT" e delle grandi fabbriche taylorizzate, non avrebbero più partecipato a lotte. Eppure noi cominciammo, da soli, in quattro o cinque un lavoro d'esplorazione per la lotta e di mobilitazione e d'organizzazione di militanti vecchi e nuovi su nuovi obbiettivi, sicuri delle grandi potenzialità di lotta che offriva il nuovo terreno. C'era stato l'esempio francese ed americano... E dopo solo qualche messe ci fu la nuova lotta, con le "giovani forze", e allora le "mosche cocchiere" di Torino ebbero il loro breve momento di una certa soddisfazione e divennero un esempio ed un riferimento, malgrado tutto!

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