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INTERVISTA A ROMANO ALQUATI - DICEMBRE 2000


Poi è arrivata la razionalizzazione tayloristica e fordista che ha messo nelle fabbriche i contadini come "operai-massa" combinati in maniera nuova anche con i professionali che mutano. In Italia questa seconda fase, che dico "classica", è partita subito nel primo dopoguerra in alcune fabbriche soprattutto torinesi, ma poi la nuova industrialità si è allargata lentamente al resto del lavoro occupazionale e di quello industriale, cosicché la composizione statica di classe proletaria ed operaia (del grande gruppo sociale operaio in senso sociologico: ma io dicevo e dico anche che in certi periodi è stata molto la classe dicotomica a fare la classe sociologica!) ha visto a lungo uno spettro ampio di condizioni. Il clou sono stati (e sono adesso in altri paesi e continenti) i contadini giovani scolarizzati, nella grande serialità del sistema uomo-macchina. Voglio ricordarvi solo come i rari giovani comunisti, piccolo-borghesi in rivolta, nel '60-'61 ce l'avessero con l'automobile, con gli elettrodomestici: odiavano le mogli proletarie che compravano a rate rendendo i mariti operai "schiavi delle cambiali", perché erano già "schiavi della pubblicità!"... Non c'era mai l'ambivalenza, la considerazione dell'ambivalenza anche degli operai comunisti stessi: o tutti di qui religiosamente nella religione del comunismo, o tutti di là nella religione "della vita quotidiana" e nel feticismo del capitale e del capitalista. Nella cosalità, ripete Màdera da Marx.
Poi è venuta la terza ed odierna fase che io dico dell'iperindustrialità e dell'iperproletariato nell'ipercapitalismo: tutto iper; ma qui che operaietà c'è? Ma c'è ancora? Ma cosa é l'operaità in generale? Adesso abbiamo qui e nell'Occidente la complessa e complicata soggettività iper-proletaria. Un bel nodo! Nella nuova ambivalenza della trasversalità del lavorare specifico. Ci vorrebbe anche un G. Anders dell'inizio del nuovo millennio, ma capace d'ambivalenza... Comunque negli ultimi vent'anni non ho fatto quasi altro che proporre ipotesi sull'iperproletariato nell'Occidente! Con la psichicità (timica ed emotiva, della mente e dell'anima, incarnate: lavorare mentale di iper-proletari ulteriormente e sempre più proceduralmente scolarizzati, diplomati). Col lavoro formalmente autonomo e schiavistico, il ritorno d'artigianalità nelle nuove tecnologie scientifiche, il graduale prevalere del lavoro di consumo e dell'essere anche occupati nella riproduzione della capacità umana, con l'ulteriore femminilizzazione dell'occupazione; con quella che anche voi chiamate la colonizzazione culturale, e le nuove conflittualità, ecc. ecc. Sono un po' stufo. Anche a me piacerebbe uscire anche da questi linguaggi, girare pagina, magari rovesciando Kelly o assumendo gli "abitanti" di Magnaghi, ma vedendoli anche mobili nell'infosfera, nel virtuale, nella "comunità senza territorio" e sempre provvisoria di cui racconta Bifo Berardi? Però molti problemi (non solo nei livelli alti) sono rimasti sempre quelli ottocenteschi, sempre aperti; anche nell'interpretazione storiografica.
Adesso lascio a voi il bell'esercizio di provare ad ipotizzare cosa corrisponde sul piano della soggettività e soggettività operaia a queste tre grandi epoche e figure della proletarietà e lì dentro dell'operaietà. E' anche un ulteriore riscontro dell'ipotesi scabrosa del materialismo storico: ambivalenza...
Come ho scritto da molte parti anche di recente, la questione storiografica per me centrale è che, malgrado ciò che più in generale la cultura proletario\operaia ha nell'industrialità in comune con quella del capitalista industriale da cui proviene nella dimidiazione dell'artigiano della civiltà contadina, pur tuttavia ci sono stati alcuni periodi anche in Italia in cui vaste minoranze e perfino fugaci maggioranze operaie hanno mostrato una cultura ed una soggettività loro diversa! Ed allora mi vado chiedendo e chiedo anche a voi: come mai? Questo a mio parere dovrebbe essere il principale nodo di ricerca storiografica per degli storici non conformisti, tutt'oggi! A mio parere anche il successo di romanzi storici come "Q" e certi di Evangelisti (quelli dell'Inquisitore) deriva molto dal loro scavare già un poco lì dentro e in questa direzione...
Però ora complico ulteriormente il quadro magari regressivamente, guardando ancora indietro, indugiando ancora nelle eredità del mondo trascorso, perché se è relativamente facile parlare della soggettività-politica e delle grandi culture politiche tradizionali del movimento storico operaio, appunto piuttosto "tradizionale", io mi chiedo e chiedo se non sia il caso anche di incrociare le due e non solo riscontrare, mediante il nodo dei militanti politici ed operai, l'esistenza di una peculiare soggettività politica proletaria ed inoltre operaia! O invece è plausibile oggi un "comunismo post-operaio"? D'iper-proletarietà non più operaia e che neghi se stessa? Basta!

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