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ROMANO ALQUATI
SUL SECONDO OPERAISMO POLITICO. Estate 2000


Certo, mi lamento ancora una volta: di questa classe che può negare e perfino già talora nega se stessa, malgrado aperture teoriche (come ad esempio sulla valorizzazione del volontarismo di Gramsci e la questione dei bolscevichi che fecero comunque la rivoluzione anche contro "Il capitale" di Marx) non si volle aprire un discorso ed un'esplorazione sulla soggettività, su come soggettivamente era fatta, composta: ripeto ancora, soggettività non "necessariamente" antagonista. Ma dal '65 si riaprì una divaricazione fra noi. Alcuni movimentisti più rigidi nel '65 se n'andarono. Io come ho già detto e ripetuto prima, malgrado tutto restai per un altro poco, ma per ragioni ormai diverse e minori rispetto a quelle del '64, e me n'andai nella primavera del '66. Per sempre. Nel '66 l'esperimento dell'"operaismo politico" era già concluso, in maniera, ripeto, a mio parere e bilancio, piuttosto fallimentare, nel conseguimento dei suoi scopi "politico-istituzionali", nei quali per un poco pure noi fummo attratti e trattenuti.
Ribadisco, fu però, ed è, per quella classe operaia una sconfitta comunque solo in parte: proprio perché, come sempre ho sperimentato e già sapevo, quella classe operaia non era mai stata per me proprio tanto bella! Solo alcune minoranze arrivarono per un poco a sentirsi e a ritenersi in lotta contro il capitalismo. C'erano comunque dei nuclei anche non piccoli, dei filoni formidabili, un po' in tutte le generazioni; magari almeno in certi momenti: dove una soggettività operaia alternativa, ed allora antagonista, combattiva, la si era incontrata davvero. Lì la parte espropriata dell'artigiano dimidiato aveva sviluppato davvero una soggettività autonoma ed anche alternativa, e non sarebbe tornata ad unirsi a quella borghese alla prima occasione. Ed i suoi frammenti sono ancora qui in giro ed in movimento tutt'oggi. E questo oggi può riproporsi allo studio degli storici. In fondo in questo paese cos'altro c'è stato nell'ultimo secolo trascorso da studiare di tanto meglio? Ma si trattava per la grande massa proprio dei "più soldi e meno lavoro", e quasi nient'altro. Nessun ascetismo, disse Gehlen... Sconfitta solo in parte, nel senso che loro un certo ingresso nella società affluente di massa e nel consumismo di massa, pure "culturale" magari, l'hanno avuto ed un poco i loro figli l'hanno ancora: e questo sembra bastargli? Anche se l'Italia a mio parere resterà in serie B. La grande ondata ad un dato punto cominciò a rifluire, ed alcune condizioni poi a peggiorare; ma non altre. Tuttavia "non sconfitta" perché altre grandi rivendicazioni, talune perfino implicite, sono passate e perdurano o sono venute meno producendo nuovi momenti d'ambivalenza, hanno costruito un nuovo terreno sul quale ci troviamo oggi noi, nel quale (forse) si riproduce in termini nuovi una nuova ambivalenza! Pur dentro quel feticismo, rinnovato. Almeno ambivalenza potenziale: nel senso che talora la faccia positiva per noi in certi aspetti va nuovamente costruita, imposta; ma a partire da talune realtà della nuova situazione del capitalismo. Delle quattro grandi conflittualità di cui parla Màdera, quella degli operai contro il capitale nel '900 non è stata certo la più forte. Così se è vero che a cavallo fra gli anni '50 e '60 una grande forza sociale esplosiva l'avevamo trovata, però poi non si mostrò tanto disponibile neppure quando entrò in una grande lotta di massa. Il fatto è che essa si ricompose su grandi fini suoi: più soldi e meno lavoro e semmai un poco una diversa organizzazione del lavoro. E questi scopi gli operai li conseguirono abbastanza. Solo più o meno vaste avanguardie operaie in seguito a tutto un "lavoro politico" si mostrarono disponibili per qualcos'altro! Gli operai e pure la classe operaia, oltre al proletariato, erano un sistema complesso, molto differenziato al suo interno. Le grandi riforme arrivarono comunque molto tardi, dopo che i movimenti che le avevano rivendicate erano già scomparsi. Non è tanto vero che sono state le riforme a sconfiggere le lotte: al contrario il varo molto ritardato delle riforme ne facilitò la funzionalizzazione in mera modernizzazione capitalistica, graduata nel tempo e circoscritta. Ho fatto molta ricerca sul campo su questi terreni. Anche rispetto alle donne. Dove qualcosa c'è stato e sta continuando ancora, non dappertutto è morto. Inoltre io non ho mai contrapposto a tavolino riforme a rivoluzione.
Queste considerazioni su una vicenda trascorsa ormai sono consegnate a degli storici, un po' particolari. Ma in quegli anni di grandi movimenti la storia risultava da interazioni impreviste, per certi aspetti non c'era alcuna progettualità. L'operaità era in quegli anni molto differenziata ed eterogenea, ma cosa c'era in comune? Il fatto centrale era l'entrata rapidissima di milioni di contadini e di figli scolarizzati di contadini nella grande industria taylorizzata! Che non vuol dire i grandi stabilimenti o i grandi capannoni. L'"operaio-massa": chi per primo ne ha parlato in Italia, usando anche questa dizione? Ma solo in apparenza, alcuni di noi dicevano, 0 più 0 era uguale allo 0 del gruppo omogeneo perché vuoto. Dietro c'era ben altro! L'operaità non erano gli operai occupati sul posto d'occupazione, e meno che mai la mera manualità. Proprio il fatto che nella mia concezione dell'operaità non c'era nessun vincolo "muscolare" o del "tangibile" consentì nei primi anni '70 l'esplorazione dell'ipotesi dell'"operaio sociale". Tanto che adesso chiedo "ha qualche senso proporre oggi una nuova operaità?" Lo chiedo davvero! Comunque va colta la nuova forma della proletarietà.
Voglio sottolineare di nuovo che già nei primi anni '70, facciamo nel '73, prima con la questione del proletariato intellettuale e poi dell'iperproletariato, io ho cominciato a mettere la classe-iperproletaria al di sopra degli operai! Questa fu un'indicazione importante, che contribuì all'autunno del '77 a Bologna.
Dunque, come dicevo, per me e qualcun altro nell'incontro con Tronti e il "suo" gruppo romano era sembrata riaprirsi la ricerca collettiva nella prospettiva strategica sul lavoratore che può negare se stesso e non di rado lo fa effettivamente, e sulla sua soggettività e la sua storia. Sull'altra faccia di questo doppio carattere. Potenziando, forse, con la teoria, o la dottrina, un cammino di scoperta e d'invenzione che a partire dai secondi anni '50 noi al Nord avevamo incominciato da soli, e in scambi soprattutto con "forze antisistema" d'oltralpe. Ma deviandoci anche non poco verso binari piuttosto già morti. Quest'ambiguità operaista fra l'altro legittimò la mia conricerca personale su momenti di "rifiuto del lavoro", fino al '75 (quando la ricerca mia isolata cominciò a rilevare e a far conoscere invece la fuga proprio di molti militanti dagli stabilimenti e dal lavoro operaio dipendente). Infatti, ripeto ancora, fin dal '70-'71 sempre anticipando non solo nella lettura della classe e del suo movimento, ma anche rispetto allo stato stesso della classe, avevo visto la fine della centralità operaia e delle grandi industrie manifatturiere verticalmente integrate della seconda fase del capitalismo industriale, quella dell'artefattura fordista\taylorista classica e tipicamente rigida dei beni tangibili in specie voluttuari. E abbozzato un poco la situazione nuova che gli altri cominciarono a vedere solo dal '77 o solo negli anni '80.
Oggi molti vedono il maggior pregio dell'operaismo politico dei primi anni '60 nell'analisi socio-economica del cosiddetto neo-capitalismo, ed il maggior limite nell'incapacità di elaborare una proposta politica (e per di più post-statale e post-partito ottocentesco) all'altezza di quest'analisi. D'accordo. Se Lenin aveva preso come modello la banca o l'impresa all'inizio del taylorismo classico chi si richiamava a Lenin negli anni '60 continuava a guardare a quel modello ormai invecchiato d'impresa, ed oggi non sa guardare neppure all'impresa iperindustriale ed ipermoderna. Figurarsi anticipare, ecc. Fra l'altro chi oggi insiste su questo limite di proposta politica, poi a sua volta e tuttora di solito non sa proporre quasi nulla. Ma inoltre io ripeto che un grande limite è stato anche quella specie di "organizzativismo" per cui il leninismo, ad esempio, è stato visto quasi solo come questione d'organizzazione, senza vedere il processo di rielaborazione dei fini col crescere del movimento e delle rivendicazioni, o almeno dei bisogni e desideri: i grandi mezzi senza i grandi scopi! Laicità? Spontaneismo? Chi vuole il partito laico mette l'accento sulla potenza dell'organizzazione efficiente: se non l'attacchi al partito-religione proponendo un sistema di fini in partenza come primo programma del rinnovato comunismo a che ti serve? Se per il sincretismo di chi si muove, o di chi si muove contro, o di chi si muove in una rosa di grandi scopi?


Altro, minore

Per la cronaca, Toni Negri si affacciò a Torino nel '62\'63 quando il primo gruppo di Torino si era già sciolto, e n'era nato un altro. Nondimeno fra i Torinesi e Toni non ci fu mai una gran bel rapporto, nemmeno dopo, ai tempi di Potere Operaio e perfino della stessa Autonomia Operaia. Di cui io non feci parte, sebbene discutessi con vari di quei compagni. In fondo negli anni '60 sono stato forse il "torinese" meno ostile a Toni. Ma io ho sempre fatto la distinzione fra il Negri dirigente politico pratico ed il Negri pensatore teorico del politico e soprattutto della politica, ed ho sempre stimato e stimo molto tuttora il secondo, ma non il primo: così sono stato e sono magari tuttora anche negriano, un allievo pure di Negri, nella teoria d'alto livello. Cosa di cui credo lui non sia stato e non sia nemmeno tanto compiaciuto. Infatti, questa distinzione Toni non la può accettare perché dal suo punto di vista, ovviamente, non può darsi questa contrapposizione fra teoria e pratica politica quotidiana, che nega la prassi: nemmeno come tattica e strategia. Inoltre io non ho mai gran che apprezzato il suo interesse (tattico?) per un certo taglio tradizionale italico del cosiddetto "discorso culturale" ch'egli conduceva dialogando in specie con Asor Rosa.

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