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ROMANO ALQUATI
SUL SECONDO OPERAISMO POLITICO. Estate 2000


La forte pressione sulla contrattazione collettiva del salario, ma a Torino anche sull'organizzazione del lavoro e dell'impresa, puntava a togliere al profitto una parte delle sue fonti, ed una fonte del potere capitalistico. A ciò si univa la componente keynesiana fordista per cui (fra l'altro) allora l'alto salario incrementava l'occupazione, che dava ulteriore forza... oltreché consentire una maggiore copertura degli alti costi della riproduzione della capacità-umana ancora a carico del proletariato: che al livello dei singoli, delle famiglie, proprio non ce la poteva più fare (fra l'altro ormai la tecnoscienza l'aveva in mano il padrone!) a riprodursi da solo. Su ciò insistevamo nel nostro intervento di mobilitazione, e questa riappropriazione nell'intensità ed ampiezza che raggiunse in quelle lotte divenne pel sistema italico più che altrove questione "politica". Fin che durava l'impresa processiva... Inoltre bisogna sottolineare la politicità intrinseca ai rapporti ed ai movimenti che andavano crescendo, nei confronti del dominio, e così pure lì dentro una certa risoggettivazione. Malgrado un'ambivalenza (il mancato cambiamento istituzionale, il consumismo, ecc.) che poi consentirà al capitalismo ulteriormente rinnovato (l'odierno ipercapitalismo...) già dagli ultimi anni '70 un suo uso di quasi tutto quanto ciò.
E' stato detto che il comunismo è il movimento che distrugge l'ordine delle cose presente. Tuttavia fra pensiero negativo ed una qualsiasi idea di comunismo rimane forse una divaricazione: alla prospettiva del comunismo si richiede l'indicazione, almeno in negativo, di alcuni grandi scopi. Almeno provvisori.
Quest'altro doppio carattere (del lavoratore...) allora è pure al centro della cosiddetta proto-trontiana un po' scandalosa ma importantissima "strategia del rifiuto", qui il nichilismo attivo nietzschiano... andava ad incontrare una sorta di nihilismo (fordista) operaio. Questa costituiva forse la parte più importante e provocatoria dell'inizio del periodico Classe Operaia, e già prima una delle due anime dei Q.R.. A mio parere è proprio oggi uno degli aspetti di maggior portata ed anticipazione da ri-esplorare. Da ben pochi intellettuali della sinistra notata e soprattutto capita. Riesplorare da parte degli storici. Anche rispetto al futuro di allora ed all'oggi. Io sono stato uno dei pochi a caldeggiare ed un poco a suggerire la strategia del rifiuto, anche perché talora la ritrovavo in certi comportamenti di quegli operai: ad esempio, lotte a gatto selvaggio che non rivendicavano niente. Però attraverso di esse cresceva una presa operaia, un potere operaio dal basso, sulla produzione e sulla sua organizzazione: mancava comunque sempre l'incontro con un potere dall'alto, mancava il partito della classe operaia..., ma intanto questa crescita di un potere operaio, piuttosto negativo, era un grande obiettivo e risorsa. Il pensiero razionale dice: prima gli scopi e poi i mezzi per conseguirli e quindi l'organizzazione migliore per quegli scopi. Lo scopo principale era il potere. Ma ci si può chiedere il potere non è a sua volta un meta-mezzo? Una meta-funzione? Per quali meta-scopi? Questo potrebbe essere un problema. Dicevo, un "potere-negativo". Infatti la questione del potere ha due aspetti: quello negativo è lo scopo di togliere il potere ai capitalisti i quali senza il potere di decisione generale sul sistema non possono più tenere insieme fra loro i momenti del sistema, ed allora negare un grande scopo dei capitalisti. Ed il "potere-positivo", ossia la risorsa per elaborare e realizzare scopi propri.
Intanto lo scopo medio-basso dell'organizzazione era prevalentemente negativo: togliere ai capitalisti il potere, tutto quanto il potere, poi (solo poi?) il movimento dei proletari avrebbe inventato il mondo alternativo trasformando la società-fabbrica ed estinguendo anche se stessi... In Russia nel '919 ciò era stato bloccato al primo passo! Essendo stata fermata al primo stadio quella rivoluzione non possiamo valutare la potenzialità del suo progetto, l'alterazione non poté iniziare, e neppure la trasformazione e quindi lo sviluppo della nuova forma alternativa. Per questo non dobbiamo cadere in certi equivoci quando cerchiamo di capire la strategia bolscevica ed in specie leninista (del Lenin che si rifiutava non solo di scrivere la storia..., ma soprattutto di prefigurare la società-comunista) e trotzkiana (proprio a partire dalla "rivoluzione permanente"). Ma adesso vorrei sottolineare qualcosa a questo riguardo. Ho iniziato questo testo scombinato parlando di Màdera e della sua contrapposizione a Tronti. Però il fatto è che la "strategia del rifiuto" era già anche un'anticipazione magari parziale, embrionale, dell'orientamento maderiano stesso e di certi atteggiamenti dei giovani d'oggi. Questo oggi va valorizzato! Ripeto, alcuni di noi dicevano: se con l'organizzazione si prendono nelle proprie mani il potere di decisione ampia sul sistema, poi questi movimenti che si risoggettivano crescendo in questa lotta si inventeranno e costruiranno il nuovo mondo, la nuova civiltà... In vista di altre ulteriori, successive rivoluzioni. E si pensava che già i bolscevichi nel '17-'18 ponessero abbastanza così la questione! Falso? Si vedeva la storia dell'Occidente negli ultimi millenni come un succedersi d'ondate rivoluzionarie (il che però non significa necessariamente progressive, tutt'altro) mosse da nuove minoranze ulteriori contro la "stasi" del movimento di ieri che ha vinto, di maniera che non solo la trasformazione evolutiva, o l'alterazione, ma la stessa rivoluzione non si fermava mai! E si notava il procedere della rivoluzione da una minoranza che quando poi vinceva diventava conservatrice e "statica" e difendeva il nuovo ordine da nuove minoranze "rivolutive" nate sul nuovo terreno conquistato ieri.
Tronti insisté anche sull'unilateralità contro l'universalismo dei social-picisti democratici, e fece bene.
Operaità. Qualcuno ha cercato (negli anni '80) di farmi passare per un veneratore delle "mani callose". Niente di più falso. Chi ha abbozzato per primo fra noi discorsi sull'intelligenza collettiva diffusa, sull'imprenditorialità e sull'innovatività diffusa, sulla forza-invenzione poi ripresa da Ferruccio Gambino (ancora piemontese), e altro? Fin dagli anni '50 degli operai stessi mettevo in evidenza tutto l'altro che stava dietro la mano. Già nel 1960 conricercavamo sui tecnici, sugli stessi impiegati amministrativi, ecc. Nella loro sopravvivenza complessiva. E sul territorio. La fabbrica nel territorio, dove tutto sta insieme... Il mio interesse per la "soggettività operaia" medesima veniva da qui. E non c'era proprio niente di populista, ma si trattava sempre del rapporto reciproco fra altri settori della classe operaia e gli operai...
Per quanto l'Italia arrivasse tardi e fosse un poco tutto un revival, tuttavia adesso non si trattava più di lottare in primo luogo contro l'arretratezza del nostro capitalismo, ma contro il capitale sociale più sviluppato e maturo della Fase classica, e nella società capitalistica.
Una cosa che pochi hanno colto è che in vero anche fra gli operaisti politici che furono per qualche anno miei compagni di strada, ben pochi e poco cercarono di chiedersi e di comprendere chi erano gli operai! Io mi sono sempre sentito diverso da quasi tutti gli altri perché cercavo di capire cos'era l"operaità". Ambivalente. Nei miei libri perduti la questione era assai questa! Non interessò quasi nessuno. Io avevo elaborato una teoria ed un metodo d'inchiesta partecipata, una prassi, che consentisse di rilevare ed andare più in fondo in questo. Faccio quest'ipotesi storiografica: l'operaismo politico degli anni '60-'70 si mosse tenendosi coi suoi giovani al centro di un grande poligono costituito dall'operaità e dal movimento operaio, dalla cultura esplicita (umanistica non poco) e dalla politica-istituzionale, dalle generazioni (donne e ambiente ancora non si coglievano) interrelate fra loro; ma allora tenne questi grandi snodi sullo sfondo, non si preoccupò o non fu in grado di tematizzarne e di approfondirne adeguatamente e con coerenza alcuno.
Una delle cose cui tengo di più è stata già alla fine degli anni '50 la maniera in cui proposi la questione dell'"autonomia degli operai", del "movimento degli operai", che andava crescendo, dalle istituzioni del Movimento operaio: il che non significa che questo a sua volta dagli operai non fosse usato, fin dove un poco ci riuscivano! E proprio per questo possiamo parlare di mancanza di una direzione politica e di uno sbocco politico almeno un poco adeguato: questo uso da fuori era la delizia ma anche la croce della faccenda. Senza autonomia non ci sarebbe stato niente, ma senza capacità di usare la politicità tutto era comunque plafonato, anche il potere operaio.
La cosa che in quegli anni risultava più provocatoria nei confronti dei comunisti-storici era il prendere in contropiede la contrapposizione bolscevica fra spontaneità e organizzazione buttando lì queste due parole "organizzazione-spontanea"! La spontaneità dell'inizio degli anni '60 era già di nuovo almeno un poco "organizzata". Nei miei scritti del '60 e '61 sul ritorno delle lotte alla Fiat quello che mettevo più in luce era che i nuovi scioperi erano più forti dove c'erano meno compagni. L'organizzazione ripartiva dal basso. E solo dopo qualche anno i "vecchi" compagni (che chiamavano gli immigrati "i moru" e per questo isolavano i nuovi quadri chiamandoli "capelloni", ed erano spesso all'inizio xenofobi se non razzisti) si "ricomposero soggettivamente", risoggettivizzandosi. L'organizzazione partiva dal basso, nel mobilitarsi sulle piccole cose; sì, ma poi per crescere qualitativamente aveva bisogno di qualcos'altro. Ma subito come qualche mobilitazione partiva, anche su questioni minimali, cominciava ad affacciarsi la questione dei militanti, magari militanti nuovi, di nuovo tipo, qualcosa d'embrionale in questo senso si presentava quasi sempre, si ritrovava di nuovo già lì.

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