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ROMANO ALQUATI
SUL SECONDO OPERAISMO POLITICO. Estate 2000


Già dall'ottocento era evidente che piccoli borghesi emarginati e senza soldi per arrivare a contare dovevano trovare una forza che li sostenesse, che li portasse. Per un borghese umiliato ed offeso ed espulso e pieno di un risentimento che in gran parte però ritengo ancora oggi giusto, gli operai com'erano effettivamente nella loro nuova composizione e ri-composizione, e non solo la mitica classe operaia, potevano valere per me una scommessa di rivalsa contro "il sistema"? avere una funzione personale e privata di vendetta? Ma gli operai com'erano effettivamente dentro, in specie in quegli anni, chi li conosceva? Ed in particolare quelli della nuova industria tayloristico-fordista ormai prevalente di cui il movimento operaio di sinistra non sembrava essersi ancora nemmeno accorto? A Milano prima (inverno '57\'58) ed a Torino affiorarono subito crescenti motivi di dubbio. Però una certa faccia della nuova medaglia con delle potenzialità c'era; d'altronde non c'erano alternative. Dunque esplorai coi nuovi operai anche un certo operaismo di ritorno, sedicente "politico". Anch'esso ambivalente. Pure davvero regressivo.
Insisto sulla questione dell'antistalinismo mio e dei miei compagni. Infatti avvertii subito che gli staliniani anche da noi si mostravano operaisti, non solo, ma pure proletaristi: con un segno opposto al mio: loro esaltavano il proletariato come tale, fermi al modello ottocentesco dell'operaio professionale della vecchia grande-industria; mentre Marx (ed anche Lenin) talora volevano abolirlo, abolendo insieme la classe e lo stato e tutte le classi, e così la società di classe: solo che allora il marxismo (come dicevo in accordo con Màdera) stava piuttosto in un labirinto perché l'operaio professionale al quale guardava nel suo lavorare e nella sua capacità e nella sua soggettività "spontanea" in gran parte aveva la stessa cultura e visione che avevano molti dei suoi padroni ex-artigiani: salvo certi spunti del proletariato... E questo ha condizionato assai pure la teoria ed ideologia socialcomunista finanche nella grande vicenda bolscevica e nel suo fallimento, e da noi ciò si protrasse fino agli anni del secondo dopoguerra. Ripeto, il vecchio e "primo" operaismo progenitore comunque era fra i rivoluzionari di professione del partito, almeno fra certi fondatori del bolscevismo, per l'estinzione almeno del proletariato, e della stessa classe-operaia al limite! Karakiri della classe operaia per una nuova civiltà... Se l'esperienza bolscevica avesse potuto proseguire probabilmente anche la soggettività di quegli operai si sarebbe alquanto trasformata e con loro quella del partito, e la sua stessa forma. Ma sulla cosiddetta rivoluzione russa, rivoluzione mancata, ho sempre trovato molto carente la storiografia disponibile. Avevano posto sul tappeto la contraddizione forte di una classe operaia che doveva saper andare anche contro se stessa; però da sola quella "professionale" non ci sarebbe mai riuscita! Questi comunisti stalinisti invece proprio non si sognavano neppure l'estinzione della stessa classe operaia! Ma diventavano sempre più altrettanto apologetici della vecchia operaità e proletarietà anche molti nelle minoranze comuniste d'opposizione storica allo stalinismo. Comunismo ideologicamente, religiosamente, operaista, ed anche operaio, in senso positivo; inoltre, ripeto, riferito ad una operaietà di mestiere ormai tendenzialmente minoritaria.
Al contempo con questi primi incontri con tali operai vecchi e nuovi, mi sono formato in un contesto di filosofi nietzschiani, freudiani e junghiani, esistenzialisti od anche adorniani o weberiani e fenomenologi (soprattutto critici puntuali della scienza galileiana e così pure dello scientismo oggettivista vetero-comunista e del funzionalismo picista; che però fra gli intellettuali picisti e di sinistra era comunque esso stesso isolato, ed assai minoritario, in un perdurante prevalere di certo storicismo crociano-gramsciano...). E d'altro canto o perfino insieme, c'era un contesto di nuovi antropologi e sociologi magari weberiani in specie critici dello stesso funzionalismo, ma attraversandolo nella ripresa di ricerca sul campo o "empirica". Cosicché la mia conoscenza ed esplorazione degli scritti di Marx, pur procedendo, fu fin dagli inizi e dopo sempre critica, molto circospetta. Mi dicevo "marxiano" perché ho sempre rifiutato di considerarmi un "marxista": Montaldi per questo mi sfotteva.
A Cremona c'era un nucleo d'intellettuali con una certa nuova cultura cosmopolita. Questi cremonesi (e parmigiani e piacentini) sapevano quasi tutto delle avanguardie storiche artistiche e filosofiche, fra i due secoli trascorsi, dei poeti e scrittori "maledetti", degli artisti "maledetti" e dei filosofi "maledetti" contrari alla cultura borghese, e molto sulla storia del movimento operaio internazionale; ma anche sulla scienza e su quella dell'uomo e sociale. Capita che la provincia sia più avanti di Milano. Ed a Milano poi ho incontrato nel '57 ad esempio lo svizzero Filippini ecc., che con la grande cultura di destra europea (e col pensiero negativo...) aveva notevole dimestichezza. Ed altri. Guido Neri, soprattutto.
Già dalla fine degli anni '50 consideravo lo stesso Lenin un critico di Marx, che l'aveva pesantemente trasformato in alcuni aspetti, per poterlo usare davvero in maniera "rivoluzionaria", e le cui modifiche erano decisive: non un revisionista perché questa parola ha sempre avuto un significato diverso, spregiativo in maniera particolare (però Panzieri tra noi a Torino diceva che Lenin era stato il primo revisionista...). Malgrado tutto c'erano fra noi pure perplessità e critiche anche su Lenin ed il miglior bolscevismo, al quale accennerò magari dopo. Pertanto avevo iniziato a studiare Marx pur condividendo da una ventina d'anni prima di Màdera alcune delle forti e chiare critiche che il milanese rivolgerà a Marx nel '77, ed al Marx che Màdera tuttora preferisce: appunto quello più maturo. Alcune ma non altre... Ma su altro ero magari più critico di lui.
In particolare nel mio giro già si pensava e diceva dagli anni '50 proprio che il modello marxiano, pur offrendo ancora la migliore rappresentazione del capitalismo e della nostra civiltà complessiva che si trovasse in giro, "si dà la zappa sui piedi" perché, appunto muovendo dalla teoria del feticismo estremizzata, non concede vie d'uscita per nessuno! Se le cose stavano allora così come lui scriveva, non si usciva, non si poteva proprio uscire, dal capitalismo. Per salvare almeno l'utopia bisognava cambiare strada. Ma d'altra parte ero convinto anch'io con alcuni altri che in Marx c'erano lacune, omissioni, errori e contraddizioni, alcune delle quali aprivano nuovi o altri cammini. E d'altronde che, se la si esplorava con una certa sistematicità, la realtà effettiva nel '900 ed il capitalismo dal livello medio in giù e di più negli anni '50\'70 e la diffusione del taylorismo anche da noi non erano proprio così come egli li rappresentava. Anche se paradossalmente a mio avviso ora per certi aspetti nuovi sta diventando sempre più così; onde quel modello "chiuso" di Marx, se davvero esiste, si capisce più oggi di ieri ed è più vero oggi di ieri. Bisogna chiedersi perché... Questa é un'ipotesi importante! Per cui Marx non è certo ancora un cane morto e scommetto che verrà riscoperto in nuovi aspetti all'inizio del nuovo millennio, malgrado tutto. Inoltre, come dicevo, ci sono appunto anche in Marx altri nodi e filoni e singoli momenti e frammenti che contraddicono una certa o una cert'altra dimensione di quel modello marxiano "chiuso" medesimo, ma inconcluso e con enormi vuoti e lacune rispetto ai suoi stessi progetti. Allora alcuni di questi frammenti si potevano ancora (o già) negli anni '50\'70 usare per esplorare ricerche per altre vie d'uscita contro lo stesso Marx, cosicché si cominciò già allora a parlare del "Marx oltre Marx", "tirandolo pei capelli", ma avendolo davvero attraversato a sufficienza; e perfino contro le modifiche leniniane, importantissime, del modello marxiano. Un cane morto sembrerebbe invece ormai oggi Lenin. Ci tornerò perché questo non lo digerisco. Ma Marx non era neppure collettivista come i marxisti, come Màdera ci ricorda, citando il "Manifesto": era per la proprietà individuale contro l'espropriazione e collettivizzazione perpetrata dal capitalismo! Espropriazione che istituisce la "proprietà privata", compresa la proprietà-privata "pubblica"... Tronti, dal canto suo, collocava la sua prospettiva nel "capitale sociale"... Una cosa che gli intellettuali di sinistra non riuscivano a capire, una distinzione importante: alla fine dell'800 il movimento operaio organizzato internazionale aveva abbastanza smantellato la società dei "proprietari" borghesi e co-costruito la "società-capitalistica" al posto della vecchia "società borghese": appunto la nuova società di massa. Come diceva Gehlen, il capitalismo non sboccava nell'individualismo, ma al contrario nella società e nella cultura di massa. E proprio senza alcun "ascetismo"... Diceva Tronti "dentro e contro il capitale sociale", e non solo contro una mitica piccola borghesia concorrenziale di proprietari privati. Rivedremo un minimo. Questo "dentro e contro" fu anche per me decisivo...: un grande discrimine, che però univa. Ambivalenza... Ma anticipo che ciò che sembrò riaprire per noi i giochi verso l'immaginazione almeno dell'avvio di un'uscita dal labirinto capitalista fu l'approfondimento che riuscimmo a realizzare della nuova figura dell'operaio-massa. Fine del socialcomunismo dell'operaità di mestiere, inizio della nuova utopia del comunismo nihilista dell'operaio-massa! Così iniziarono gli anni '60 per noi.

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