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INTERVISTA A ROMANO ALQUATI - DICEMBRE 2000


E' bene sapere anche che come molti altri di noi, io non sono entrato nella mia maggiore crisi all'inizio degli '80 e tantomeno con la caduta del muro. Ma ho vissuto una crisi anche più profonda verso la metà degli anni '50 ossia ai tempi del mio primo incontro con la religione marxista e socialcomunista succeduta all'altra cercando una via d'uscita da certe trappole e labirinti: la questione del feticismo mi si prospettava più come neo-comunista (ad esempio nel '60) che come operaista: il comunismo operaio più come rielaborazione del comunismo che come fede operaista: quindi, operaismo critico e sperimentale. Ambivalenti?
Inoltre per me fin dal '56-'57 si era aperto un altro squarcio, o due, anche per capire un poco meglio l'operaietà e la soggettività operaia effettiva: da un lato la conoscenza di D. Mothé di cui presentai a Torino nel primo 1960 il "Diario di un operaio", e la lettura di altri diari di operai americani e di romanzi su storie di operai taylorizzati americani e loro storie di vita pubblicate pure in Italia. E poi saltava fuori pure tutta una certa letteratura storica e sociologica europea su questo. Mothé ad esempio diceva che gli operai venivano trattati anche dalla sinistra come monumenti (al partigiano), o come mere mani o meri stomaci, ma erano invece persone intere con i loro valori e la loro quotidianità, le loro sofferenze, le loro memorie ed i loro immaginari e desideri, ed i loro piaceri e gratificazioni anche materiali, o anche spirituali, ecc. Che gli intellettuali soprattutto di sinistra ignoravano, ma lui un poco descriveva. Questo primo squarcio... Dall'altro lato a Milano ed a Cremona avevo cominciato anch'io a mettere il mio naso antropologico ("con quel naso che ti ritrovi", mi diceva Renato) nella vita e nelle case degli operai. Fra l'altro anch'io ho dato una mano a Danilo Montaldi per "Milano-Corea". Mi ingerii fra lavoratori in fabbriche taylorizzate, più o meno, della zona sindacale di Piazza Napoli a Milano, poi guardai ai semilumpen dell'Ufficio tecnico comunale cremonese, alle ragazze silicotiche delle ceramiche cremonesi, agli operai della terra ovvero della "fabbrica verde" o di certe fabbriche medio-piccole di Cremona (l'Ocrim): su un versante l'organizzazione dell'occupazione lavorativa nello stabilimento, dall'altra parte la vita ed appunto la soggettività, la cultura soprattutto, nelle loro case e quartieri... Da allora mi abituai a praticare una mia abbastanza sistematica "osservazione partecipante" antropo-socio-culturale che mettevo anche in prospettiva variamente politica, la quale all'inizio fu una sorta di antropologia operaia e\o proletaria.
"Personalmente" avevo una forte curiosità per le persone di formazione ed educazione diversa dalla mia, fin da bambino. Questa derivava anche dal fatto idiosincratico che, proprio per la mia origine piuttosto aristocratica, mi trovavo sempre a disagio anche con certe dimensioni dei ruoli sistemici degli altri e coi rapporti terziari, e che sempre cercavo di personalizzare i rapporti con tutti quanti, passando comunque pei ruoli, anche nella metropoli. Trasformare i rapporti in relazioni, aspirando ad un'altra maniera di comunicare e ad una socialità quasi sempre impossibile. Anche molto con le donne: in specie con le proletarie, proletarie due o tre volte (nella doppia e tripla presenza). Ma quello che ne ricavavo dovevo tenermelo quasi tutto per me, in specie dopo l'adolescenza cremonese. E ben di più a Torino e nel lavoro politico "operaista".

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