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ROMANO ALQUATI
SUL SECONDO OPERAISMO POLITICO. Estate 2000


Ribadisco concludendo: questo doppio carattere qui, questo del lavoratore operaio contro lo stesso lavoro, magari contro se stesso, diventò pure qui da noi nel '900 il fulcro di un operaismo peculiare, che si ritenne anche "operaismo politico". Al quale alla fine degli anni '50 da noi qualcuno ri-pensò, passando magari anche per la Resistenza. Proponendo il tardivo "secondo operaismo politico", all'inizio assolutamente minoritario.
Infatti, crebbero in Italia almeno due diversi operaismi, secondo due vecchie tradizioni internazionali. Uno normale, diffuso ovunque, mondiale, d'origine borghese e cristiana, piuttosto populista, il quale vide gli operai come parte debole della società capitalistica, le vittime deboli, bisognose d'aiuto, di sostegno, di solidarietà umana, ecc. (ma ci sono anche gli oppressi forti, con potenzialità di uscita..., questo li interessava poco!). Questo operaismo amava (e tuttora ama) i proletari, la proletarietà stessa e di più l'operaità di mestiere: li esaltò ed ancora li esalta (perfino in certe interpretazioni del General-Intellect!!...) nella loro erogazione collettiva e combinata nella cooperazione di forza-lavoro e di capacità sia esogena che endogena (almeno un tempo...), "in produzione", dentro il grande e crescente macchinario sviluppato dalla tecno-scienza, producendo ed accumulando capitale, la ricchezza come capitale, nei ruoli di fabbrica; ma non solo capitale tangibile. In cambio di salario-di-fatto, e consentendo così quasi a tutti quanti di sopravvivere, a diversi livelli di reddito e di consumo. Operai deboli ma altruisti... Operai eroici: il culto di questo immaginario eroismo operaio, culto peloso strumentale... Allora, nessuna estinzione della classe operaia in programma! Ripeto che così erano anche gli stalinisti. Il sindacato cercò di far leva su questo, rappresentandolo, anche o soprattutto a Torino.
Ma contro questo crebbe un altro operaismo che diciamo e si è detto "politico", che, già con la socialdemocrazia della Prima internazionale ma poi secondo l'esempio bolscevico, vedeva gli operai come una forza, una grande forza innervata sull'intera articolazione della produzione ed accumulazione industriale del capitale e del capitalismo. Costoro compresero che questa aveva potenzialità anche nuove di essere rovesciata in una grande contro-forza. Così se gli operai ("magari!") potevano giungere a negare se stessi, la dimensione della loro lotta poteva superare i limiti del tradeunionismo e allora poneva la questione del potere generale sull'intera società da togliere al padrone collettivo per trasformarla radicalmente, per cambiare radicalmente lo stato di cose esistente, il corso della storia: la questione della capacità di incidere nei centri di decisione e comando effettivo sull'intera società, magari cominciando con l'impossessarsene, e che per questo obiettivo che poi deve articolarsi man mano in una successione di grandi scopi, pone il partito, come organizzazione politica di una parte: della classe-operaia come grande-parte. Cadendo anche in una tradizione organizzativista del primato del partito su tutto, anche sugli scopi... Cambiare la direzione della storia. Il che ancora oggi per Tronti costituisce la vera politica, quella che oggi è crollata! La questione del potere, proprio del potere operaio per abolire e superare questa società era la cosa più importante! Ma non necessariamente secondo il modello leninista, che presupponeva l'élite ed i rivoluzionari di professione che intervenivano anche dall'esterno portando capacità d'elaborazione e teoria e magari ideologia e religione. Magari religione implicita, forse inconsapevole...! Questo primo operaismo politico si impose fra socialdemocrazia e primo comunismo-operaio. Ed ho già ripetuto che esso nei suoi momenti più avanzati non amava né il proletariato e la proletarietà, né i proletari-operai e la loro operaità, tantopiù "professionale", perché motore vivente del capitalismo e della sua società di classe specificamente conflittuale. Volevano superare il capitalismo anche superando le grandi classi "dicotomiche". E lo stato...
Premetto di nuovo, sia il secondo operaismo politico dei primi anni '60 che i suoi eredi non si intesero mai con marxisti innanzi tutto italiani perché mentre questi ultimi erano irriducibilmente economicisti loro invece erano "politicisti" ed usavano "politicamente" anche la dimensione del salario-di-fatto e dell'economicità capitalistica; e questo è stato importantissimo.
Orbene, la cosa più importante che va sottolineata perché ha qualificato il secondo operaismo politico differenziandolo radicalmente dal primo, come ho già ripetuto, è stata l'avvento sulla scena ed il divenire gradualmente maggioritario dell'operaio-massa". Lo slogan dell'operaio massa era "più soldi e meno lavoro": un certo nihilismo al livello basso di realtà (che poteva anche combinarsi con religioni varie e diverse ad altri livelli) da un lato faceva piazza pulita del sacrificismo tecno-scientista e produttivista, degli eroi del lavoro, ed aprendo all'edonismo; e che fino ad un certo punto si inscriveva nella linea di salari meno bassi del fordismo pure nostrano, linea che poteva essere forzata oltre certi limiti aprendo prospettive più radicali. Orbene il "secondo operaismo politico" nella transizione dei primi anni '60 è ripartito da qui; ma tenendo conto e facendo leva sulle nuove differenze del capitalismo e dell'industrialità e dell'operaietà. Il secondo operaismo politico fra l'altro comprese che nelle condizioni (fordiste) eccezionali e nell'ambivalenza degli anni '60\'70, anche per la rapidità d'alcuni aggiornamenti tardivi ed imitativi nostrani, la rivendicazione salariale spinta oltre certi limiti solo apparentemente era questione economica ma in vero diventava politica, e poneva al solito la questione del partito. Magari come armamento leggero, sarà detto dopo... Ma anche l'operaismo politico si sdoppia: c'è il primo dei primi anni '60 che pensa in grande anche perché molti di quei pochi fanno riferimento al PCI…; e poi c'è il secondo periodo dell'operaismo politico post-sessantottesco dei partitini (che ebbe per leader Toni Negri) che si muovono su una scala di lotte ed interventi molto più grande e quindi con problemi nuovi e diversi, ma fanno riferimento a se stessi e proclamandosi loro il nuovo partito della classe (però piuttosto coi soliti vecchi modelli della banca del 1910): cosicché erano contro il PCI, ed il quadro istituzionale ed istituzionalista in cui quello continuava a muoversi: nel decadere dello stato democratico dei partiti parlamentari italici, verso l'autoreferenza.
Aggiungo subito che a mio avviso pure per il coesistere delle due suddette diverse e contrapposte concezioni operaiste, populista e politicista, c'erano negli anni '60 due differenti atteggiamenti sulla posizione e condizione operaia, ed entrambi provenienti da molto lontano. Il primo in Italia assolutamente prevalente dal '22, dal '45, dal '48 e dal '55 di coloro che commiseravano e piangevano i poveri operai, miseri, laceri e sempre sconfitti: voglia di piangere? una sinistra sempre piangente che vedeva il crollo finale dell'umanità industriale provocato dai monopoli, nel ristagno, ecc. e magari (come la FGCI) sperava nel terzo mondo, nella negritude, ecc. Un secondo atteggiamento, "ambivalente", risalente alla piccola ripresa di lotte operaie dal '57-'58, dall'avvio del boom fordista (contemporaneo ai fatti di Polonia e soprattutto d'Ungheria), e tipico di giovani intellettuali (fra i quali c'ero anch'io con un gruppo di compagni), ma anche in maniera diversa di giovani operai - le "giovani forze", scrissi io - che pur prendendo atto della durissima nuova "condizione operaia" dentro e fuori degli stabilimenti, come ho già ripetuto, vedeva anche l'aspetto positivo della sua ulteriore enorme forza, potenziale contro-forza, magari a certe condizioni, pure politico-soggettive, disponibile in una certa parte (quale? quanta?) per una lotta contro; in partenza proprio contro gli aspetti più immediatamente negativi e dolorosi della nuova situazione e condizione, ma volendo usare il fatto che gli operai erano pur sempre gli attivatori di quella anche nuova e ancora cresciuta immensa potenza. E magari non solo potevano usarla anche per sé, ma poi magari perfino, in significato alto, "contro di sé", oppressi forti!... Così l'inizio del primo editoriale su Classe Operaia Tronti riprendeva i cinque o sei anni di esperimenti ed esperienze di mobilitazioni, di nuovi gruppi o piccole élite, e prime lotte di nuovi militanti giovani, espressi molto spesso dal nuovo e giovane operaio-massa (molti ex-contadini proletarizzati ma scolarizzati)... Così da un lato: basta con quel compiacimento perpetuo della sconfitta, ma cercare come meglio usare questa forza! E dall'altro: non puntare più tanto sull'anello debole del capitalismo, ma sull'anello forte della classe operaia... (e qui Torino allora...: sono ancora chiuso qui da allora). "Cambiare segno".
Tronti "in politica" era "togliattiano". I trontiani, riprendendo il "dentro e contro" e questo doppio carattere qui dei lavoratori, proposero nel '64 questa seconda e ben più ambiziosa strada, in una situazione nuova della fabbrica e della società-fabbrica in Italia. Che, pur sviluppista, costringeva a problematizzare il tecnicismo e lo scientismo, e che aveva riferimento al punto anticipatore e più avanzato della lotta operaia in Italia che era allora ancora Torino: ci fu dal '62 al '65 un certo strano asse fra alcuni romani ed alcuni torinesi. Convergemmo ad esempio sulla constatazione che la fortissima pressione salariale, la quale per le condizioni del cottimo comportava un forte e complesso risvolto organizzativo, con lo slogan "più soldi e meno lavoro", colpiva il fatto che nel salario il padrone (comprando ed\od affittando col contratto) pagava i gesti e così "la mano" o "il braccio" ma in vero poi consumava accumulativamente tutto il corpo del salariato, inclusa la psiche, la mente, lo spirito, il sapere e la conoscenza anche endogena alla classe: ed incluso anche il corpo sociale vivente dei congiunti (a cominciare dalle casalinghe... e dall'intera comunità operaia residua): senza riconoscerla e pagarla. Inoltre legato a ciò colpiva appunto il fatto (già denunciato da Marx) che il padrone collettivo, sociale, pagava il singolo ma usava e consumava il lavoratore in una cooperazione collettiva integrata e macchinizzata, di cui le condizioni organizzative e tecnologiche e scientifiche e il macchinario, il lavoro trascorso, erano di sua proprietà, però erano prodotte, attivate e innovate continuamente dall'operaio di fatto collettivo e ricomposto ed a sua volta sociale e conflittuale (la partecipazione conflittuale allora era studiata anche dai politologi); e tutto ciò non era riconosciuto e pagato che in minima parte.

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