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INTERVISTA A ROMANO ALQUATI - DICEMBRE 2000


Allora mi ero concentrato sulla "logica specifica dell'oggetto specifico", dove specifico già voleva dire capitalistico e nella sua ambivalenza. Nella (e contro la) società industriale ed appunto "specifica" al centro della soggettività ed intersoggettività era già da alcuni decenni il taylorismo. Ossia l'organizzazione scientifica e così razionale dell'agire umano in lavorizzazione; agire che alterna e combina momenti di riflessione consapevole a momenti silenti, inconsapevoli, (quasi automatici). Organizzazione la quale oggi dall'esercito e dagli stabilimenti passando pei servizi alle persone sta estendendosi all'intera società fabbrica di capitale, coi suoi rapporti e scambi mercantilizzati. Qui la comunità era ipotizzata ed esplorata come (un residuo?) peculiare, sia inclusa che includente la società. Qui le persone agenti pagano qualcosa, or più or meno, della libertà in cambio della potenza, cercando un punto più o meno statico d'equilibrio fra vantaggi e svantaggi dell'appartenenza e dipendenza, e vantaggi e svantaggi dell'autonomia. Però per noi quest'equilibrio doveva essere criticato e rotto soggettivando per valorizzare e promuovere esperienza diversa da quella talora mossa dall'innovazione e rivoluzionamento capitalistici contro la vecchia routine, e comunicando in reciprocità, coinvolgere e mobilitare forze sociali nella progettazione di un radicale (e rapido...) movimento della parte alta del sistema sociale.
Ma allora poi subito in un'altra dimensione meno alta (su un livello di studio e osservazione della realtà diverso e parecchio meno alto, nei dintorni del mio medio raggio), una dimensione pseudo-fenomenologica (e pseudo-esistenzialista), e una dimensione più junghiana, pure, e tra psicanalisi applicata qui come peculiare psicologia e psicoterapia da un lato, e al contempo dialogando pure in una dimensione d'antropologia soprattutto culturale, dall'altro, dimensione d'antropologia urbana e metropolitana, ecc., si parlava di soggettività in una maniera più ambigua, di compromesso, e contraddittoria, proprio per questa contraddittorietà, e relativa, ed ibrida: meno impraticabile pure per me. In fondo noi dovevamo assumere e criticare proprio il soggetto effettivo di fronte all'oggetto effettivo, una soggettività attiva e lavorativa effettiva effettivamente osservata e vissuta, e farlo con varia sistematicità; ma semmai criticamente, con una certa consapevolezza dei limiti e delle conseguenze e pure tentando di spingere queste assunzioni oltre certi bordi... Cercando appunto l'incontro anche con la suddetta "rottura epistemologica marxiana", come più tardi la chiamerà Tronti. Si parlava anche in Italia, magari intorno a Pizzorno (libro chiave sarà presto "Comunità e razionalizzazione") e sulle "riviste del disgelo" pure italiane già di nuovo di una "scienza sociale soggettiva": ecco, quest'oggetto misterioso era quanto mai attraente. Infatti non si trattava solo di Shutz, dell'etnometodologia e dell'interazionismo simbolico! Anche nell'uso critico del cosiddetto "funzionalismo" (dice bene Guglietti che funzionalista in vero era semmai implicitamente il PCI, e razionalista, oggettivista, ecc.). Tuttavia in ben pochi "operaisti" studiavamo qui dentro, e criticavamo: contro Gramsci ma non del tutto, magari col giovane Lukàcs, ma solo in parte, o con Weber, malgrado i suoi limiti, o con Adorno ed Horkhaimer, sebbene avessero chiuso troppo in fretta certe grosse questioni, e con loro allievi od orecchianti, ecc., ecc. Da Husserl alla scienza altra, passando pel delirio o sogno della "scienza operaia"... Quasi solo i "barbari incolti" si fecero carico di ciò: gli altri in fondo di fatto vedevano abbastanza il "discorso culturale" ancora nei termini Desanctis-Croce-Gramsci. Certo, come ho detto prima, meno il Tronti di allora, Negri che l'usava come tattica di copertura, sebbene parecchio, e ieri anche Cacciari e qualche amico di De Caro (replico, oltre ad un nucleo di "barbari"). Non erano solo problemi cognitivi, ma a mio parere malgrado tutto c'era anche un risvolto etico e religioso (ma non in senso confessionale). La questione che mi riproporranno negli anni '70 (ma già si affacciava allora) alcuni filosofi (fra i quali Neri, Rozzi) è quella della presenza del male in tutti noi, e nella tecnica stessa, anche al di fuori della società capitalistica. La tecnica (al di fuori della quale l'uomo non esiste) facilita la vita ma dà anche la morte. Come diceva Guido Neri con Rozzi, critica non solo dell'economicismo, ma anche dello sguardo (solo) tecnoscientifico sul mondo, e della sua ambivalenza! Come già non si disse granché sull'uso capitalistico delle macchine, neppure si approfondì l'uso capitalistico della tecnoscienza. Tantomeno si è progettato o approfondito l'avvio di una progettazione dell'uso comunista! Il comunismo tradizionale ed operaio non si è granché occupato di questo, e non ha nemmeno detto granché sull'interiorità umana, non avvedendosi nemmeno granché della propria religione! Nella tradizione comunista classica (operaia), pure leniniana (da non confondersi con lo stalinismo di moltissimi picisti), mancava tutta un'ambivalenza, pure lì in alto! Ma sugli statuti della scienza a livello internazionale si stava già incominciando a muovere l'epistemologia (scientifica) di parte padronale che cercherà man mano di recuperare quel che potrà sulla via di nuovi paradigmi scientifici più flessibili e di più flessibile razionalità, per allargare ulteriormente il campo alla scienza-galileiana e così tecnoscienza: per nuove razionalizzazioni e macchinizzazioni capitalistiche.

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