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ROMANO ALQUATI
SUL SECONDO OPERAISMO POLITICO. Estate 2000


C'era quest'ambiguità scabrosa, difficile da non far precipitare dal filo del rasoio su cui era costretta a stare. A mio parere non si faceva politica in quella (e questa) società riferiti a soggetti di massa come la mitica classe operaia senza un certo uso (laico?) della dimensione ideologico-religiosa! Ma già il partito rinnovato doveva essere leggero e laico; tanto più per noi che partito non eravamo! Solo lo strumento, quindi. Ma allora cos'era la linea? Fino dal '60 noi dicevamo a Torino: la linea è il metodo. Nel '63\'64 però il contesto era già diverso. Tuttavia la linea era la continua rielaborazione contro-funzionale di quest'atteggiamento! Niente esplicitazione di grandi fini, rifiuto (nietzschiano) dei valori come tali: di qualunque cosa si ponesse solo come "valore". E comunque prevalenza dei desideri sui bisogni: semmai desideri radicali (dicevo io). Tuttavia io pensavo che con questo laicismo un poco si esagerava: così si poteva procedere verso la sognata demercificazione della capacità-umana-vivente? Verso la liberazione del e magari dal profitto? Verso l'uscita dal labirinto capitalistico? O "almeno" riportare certe risorse a potenze per un altro senso? Non solo molti lo prendevano per opportunismo, ma proprio il rifiuto di parlare esplicitamente, neppure in negativo, di fini che almeno si ponessero come confini, delimitazioni, innanzi tutto di metodo, ma anche a grandi linee di certi nodi di contenuto, poi ha creato grandi equivoci, deviazioni e pasticci ed autoreferenze folli. Inoltre a mio parere bisognava combinare la dimensione laica dell'organizzazione efficace-efficiente, e a sua maniera scientifica, con una nuova dimensione ideologico-religiosa immanente aperta e plurale da mettere da qualche parte, come l'associazionismo, come faceva la chiesa: un qualche rinnovato e plurale "sol dell'avvenire" liberamente mobile. Però avendo consapevolezza ed anche distacco; nel senso che per me religione vuol sempre dire anche impostura! Cinismo... Ma un sole da non mettere in orizzonti tanto lontani, come faceva il PCI della doppiezza, sempre ai prolegomeni dei preliminari della lotta pel socialismo, che poi non era neanche il comunismo... Almeno, si era d'accordo sull'"attualità del comunismo!". "Comunismo subito!". Senza dire cos'era, né pensarlo! Questioni scabrosissime! Negli ultimi anni '50 si litigava perché Lenin un giorno aveva detto che dire la verità è comunista, un altro giorno più avanti che comunista è non dirla, però possederla, cercarla. Il che significa che intanto c'è pure un'idea di verità... Ribadisco in fine che rivolutivo non significa progressivo, e bisogna stabilire dei criteri... Ma possono esserci anche rivoluzioni regressive.
Un'altra cosa che va detta agli odierni edonisti verbali è che in quelle vicende noi ci si divertiva anche, e parecchio: credo che poi nessuno di noi, almeno, in quest'età dell'edonismo coatto, abbia avuto il divertimento, momenti di gioia, ed il giuoco collettivo che abbiamo avuto allora noi. C'era grande libertà di inventare, di sperimentare, circolava fantasia. Poi però...
In fine ripeto una precisazione. Io non ho ripreso il mio interesse per la soggettività da Montaldi: invece entrambi l'abbiamo tratto da un contesto comune. Ma con una notevole differenza fra noi. Mentre il mio amico e compagno puntò soprattutto su personaggi e inizialmente atipici e proprio per la loro atipicità, diversità anche eccezionale, io negli anni '50\'70 mi sono occupato soprattutto di ciò che era più "tipico", comune, della soggettività proletaria e poi lì dentro della soggettività e ri-soggettivazione operaia, sia individuale o almeno singolare che collettiva. E del suo modificarsi storico in specie in Italia, nel passaggio dalla vecchia figura dell'operaio professionale, derivata dagli artigiani in fabbrica, alla nuova dell'operaio-massa: spesso ex contadini immigrati dal nostro Mezzogiorno, e giovani scolarizzati. Così come ora cerco di cogliere qualcosa dell'odierna soggettività iper-proletaria. In particolare ho esplorato un poco il suo variegato soggettivo antagonismo, quando c'è davvero stato, fra spontaneità e rapporto anche indiretto con forze-soggettive. E in certi momenti storici e soprattutto in quegli anni abbastanza straordinari. Lì dentro allora ho cercato di vedere qualcosa anche della soggettività militante e in specie dell'antagonismo soggettivo di certi militanti, confrontandoli pure ad esempio con quella di certi attivisti di partito, ecc. ecc. Ed ho messo il proletario al di sopra dell'operaio! L'operaio come forma storica, transitoria, forse oggi trascorsa, della proletarietà.
Ma questo l'ho fatto piuttosto da solo. Quasi nessuno in ambito "operaista" della soggettività operaia ne volle mai granché sapere; e non mi pare di averne mai dibattuto con alcuno. Solo qualche chiacchiera con amici. Nondimeno non mi pare che le mie ipotesi su questo nodo fossero così sprovvedute o lacunose come magari qualcuno dall'esterno può avere immaginato. Ma? Certo ho potuto fare poco. E non ho mai pubblicato nulla del molto che ne ho scritto.
Nel '65 ho fatto mia esplorativamente anche l'ipotesi soprattutto "romana" del "partito in fabbrica", che per una parte dei romani voleva dire: PCI in fabbrica! Ed allora, anche dopo il mio "ritiro", nel primo '66, ho fatto per alcuni anni ricerche proprio sulla differenza fra militanti ed attivisti di partito in fabbrica (come però anche sulle residuali potenzialità delle cellule e sezioni di strada). Questo nodo come punto d'incontro e scontro fra operai e partiti storici della sinistra, in specie PCI. Distribuimmo (nel '65?) nelle fabbriche di Torino un volantino mandatoci dai Romani (Accornero...) contro il progetto amendoliano di liquidazione del PCI da trasformarsi in partito "laburista"... Nei primi anni '60 non fui mai molto contro il PCI come tale, ma contro certi suoi grossi e forti settori; e tantomeno fui contro il sindacato come tale, malgrado tutto. Non credevo che se si fosse disintegrato il PCI ed il sindacato i partitini in perenne concorrenza sarebbero stati il nuovo partito e tutto sarebbe andato molto più avanti. Ma pensavo che la critica del PCI dovesse essere portata molto più a fondo, alle radici.
Come ho già detto, gli operaisti politici picisti romani scoraggiati dalle scarse ripercussioni nel PCI smisero l'avventura di Classe Operaia proprio alla vigilia delle più grandi lotte operaie della nostra storia nazionale; c'era delusione della classe operaia come tale. Scoperta dei suoi persistenti limiti. Più che disincanto. Anche un'ulteriore intensificazione delle lotte per qualche altro anno non poteva ribaltare il PCI nel senso sognato. Lotte operaie (di classe operaia...?) che neppure i movimentisti fecero l'ipotesi decisiva che sarebbero state qui in Europa le ultime. Io personalmente, sebbene Classe Operaia cominciasse ad allontanarsi dalla classe operaia fin dal '65, rimasi lì nel mensile ancora un annetto, anche per una certa mia curiosità sulla "lotta di partito" della quale non avevo mai avuto una significativa esperienza diretta (ma non m'iscrissi al PCI). "L'operaismo politico" di Tronti di fronte alla minaccia di gruppismo perpetuo, di minoritarismo, preferì chiudere. Ma ritornò ad un vecchio modello, e si concentrò sul lavoro all'interno del PCI. Nuovo entrismo? Fu dentro e contro il gruppo dirigente di centro-destra del PCI; ma mi parve con poca capacità progettuale generale, ecc. Con poca elaborazione ed invenzione "politica". Per un paio d'anni: '65-'66. Anche con poco successo. Forse l'operaismo politico era nato morto: la classe, il nostro ascensore, aveva corsa troppo breve e magari tendeva ad andare piuttosto da un'altra parte, dove l'aspettava il padrone strategico internazionale: ed in vero il partito adeguato proprio non c'era. Comunque Tronti è stato il vero operaista politico: ha pensato la politica, il partito, lo stato solo in relazione a quelle prime due operaietà: finite quelle...
Riprendendo la storia oltre gli anni della mia diretta partecipazione, e tornando di nuovo più indietro, a mio parere non è tanto vero che l'operaismo più noto dei successivi gruppetti extraparlamentari e partitini in concorrenza reciproca, in specie negli anni '70, fu tutt'altra cosa da quest'operaismo politico di Tronti! Invece lo fraintese ma vi si ispirò a suo modo, oscillò fra i due suddetti modelli: spesso mediandoli (come ha fatto pure il "sindacato-politico" ad esempio di Carniti, inclusa la FIM, del quale fu supporto tutta una costellazione di gruppi operaisti). Accadde però che quelli che seguirono l'operaismo politico negli anni post-'68 considerassero se stessi, ciascuno se stesso contro gli altri, il nuovo partito! Per alcuni partitini degli anni '60\'70 (in specie Potere Operaio e Lotta Continua e poi di più l'Autonomia) la differenza col precedente operaismo trontiano ed in particolare col '62-'64 (e la coesistenza di movimentisti con entristi) fu soprattutto questa! Aberrante: il nuovo partito "della classe" c'era già ed erano loro!
Il PCI si smuoverà, ma con un ritardo di almeno dieci anni: e sarà il capitombolo operaista di Berlinguer. Poi venne per loro, in vista della sconfitta operaia, l'interessante "autonomia del politico". Voglio precisare che io ho sempre visto in apparenti svolte di Tronti la notevole continuità e coerenza di un disegno già visibile dal '62 ed anche prima e che giunse fino qui. Formare un nuovo gruppo dirigente da riportare nel PCI per sbaraccare... Nuovo per metodi, obbiettivi e conoscenze (e competenze), con la forza di movimento della classe operaia, studiata, capita, ecc. L'autonomia della politica per Tronti non doveva essere autonomia dalla classe operaia, ma un nuovo rapporto fra partito adesso non più di massa ma leggero (ed il cambiamento è grosso!) e la classe operaia, magari in un'altra nuova composizione. Ma questa linea si allargò in seguito nel PCI dopo le lezioni del '75 coi nuovi giovani amministratori capovolta come autonomia dagli operai! Non solo dal vecchio operaismo populista. Fu ripresa per linee loro dai partiti di Governo (al tempo di Craxi) e divenne autoreferenza della politica, anche per l'opposizione. Fino a Tangentopoli. Ed alle bande trasversali che sfruttavano i partiti annidate al loro interno per un mare di particolarismi speculativi. Che però gran parte del popolo italico in fondo ammirava ed invidiava ponendosele a modello; ancora oggi... Ed oltre. A me la vicenda dell'operaismo "politico" parve presto fallimentare. E ripeto che si sentì presto a Torino pure l'aria della sconfitta e della fine di quell'ondata di lotte di quegli operai lì, in quell'articolazione davvero transitoria. All'inizio del '66 su quello chiusi pagina.

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