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INTERVISTA A ROMANO ALQUATI - DICEMBRE 2000


Per il fatto che ero ormai un "cane sciolto", a Torino io personalmente, malgrado fossi trattenuto da grossi problemi privati, nell'inverno '67\'68 seguii da vicino quella rivolta; anche perché leader e interi nuclei traenti venivano di continuo a stanarmi. Ricordo che mentre Romolo Gobbi in un primo tempo era stato duro e sarcastico contro questi figli dei borghesi e prossimi dirigenti in un'Italia capitalistica più moderna anche grazie a loro, io pur rinunciando a discuterne con Romolo, insistevo comunque su certi risvolti di una loro ambivalenza, e fui subito vicino a loro, almeno proprio fin quando misero lo studio ed i rapporti scolastici in relazione al prossimo-futuro destino lavorativo di una buona parte di questi giovani e purtroppo non "fuggirono" davanti alle fabbriche, dove gli operai avevano ben poco bisogno di loro! E partecipai per loro fin quando lottarono sul terreno dell'Università d'élite e della loro formazione.
Ma in una città come Torino vennero alla luce subito delle componenti, dei filoni peculiari, quando presto confluirono nella grande rivolta gli studenti medi: quelli degli istituti tecnici! Qui non era più solo questione nemmeno di piccola borghesia in proletarizzazione. C'erano soprattutto i figli di una vecchia classe operaia locale, e qualche figlio di nuovi operai. Magari loro pure in contrasto coi padri?...
Questo cambio generazionale avvenne quasi contemporaneamente per quasi tutto l'Occidente più avanzato. Partì dagli Usa, e ripeto che non fu solo una questione di piccola borghesia e borghesia subito per come si collegò alla guerra del Vietnam, come molti film anche commerciali ci hanno mostrato. E aveva grosse influenze sociali ed economiche (e qui il discorso da farsi é già enorme) ed investiva anche il mondo politico, istituzionale e no, soprattutto investendo le dimensioni soggettive. Questo è il punto. Bisognerebbe ricostruire nel tempo ed in generale e poi anche dentro il proletariato e poi dentro il grande gruppo sociale degli "operai di fabbrica" la storia di alcune decisive trasformazioni soggettive, mostrate dalla rivolta dei giovani studenti.
Infatti l'imprevista esplosione del movimento studentesco innanzi tutto universitario anche e di più nell'arretrata Italia, nelle varie e importanti componenti della "contestazione globale" non mise in questione solo l'organizzazione della fabbrica tayloristica che si estendeva alla società cominciando a mostrare nei rapporti e scambi organizzati la razionalizzazione e la società-fabbrica di cui noi parlavamo già da vari anni. Colpendo pure assai il lavorismo e il tecnicismo produttivista del movimento operaio socialcomunista e cattolico tradizionale ed anche italico. No, non solo già quest'enormità che già vedevamo fra i giovani operai. Inoltre centrò anche l'ambivalenza del fordismo, mostrando, come dire, "la parte maledetta" di quel fordismo dei cosiddetti alti salari nel del consumo e superconsumo, e consumismo, di massa, sul quale dalla fine degli anni '50 in specie in centri del Nord convennero anche gli operai-massa ed in specie proprio e di più gli immigrati dal 'sud: quelli che i cineasti continuano a mostrarci solo come i poveri arrivati con gli scatoloni di cartone e che dormivano ammucchiati in certe carissime soffitte (e che adesso da anni sono proprietari di alloggi e manifestano da razzisti contro gli extracomunitari...). Alcuni di noi conoscevano già l'ambiguità etica ed ideologia, soggettiva, di questi ex contadini scolarizzati entrati nelle fabbriche razionalizzate. Conta questa scolarità. E l'ambiguità della stessa grande rivendicazione "più soldi e meno lavoro" stessa. E vedevano anche che gli studenti nel '67\'68 coglievano e mostravano un nodo di contraddizioni che andava anche al di là di alcune componenti dello stesso rifiuto del lavoro e dell'etica lavorista del movimento operaio istituzionale e "tradizionale" medesima, contraddizioni sulle quali puntammo anche noi agli inizi degli anni '60 in termini di politicità poco più che congiunturale della questione salariale e di politica economica (su cui poteva anche convergere il sindacato...). Linea ambivalente e rischiosa che giungeva fino agli stessi "autonomi" del primo e di più del secondo Rosso negli anni '70, vicino proprio al proletariato giovanile. C'erano componenti soggettive d'enorme importanza che neppure quell'operaismo estremo seppe cogliere e trattare nei termini della nostra prospettiva politica. La questione del "più soldi" e per farne cosa diventava ben più problematica e scabrosa, e certi aspetti fino allora ignorati pure dagli eredi dell'operaismo a cavallo fra gli anni '50 e '60 non potevano più stare nascosti in secondo piano! Momenti del nostro nihilismo incontravano momenti del loro...

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