Saggi storici | |
![]() |
![]() |
ALCUNI GIUDIZI SUL NUOVO TERRENO DI LOTTA
Abbiamo dedicato ampio spazio alla cronaca dei fatti e siamo partiti da
lontano nel considerarli e mettere in evidenza quegli aspetti positivi di
programma che sono emersi nell'ultimo anno di lotte, perché ci sembra
che poco spazio gli sia stato dato nelle assemblee fino a qui tenute dagli
studenti che pur ne sono stati i maggiori protagonisti.
Autoriduzioni, ronde proletarie e operaie, occupazioni di case hanno sottolineato,
nei mille rivoli in cui si è sfrangiata la lotta, il carattere nuovo dell'illegalità
di massa e della componente interna a questa esperienza.
Hanno dimostrato intanto che la lotta non era solo di studenti, ma di una
componente proletaria che ingrossa il mercato delle braccia, disoccupati,
sottoccupati, e che vive il suo bisogno in termini di reddito.
Non c'è stata la capacità di adeguare la discussione su questi problemi
che si evidenziavano e si è finiti molte volte per coglierne un singolo
aspetto ed esaltarlo, senza capirne gli elementi di unità e potenzialità
che fin dall'inizio questo movimento poteva esprimere.
Ci sentiamo da questo punto di vista interni e vogliamo esprimerci con un
nostro punto di vista in un momento in cui sembra prevalere una teoria dell'affossamento
di queste esperienze, non capendone gli elementi di continuità e di saldatura
che possono avere con lo scontro aperto nelle fabbriche intorno alla tematica
del salario e dell'orario.
Diciamo no ai teorici della sconfitta
Vogliamo intervenire perché continuamente nelle assemblee si parla del «rapporto»
con gli operai, e ancora non è emerso su cosa si voglia avere questo rapporto
e con chi.
Non è solo un problema di scelta di funzionalità (con tutti davanti ai cancelli
e con la Flm all'università), ma una precisa linea politica che contraddistingue
alcune forze. Non a caso nelle assemblee si sono visti riaffiorare sciacalli
e corvi, gli stessi che sino all'inizio delle autoriduzioni sputavano
merda sulle cose che succedevano e ora, nel momento della repressione, si
pongono come gestori del riflusso, cercando continuamente di spostare il
tiro, di democratizzare il terreno di lotta, di agganciarlo al carrettone
sindacale, per riconquistarsi quello spazio che le lotte dentro e fuori
la fabbrica gli avevano sempre negato, individuandoli come codisti e reggicoda
del Pci; la velleità di rappresentare la nuova area riformista. Il peso
sociale e complessivo della crisi ha indotto modificazioni profonde alla
struttura del mercato del lavoro e alla composizione operaia. Non è possibile
oggi riconoscere una figura egemone dal punto di vista produttivo, e i richiami
alla classe operaia rischiano di essere richiami a una categoria sociologica,
a una tematica fabbrichista, se non sono corredati dalla consapevolezza
che la «centralità operaia» va vista in termini di programma che riunifica
una serie di bisogni intorno alla prospettiva di potere, che unifica sul
territorio la figura nuova di operaio sociale.
Questo programma è interno ai comportamenti di resistenza diffusa, di rifiuto
della logica sindacale delle lotte che non è e non può essere patrimonio
di tutti gli operai di fabbrica.
È aperto dentro la fabbrica uno spaccato profondo, anche se non ancora esplicito
a Bologna, che contrappone, per schematizzare, - l'operaio del 3° livello
a quello del 5° e 5° s., cioè coloro che non si sentono più garantiti sia
del reddito che del posto di lavoro, e coloro che grazie ai privilegi di
salario, alla figura professionale che hanno assunto dentro alla produzione,
alla loro affezione al lavoro (più alta percentuale di straordinari), per
la sicurezza che hanno ottenuto (casa di proprietà, lavoretti extra all'orario
di lavoro ecc.) hanno tutto l'interesse a mantenere le cose così come
stanno, sono disposti a fare sacrifici, perché sanno di essere privilegiati
rispetto all'operaio comune. È questi ultimi che il sindacato rappresenta
e ne tutela gli interessi Proprio gli ultimi avvenimenti hanno innescato
dentro le fabbriche la discussione contrapponendo queste due componenti.
E ci siamo anche accorti che quando la discussione si bloccava sulla vetrina
rotta, solo la capacità di gestire interamente questo terreno (mettendo
anche in evidenza il carattere di «deviazione» che in alcuni casi questa
pratica reca con sé, che non può essere assunta come elemento propositivo,
ma deve essere guidato da una capacità politica di fare delle scelte non
indiscriminate sugli obiettivi, anche se certo non presentano di per sé
elemento di estraneità alla presenza di massa sulla piazza) ha fatto chiarezza
non sui singoli fatti ma sul significato politico e la portata di questa
lotta, e/o su chi (per ideologia) si è cristallizzato sulle sue posizioni.
Se oggi questo spaccato significa possibilità di far emergere un punto di
vista comunista la cosa che dobbiamo dire è No al mostro sacro dell'unità
di classe come unanimismo sindacale, sì a una battaglia sul programma che
evidenzi il fronte dell'occupazione da quello dell'accettazione
della tematica dei sacrifici e della gestione della crisi. Crediamo infatti
che solo se si è all'attacco sul programma si riesce a superare l'ultima
trincea che il controllo revisionista ha tessuto intorno alle lotte. Mai
come in questi mesi l'apporto del Pci si è rappresentato come corpo
di polizia sociale da usare contro l'area della ribellione, mai come
ora ha però dimostrato la debolezza della sua rete di controllo, quando
cominciano a saltare alcuni equilibri economici, quando l'area del consenso
si incrina (lotte dei dipendenti pubblici), e il movimento si esprime apertamente
contro ogni logica di recupero in illegalità di massa. Al di là del ruolo
poliziesco del Pci, tramite i suoi organi di stampa che costruiscono montature
per scagionare gli assassini di Stato, oltre alla rete di spie infiltrata
nel movimento che ha stretto rapporti con la questura, oltre al servizio
d'ordine contro gli estremisti, si sta facendo sempre più chiaro cosa
sia il «governo delle astensioni». Quando le lotte escono dagli argini del
controllo «sindacale», allora il Pci si presenta in quanto partito operaio
a fare da tampone con una presenza terroristica e paternalistica sulla piazza
(come a Roma), ma quando questo non basta allora intervengono le autoblindo
per decretare lo stato d'assedio. Così Zangheri, sindaco di Bologna,
consegna la città in mano all'esercito quando vede che non bastano gli
appelli alle forze democratiche. E oggi la polizia non si accontenta di
una pura opera di contenimento e di repressione, ma prende lo spunto per
operare una vera e propria azione antiguerriglia a cui da tanto tempo squadre
speciali e Sid si sono dedicati.
Così Roma, Bologna e Padova come la Sardegna, il Friuli, Seveso diventano
zone di operazioni militari. Si dichiara lo stato d'assedio, si instaura
il tribunale speciale, si chiudono le fonti di informazione non di regime,
si fanno i rastrellamenti di massa, le perquisizioni a tappeto, si tiene
la città con le autoblindo. Quando un territorio si sta trasformando in
probabile terreno di organizzazione, allora occorre evacuarlo e instaurare
un clima di terrore poliziesco; lo sanno i mezzi di informazione di regime
che devono coprire tale operazione. Quello di cui hanno avuto paura non
era la risposta che si era espressa in sé venerdì e sabato; ma la qualità
interna che conteneva.
Per la prima volta si sono trovati di fronte a un corteo non più disarmato,
le cui sedi di decisione politica reale non erano più le assemblee ma tutta
la città e le barricate. Era lì che risiedeva la vera capacità di decisione
politica, è stato lì che il movimento ha fatto un notevole salto unificando
nel fuoco dello scontro iniziativa politica e militare. Questa ricchezza
è stata in parte anche il segno di una debolezza del movimento che si esprimeva
soprattutto come spontaneità e creatività più che con sedimenti reali di
organizzazione, e in più punti questo ha portato a una «dispersione» di
forza e di strumenti per la lotta. Ma d'altra parte quello che ha posto
in rilievo è stato rappresentare come possibile da oggi il praticare forme
embrionali di liberazione del territorio, e lì dentro sancire una nuova
«regola», una capacità comunista di rompere la legittimità delle merci,
ridistribuendole non più tramite denaro ma secondo la necessità e il bisogno.
Costruire momenti di contropotere Costruire momenti di contropotere deve
essere oggi la parola d'ordine che l'esperienza di organizzazione
dentro la classe deve affrontare non più solo come problema di dibattito
ma di pratica di lotta. Liberazione del territorio e pratica del contropotere
non possono essere visti come un processo di insurrezione a cui richiama
il tessuto sociale di militanti comunisti, ma deve essere la pratica di
un terreno che ogni giorno si sedimenta e cresce, dove il problema non è
costruire esperienza geograficamente vasta, ma conquistarsi spazi politici
in cui ricomporre il problema della tenuta con quello dell'indicazione
di massa. Ricomporre sul territorio la figura sociale dell'operaio legando
lavoratori garantiti e non garantiti intorno alla tematica del reddito con
un ciclo di lotte che prendono e non chiedono, vuole dire articolare un
terreno di iniziativa che dalla tematica della riduzione generale nata dall'orario
si leghi alle lotte per la garanzia del salario, un'articolazione che
deve riscoprire una faccia passiva rilanciando le lotte sulle occupazioni
delle case, i picchetti di supermercati, spese politiche, autoriduzione.
È la ronda proletaria che garantisce queste esperienze, che individua gli
obiettivi, che impone la presenza organizzata degli studenti, dei disoccupati
davanti ai cancelli delle fabbriche il sabato, contro gli straordinari,
legandoli agli obiettivi interni, alle solide scintille di lotta: le gerarchie
di fabbrica, i ritmi, la nocività, l'estensione e l'aumento dei
presalario degli studenti, il prezzo politico della mensa e l'apertura
di mense di quartiere, l'aumento dei sussidi di disoccupazione e il
controllo sugli uffici di collocamento, la lotta contro il lavoro nero.
Lotte che portano il segno di una tematica di potere; dalla fabbrica al
sociale si rappresenta la stessa faccia della ristrutturazione. Fare un
salto nella qualità delle forme di lotta e di programma significa darsi
anche strumenti nuovi di organizzazione; è più che mai necessario costruire
un centro di iniziativa politica che riunifica non a parole ma su una pratica
di lotta operai, studenti, disoccupati, lavoratori dei servizi, braccia
per il lavoro nero.
Foglio a cura del Coordinamento operaio cittadino, Bologna, marzo 1977.
CONTRO LA BARBARIE DEL CAPITALE POTERE OPERAIO PER IL COMUNISMO
Compagni, ogni anno, a migliaia di proletari viene il sangue agli occhi
per un fatto apparentemente «senza senso», di certo insopportabile e provocatorio:
la distruzione di tonnellate e tonnellate di frutta, di prodotti della terra
in genere. Un ente di Stato, l'Aima, compra la frutta per avviarla «alle
fosse biologiche», per avviarla a essere stritolata dai cingoli dei trattori.
La contraddizione è soltanto apparente.
La ragione di questo «fenomeno», come si sa, è economica: milioni di chili
di pesche, di mele, di pere, di pomodori vengono distrutti per «sostenere
i prezzi». Cioè per far sì che la frutta possa essere venduta nei negozi
e nei supermarket a 700, 800, 1000 lire al chilo. Compagni, i padroni e
i «tecnici» dell'economia parlano di «sovrapproduzione». Ma «sovrapproduzione»
rispetto a che? Forse rispetto ai bisogni, alla vita, delle donne, degli
uomini, dei giovani, dei bambini proletari? Certamente no: sovrapproduzione
rispetto alla possibilità dei padroni di realizzare il profitto fondato
sul plusvalore estorto al lavoro operaio, rispetto alla loro possibilità
di negare la soddisfazione dei bisogni delle masse proletarie, di negare
l'«abbondanza» perché questa sarebbe la fine della condizione su cui
si fonda il regime del lavoro salariato: la schiavitù del bisogno, la costrizione
a vendere la propria forza lavoro per vivere. Il capitalismo, compagni,
è questo.
L'economia è scienza della scarsità. Il fine del sistema è infatti il
profitto, l'accumulazione del capitale - non lo sviluppo della ricchezza
generale.
Le merci sono solo occasioni di accumulazione di potenza e di comando del
capitale, e solo secondariamente, solo perché possa avvenire lo scambio
(solo perché, cioè possano essere vendute consentendo al padrone la realizzazione
del profitto), sono anche beni utili a soddisfare alcuni «bisogni», alcune
esigenze di vita. Una massa immensa di lavoro viene erogata da milioni di
proletari, non per costruire la loro ricchezza, non per liberarsi dal bisogno,
non per godere di una serie di beni e produrre una ricca base materiale
della propria esistenza; questa massa di lavoro serve ad accrescere infinitamente
la potenza impersonale del capitale: questa massa enorme di lavoro si cristallizza
in un monte di prodotti, di merci (macchinari per fabbricare altre merci,
oggetti di consumo, beni), che schiacciano colui che li ha prodotti e al
quale non appartengono, che vive la privazione di essi (se sono beni di
consumo) o il dominio di essi sulla propria vita (se sono mezzi di produzione).
Queste merci servono perché hanno un «valore», perché viene fissato un loro
«prezzo», perché della loro vendita viene realizzato un profitto, che viene
investito a sua volta e crea altre possibilità di succhiare il sangue ad
altri proletari. Nel regime capitalistico, che vige su scala mondiale, la
miseria di milioni di uomini è la condizione del mantenimento di questo
meccanismo di riproduzione. Il capitalismo come sistema mondiale è in definitiva
una grande «fabbrica di capitale», cioè una fabbrica di altro lavoro sfruttato,
di altra miseria, di altra separazione dei proletari dalla possibilità della
ricchezza. Compagni, questo avviene nella quotidianità del rapporto di sfruttamento
capitalistico, in ogni minuto della nostra esistenza di proletari. Ma alcuni
fatti particolari vistosi sono come la punta di un iceberg, e possono servire
a rendere queste cose chiare e lampanti agli occhi di milioni di uomini,
ai quali svelano questa realtà che sta sotto le apparenze della nostra società,
questo «inferno della fabbrica» che viviamo quotidianamente come proletari.
La questione della distruzione della frutta è uno di questi fatti. Un altro
esempio sono gli «omicidi bianchi»: in Italia muore sul lavoro un operaio
ogni sei ore. Altrettanto rivelatore è un fatto come quello di Seveso: la
«vietnamizzazione» di 150.000 proletari da parte di una delle tante «fabbriche
della morte» che nel capitalismo, naturalmente, vivono e prosperano.
Lì la questione di fondo non è una sorta di «eccezionalità» criminale dell'Icmesa
e della Roche né la criminale complicità delle «pubbliche autorità», Stato
centrale o Enti locali che siano; né la catena schifosa di omertà che attorno
all'episodio è stata costruita.
La vera questione è che tutto questo è normale, perché il capitalismo è
questo, un regime che produce merci, cioè indifferentemente beni utili e
arnesi di morte, frigoriferi e bombe atomiche, cioccolatini o defolianti.
Il Tcdd, il veleno della «nube tossica» che stagna alla periferia di Milano,
è una merce, questa è la sua caratteristica generale.
Il capitalismo è il regime del lavoro salariato e della produzione di merci
a mezzo di comando, e può indifferentemente distruggere beni di sussistenza
primaria o combinare elementi chimici capaci di scatenare spaventosi processi
di distruzione della vita. Compagni, ogni giorno, i giornali di parte capitalistica,
da quelli del tradizionale ceto borghese a quelli della nuova socialdemocrazia
autoritaria, dal « Corriere della Sera » a «l'Unità », assumono toni
da «civilizzatori». Ma, compagni, quale «civiltà»? Ancora una volta, oggi,
bisogna affermare che l'alternativa è: comunismo o barbarie. Perché,
compagni, la barbarie è questa. È la compressione distruttiva dello sviluppo
delle forze produttive sociali per impedirne la liberazione, per impedire
la possibilità della ricchezza generale. La barbarie moderna, compagni,
vive nell'inferno quotidiano della fabbrica sociale, nell'inferno
dello sfruttamento e in quello dell'emarginazione e della miseria. Compagni,
questa è già guerra: nel massacro quotidiano degli omicidi bianchi, nei
rituali massacri di Pasqua e Ferragosto sulle autostrade a gloria della
Fiat, nella nocività sociale degli inquinamenti, nella medicina che uccide,
nelle forme che mettono in evidenza la natura della «civilizzazione» capitalistica.
Operai, proletari, compagni, gli uomini di questo regime hanno l'ardire
di bollare come attentato alla «civilizzazione», alla «solidarietà democratica»,
l'unica pratica razionale e legittima per gli operai e i proletari:
la distruzione di questo stato di cose, il programma comunista, la forza
organizzata, la volontà di dittatura operaia, la violenza proletaria. Pensate
a quanto è ridicolo, e criminale, chi starnazza sui giovani proletari che
lanciano una «molotov» contro una vetrina, e invece fa discorsi «ragionevoli»,
moderati sul fatto che 150.000 proletari possano sapere da un giorno all'altro
di essere stati vietnamizzati, i campi distrutti col napalm, la merce prodotta
dalla fatica della loro giornata lavorativa capace di sovvertire il codice
genetico che presiede alla vita delle generazioni future. Di fronte a queste
occasioni di presa di coscienza e di critica teorica e pratica appare chiaro
che i proletari non hanno da perdere che le loro catene; che contro questo
regime sociale, contro questa «civiltà» tutto è legittimo, che «una rapina
in banca è niente a confronto della fondazione di una banca, che l'omicidio
è niente di fronte al lavoro». Compagni proletari, alla dittatura capitalistica
si può sfuggire. Oggi il comunismo è possibile e necessario, il comunismo
è maturo. Questa chiarezza vive nella profondità e irreversibilità della
crisi capitalistica, vive nell'unificazione delle masse proletarie attorno
a una radicalità senza precedenti di bisogno, a un livello estremamente
alto, di autonomia sociale, all'emergenza di un sistema di bisogni che
muove il costituirsi del movimento proletario in una formidabile macchina
desiderante. Questa maturità sta nella coscienza della nuova possibilità
della ricchezza che vive nell'enorme sviluppo delle forze produttive,
nella scienza, nella tecnica, nella cooperazione sociale, nell'intelligenza
produttiva dell'individuo sociale proletario. Compagni, non esiste alcuna
«oggettività» economica: si tratta puramente e semplicemente di una questione
di rapporti di forza. Compagni, compagne, le misure che la classe operaia
può e deve prendere di fronte all'avvelenamento di tutto il territorio-nord
di Milano e ai riflessi di questo avvelenamento su tutta la città, sono
altrettanto dure, altrettanto determinate e drastiche di quanto appare cinicamente
determinato il programma capitalista di distruzione cosciente, di rischio
calcolato del genocidio proletario. A migliaia, ogni anno, i proletari nelle
fabbriche muoiono stritolati direttamente dalla macchina di produzione;
nella zona-nord con in testa fabbriche come l'Icmesa, l'Acna, la
Snia di Varedo e di Cesano la nocività per operaie e operai è tanto alta
da essere di continuo mortale: ma oggi, oggi i padroni rendono organico
il loro attentato alla vita dei proletari e rivolgono la loro produzione
bellica non solo in lontani Vietnam, così ognuno si salva con la solidarietà
a parole, ma direttamente qui, contro i proletari di qui. La nube tossica
era in agguato da anni, da sempre, ogni giorno e ogni notte come da sempre
forze altrettanto distruttive sono in agguato e possono scatenarsi con spaventosa
potenzialità distruttiva.
La possibilità dell'incidente è una regola e nessun codice penale punisce
la criminalità potenziale che c'è dietro il più piccolo atto, il più
piccolo meccanismo dell'ingranaggio capitalistico. La «vietnamizzazione»
di 150.000 proletari è normale: il capitalismo è una «fabbrica di lavoro
sfruttato», una fabbrica di profitti; la caratteristica primaria del Tcdd
è prima di tutto quella di essere una merce. La nube di Seveso, due chilogrammi
e mezzo di diossina, dimostra nel rovescio che oggi non è più possibile
non sapere, far finta di non sapere. Gli operai dell'Icmesa, i tecnici,
sapevano e sanno che, cooptati con alti salari e stipendi, con lavoro nero
e straordinario, nello sfruttamento operaio più bestiale, costruivano e
producevano morte per sé e per altri. Il Consiglio di fabbrica lo sapeva
e lo sapevano sia le cosiddette autorità locali, sia i sindacati provinciali.
Oggi lo sanno tutti gli operai: la questione non è più ristretta al piccolo
nucleo di operai dell'Icmesa né tanto meno alle cosiddette autorità
né ai sindacati, questo è un problema di tutta la classe operaia! Compagni,
lo Stato circonda con i cavalli di frisia e le sue truppe le zone avvelenate
che si allargano sempre di più, i sindacati chiedono controlli e organizzazione
dei servizi sanitari, «l'Unità» chiede controlli e, ancora una volta,
il riconoscimento della morte come malattia professionale.
I sindacati democristiani che hanno da sempre dato carta bianca alle fabbriche
della morte, e Comunione e liberazione, l'organizzazione integralista
e corporativa che ancora ritiene di aver diritto di parola in zona proletaria,
tentano in ogni modo (con la disinformazione, la demagogia e la manipolazione
dei dati) di non essere travolti dalla reazione proletaria.
Comunione e liberazione propone, oggi, di difendere il «proprio focolare»
ai proletari: un focolare di miseria, di sfruttamento, di sottomissione,
di morte.
La Democrazia cristiana e le sue articolazioni cercano di portare a termine,
come sempre, l'opera di distruzione del capitale, per ottenere assieme
genocidio proletario e consenso proletario alla propria distruzione! Operai,
proletari, la classe operaia deve rompere questo ghetto di paura, di ricatto,
di impotenza. Il capitale, tanto più evidentemente criminale quando si applica
alle produzioni di guerra, va colpito con ogni mezzo: la distruzione e il
sabotaggio di queste produzioni è all'ordine del giorno!
La chiusura e il blocco di queste produzioni è all'ordine del giorno!
Il problema dell'occupazione è altra cosa, su altra scala di fronte
alla dimensione di tutto ciò! All'Icmesa, oggi, i dirigenti, i funzionari
del capitale che in questo caso non solo hanno collaborato alla macchina
dello sfruttamento e del dominio sui proletari, ma anche al funzionamento
della macchina specifica di distruzione a fini di profitto, devono avere
nella fabbrica un puro ruolo di ostaggi fintantoché il loro ordigno mostruoso
non sarà stato disinnescato. La Roche va colpita in ogni sua dimensione
produttiva, ispettori, medici e autorità locali conniventi vanno segnalati
e interdetti con la stessa determinazione con cui scientemente ogni giorno
attentano alla nostra vita. Per quanto riguarda il territorio nessuno può
pensare di ricostruire le condizioni di vita e di lavoro preesistenti alla
«nube».
Perché la vita degli operai dell'Icmesa e del nord-Milano era già ipotecata
da un regime di distruzione.
Perché i lavoratori dell'Icmesa producevano ogni giorno la loro morte
e la possibilità di morte per migliaia di proletari, perché a questo li
costringeva la regola spietata del regime capitalista, la costrizione a
vendere la forza-lavoro per vivere! Compagni, gli operai che lavorano all'Icmesa,
coscienti o meno di ciò che producevano, hanno oggi la possibilità di riscattarsi
da lunghi anni di bestiale sfruttamento e isolamento dal resto della classe
operaia. Debbono guidare la battaglia senza quartiere all'apparato decisionale
della Roche, debbono guidare la battaglia alla distruzione delle produzioni
nocive nella zona, debbono guidare la battaglia per unire le piccole fabbriche
produttrici di morte che in questa e in altre zone continuano a lavorare.
Operai dell'Icmesa! Proletari! In questi anni la schiavitù del bisogno
vi ha costretti a essere oggettivamente agenti di una delle più mostruose
sezioni del capitale.
Oggi la vostra possibilità di riscatto passa per la scelta di aprire contro
padroni, Roche, Stato delle multinazionali, una lotta senza quartiere. Non
potete certo affidare la garanzia del vostro salario a una ripresa di queste
produzioni di morte.
Non sono legittime soluzioni individuali o settoriali: è alla classe operaia,
alla autorità sociale che deriva alle sue avanguardie comuniste dal ruolo
che hanno svolto nelle lotte autonome operaie e proletarie che dovete riferirvi.
Operai dell'Icmesa! Proletari. La classe operaia si assume tutto il
problema: quello immediato delle case, del salario, delle donne e dei bambini
colpiti, da subito.
La sezione italiana della classe operaia internazionale ha la forza e la
maturità sufficiente per decretare - sul cammino dell'abbattimento del
regime capitalistico e della costruzione di una nuova società - la fine
delle produzioni che servono a organizzare la morte, il genocidio, la distruzione
dei proletari.
Da un volantone pubblicato da « Rosso vivo » e « Senza Tregua», Milano,
luglio 1976
La presenza di donne nel livello armato della lotta politica ha sorpreso
lo Stato. Quello stesso Stato che, per garantire a sé e ai padroni il massimo
del profitto, ha protratto - oscenamente indifferente - fino a oggi la «strage
delle innocenti» pur di continuare a esercitare un comando terroristico
sui nostri uteri, come sulle nostre braccia.
Generalmente eravamo condannate a morire su quegli stessi tavoli da cucina
dove spendevamo gran parte del nostro lavoro gratuito o, con un ferro da
calza infilato nell'utero, dissanguate su quegli stessi letti dove procreavamo
e acquietavamo la sessualità maschile.
Generalmente potevamo piangere sui figli e mariti sterminati in guerra o
consumati in fabbrica o svenduti all'estero a basso prezzo.
Generalmente potevamo impazzire di dolore durante il parto, «assistite»
da medici sadici, potevamo essere violentate e bastonate tranquille che
le «forze dell'ordine» non sarebbero accorse né la stampa l'avrebbe
considerata una notizia rilevante. Generalmente potevamo come «operaie della
strada» (prostitute) essere violentate a pagamento mentre lo Stato riscuoteva
la tangente. Chissà perché questa situazione «va stretta» a sempre più donne
per cui sempre più donne, rifiutando il «loro posto», prendono mille strade?
Lo Stato si stupisce. Gli uomini si stupiscono. Noi ci stupiamo che si stupiscano.
E adesso veniamo al problema. Perché la ribellione delle donne c'è sempre
stata, ma come non basta la ribellione isolata, così non basta l'indistinta
«lotta di classe» anche ai livelli più «agguerriti» a costruire una forza
di massa alle donne sui propri interessi. Perché nella classe esiste una
precisa stratificazione di potere che il capitale ha usato e tenta di continuare
a usare fino in fondo. Fondamentalmente il potere della sezione più forte,
i salariati maschi, contro il potere della sezione più debole, le donne,
che lavorano 24 ore su 24 senza un salario proprio.
Ed è precisamente questa stratificazione che va distrutta con la lotta,
perché rappresenta la più grossa debolezza della classe nel suo complesso.
I maschi hanno sempre largamente usato la loro violenza nella famiglia,
e fuori, per assicurarsi i vantaggi e i frutti del nostro lavoro.
Anzi, oggi, uccisioni di donne, violenze carnali e botte aumentano tanto
più quanto più aumenta il rifiuto da parte delle donne del lavoro e della
disciplina familiare. Se non fossimo uscite dalle cucine, dalle camere da
letto, dalle fabbriche, dagli uffici, dalle scuole, per costruire un movimento
di massa, un processo di lotta aperta e dichiarata, a partire dal primo
lavoro che ci accomuna tutte, e che determina tutta la nostra vita, e, in
quanto lavoro non salariato, la nostra debolezza all'interno della classe
e il nostro posto subalterno a qualunque livello dell'organizzazione
di classe, ancora oggi, non avremmo alcuna garanzia sul nostro «destino».
Ci pare ridicolo allora, specie in un momento in cui il femminismo serpeggia
in ogni casa, in ogni fabbrica, in ogni ufficio, l'atteggiamento di
chi indaga sui «trascorsi femministi» dell'una o dell'altra. È chiaro
comunque che, se delle mille strade significative, parecchie donne non avessero
scelto specificatamente il faticoso, aperto, costruirsi del Movimento femminista,
non ci sarebbero state né le 10.000 donne a Trento, né poche mesi dopo,
20.000 donne a Roma. Il femminismo, come movimento che si allarga sempre
più e sempre più ha necessità di organizzazione, ha un solo problema, che
è quello di determinare la rottura della fondamentale stratificazione di
potere all'interno della classe, costruendo un potere autonomo alle
donne sui loro interessi specifici, che è l'unica forza determinante
per il potere della totalità della classe. La lotta contro il lavoro salariato
è impotente a determinare la distruzione del rapporto capitalistico se non
è sostenuta da una lotta di massa contro il lavoro domestico non salariato.
La lotta sul «reddito garantito», finché non c'è stato un movimento
di donne che ha cominciato a parlare e a organizzarsi per il salario al
lavoro domestico, non sollecitava né comprendeva di per sé una lotta sul
salario domestico; si parlava anche allora di organizzazione generale della
classe, in realtà c'era solo la gestione maschile della lotta di classe.
Proprio tale gestione maschile, come non aveva visto la lotta più massificata
che le donne da lungo tempo avevano condotto, il rifiuto di diventare madri,
altrettanto non aveva visto il comportamento di massa su cui tale lotta
si era innestata: il rifiuto del lavoro domestico.
Il rifiuto del lavoro domestico è stato ed è il rifiuto che sta dietro a
ogni momento di lotta della donna, perché il lavoro domestico è il lavoro
che determina non solo le condizioni in cui dobbiamo accettare anche il
lavoro esterno e i servizi, ma la qualità complessiva della nostra vita,
la nostra sessualità in funzione procreativa e le condizioni stesse della
procreazione. Quindi, tanto per citare l'ultimo e più noto esempio di
lotta a livello di massa delle donne, anche dietro la lotta sull'aborto
c'è la lotta sul lavoro domestico, il rifiuto del lavoro domestico.
Si tratta di «svelare» questo rifiuto che sta dietro a ogni lotta proprio
per riuscire ad approfondirlo. Si tratta, dal punto di vista dell'autonomia
femminista, di trasformare il comportamento di massa di rifiuto del lavoro
domestico in lotta organizzata per la distruzione del lavoro domestico.
Ma solo la richiesta di salario al lavoro domestico è in grado di determinare
tale passaggio.
È su questa richiesta allora che va concentrato lo sforzo organizzativo
nel senso di riuscire a determinare una mobilitazione di massa. Senza tale
mobilitazione, senza questo sforzo organizzativo in cui ogni mobilitazione
per l'aborto deve diventare allo stesso tempo mobilitazione per il salario
al lavoro domestico, non possiamo pensare di instaurare più alti livelli
organizzativi che hanno senso solo se, partendo dall'interpretazione
degli interessi delle donne, siano sostenuti dal movimento di massa delle
donne stesse su tali interessi. Il Movimento femminista deve interpretare
fino in fondo i bisogni espressi dalle lotte delle donne arrivando a coglierne
il bisogno fondamentale di liberazione dal lavoro domestico espresso in
tutte, se vuole riuscire a dare alle stesse un collegamento destinato non
solo a durare ma soprattutto ad approfondirsi e a crescere. E altrettanto,
nella crescita del processo organizzativo deve mantenere una autonomia femminista
a tutti i livelli di crescita dell'organizzazione. Non è un caso, ripetiamo,
che la sinistra maschile non avesse mai visto il lavoro domestico.
Gli uomini, diretti destinatari e controllori del nostro lavoro, se fino
a ieri non lo avevano visto come tale, certamente oggi non possono per noi
rappresentare una garanzia per la liberazione dallo stesso. Obiettivamente,
l'autonomia perciò anche ai livelli più alti della lotta, si riconoscerà
nel tipo di azione, nella specificità di interessi che questa azione porta
avanti corrispondentemente agli interessi su cui il Movimento femminista
a livello di massa si muove.
E in quanto i tempi, i modi ecc. siano appunto determinati dal Movimento
femminista stesso. Come si sa, i vari livelli della lotta non sono mai stati
«omogeneamente programmabili» né questo è il nostro intento.
Nella lotta ha un senso molto relativo parlare di «errori» e di «se era
tempo» o «se non era tempo». Ha senso invece, perché i tempi e modi «accelerati»
o «ritardati» non appartengono ad altri che alle donne, che siano misurati
sul Movimento stesso delle donne. E quindi, anche un'azione specifica,
perché ritorni come nuovo livello di forza al Movimento, deve offrire un'indicazione
raccoglibile dalle donne stesse.
Da «Comunicato del Comitato Triveneto per il salario al lavoro domestico»,
Padova, gennaio 1975
I PERIODICI «RIVOLTA DI CLASSE» E «I VOLSCI» [1]
[...] nel 1973, nasce a Roma «Rivolta di classe» [2] un «foglio aperto al
contributo dell'autonomia operaia interessata al processo di centralizzazione
nazionale e a quelle forze politiche intenzionate ad un serio e costruttivo
confronto interno alla necessità pratica di costruire il partito armato
proletario» [3]. Rispetto al suo corrispondente milanese, il giornale è
inizialmente molto essenziale e stringato sia nell'analisi che nell'impaginazione
(eccettuate alcune copie uscirà sempre come foglio in attesa di registrazione,
né datato né numerato), e rimarrà comunque sempre fedele all'iniziale
obiettivo programmatico, cioè produrre un lavoro collettivo frutto della
fusione di militanza, teoria e pratica, nell'ambito dell'area dell'autonomia
operaia. Quest'esperienza si concluderà nel 1975 con il merito di aver
saputo riunire in un'unica testata le istanze plurime di quella che
era la frammentata area dell'autonomia romana: dal sottoproletariato
urbano organizzato ai comitati per la casa, dal movimento di lotta dei carcerati
agli ospedalieri del Policlinico, prestando sempre maggiore attenzione alla
nuova realtà dei lavoratori del terziario, il settore dei servizi infatti
stava divenendo il nuovo teatro di scontro delle rivendicazioni dell'area.
Una nuova serie comincerà ad essere stampata a partire dal 1976: rimanendo
sempre legato agli aspetti pratico-teorici della militanza, e per questioni
oggettive con particolare attenzione al mondo carcerario, e al movimento
studentesco. La redazione del nuovo «Rivolta di classe» [4], contigua alla
precedente, trova legittimazione all'interno dei Collettivi Autonomi
Operai (CAO), più vicina per impostazione analitica a quella del milanese
«Rosso», con il quale collaborerà come corrispondente romano per un breve
periodo nello stesso anno; è dell' ottobre 1976, infatti, il comunicato
che annuncia sulle pagine del giornale la chiusura della «breve ma pur fruttuosa
collaborazione dei compagni della redazione romana» [5]. Anche la redazione
di «Rivolta di classe» non riuscirà ad arrivare alla fine del '77, in
questo caso per portare a compimento il progetto del movimento dell'Autonomia
Operaia, che agisse da raccordo dell'area a livello nazionale; nel 1978
infatti la stessa redazione darà il via alla pubblicazione della rivista
«I Volsci» [6], nata con ampi spazi di approfondimento teorico all'interno
della oramai lacerata area autonoma romana che trovava base ideale tra i
lavoratori del settore terziario e dei servizi. [...]
[...] «I primi collettivi autonomi nascono all'inizio degli anni Settanta
da alcuni gruppi di transfughi dal Pci e dal Manifesto e, soprattutto, dal
filone operaista. [... ] A Roma, all'origine di tutto c'è l'alleanza
lavoratori-studenti del Collettivo di Medicina, che si riconosce nelle posizioni
del Manifesto; ed è dal Collettivo che si separa un nucleo di infermieri,
portantini e tecnici guidato da Daniele Pifano [... ] che nel '72 fonda,
insieme ad altre componenti (Enel, Fiat di Grottarossa, Cub dei ferrovieri),
i Comitati autonomi operai di via dei Volsci» [7] «che sviluppano da subito
una tematica fortemente spontaneista, erede di una impostazione luxemburghiana»
[8] e che assieme a quelli di via di Donna Olimpia diventeranno i referenti
principali dell'intera area dell'autonomia romana. Lo scioglimento
di Potere operaio, del Gruppo Gramsci, e della Federazione comunista libertaria
romana portano nell'area nuovi militanti che giungono anche da un'organizzazione
ormai in crisi di identità come Lotta continua.
[...] un cenno a parte occorre dedicarlo a «I Volsci». La rivista esce dal
febbraio 1978 come continuazione della precedente «Rivolta di classe»; la
sua cadenza ha carattere mensile ma irregolare e, in totale, usciranno undici
numeri, l'ultimo nell'ottobre 1981. «I Volsci» sono l'espressione
del collettivo di via dei Volsci, un gruppo che si forma a cavallo del '71
e '72 per una scissione dal Manifesto, quando fallisce la fusione di
quest'ultimo con Potere Operaio. Inizialmente il collettivo collabora
con «Rosso», ma quasi subito se ne stacca a causa di profondi contrasti
e inizia una pubblicazione propria, «Rivolta di classe». Il successivo cambiamento
del nome segue la durissima campagna di criminalizzazione e repressione
attuata dal Pci in particolare durante tutto l'arco del '77 [9].
«I Volsci» è una sfida alla campagna di criminalizzazione dei media nella
quale più volte ricorre il nome di via dei Volsci (una strada del popolare
quartiere romano di San Lorenzo) sovente associata alla parola "covo"»
[10]. Alla fine del '78 il gruppo partecipa attivamente al dibattito
in seno a tutta l'Autonomia di un ulteriore salto di qualità organizzativo
e prospetta la costituzione di una struttura accentrata che organizzi tutte
le forme di spontaneismo antagonista, il Movimento dell'Autonomia Operaia
(MAO). «I Volsci» risente indubbiamente della realtà romana più legata al
settore terziario che alla dimensione della fabbrica. Un'attenzione
particolare è dedicata alle condizioni di lavoro di settori quali ospedalieri,
ferrovieri, lavoratori dell'Enel e della Sip colpiti dalla piaga del
lavoro nero, dalla crescente precarizzazione e dimenticati dalle politiche
del sindacato indicato come «un soggetto istituzionale integrato in un progetto
di programmazione capitalistica» [11] di cui fa parte anche il Pci «[...
] fautore di una socialdemocrazia oppressiva, [... ] asservito all'imperialismo
sovietico, [... ] ormai entrato nell' apparato repressivo dello Stato»
[12] .
Gli articoli dedicati alle problematiche della donna sono esclusivamente
a firma dei Collettivi femministi. La recente approvazione della legge che
legalizza l'aborto è solo un primo passo verso l'emancipazione della
donna: «Il tipo di "emancipazione" che il capitale offre alle
donne è, in termini di mercato del lavoro, lavoro nero, a domicilio, precarietà,
sottoccupazione, o, nel caso di regolari rapporti di dipendenza, lavoro
parcellare, ripetitivo, dequalificato [...]» [13]. Occorre rimuovere gli
ostacoli burocratici che, rendendo difficile e lungo il processo dell'interruzione
di gravidanza, costringeranno le donne a tornare sul tavolo delle «mammane».
Un'altra proposta è quella di migliorare il funzionamento dei consultori,
visti come «momenti di assorbimento dello «scontento» femminile, dei canali
di collegamento tra le donne e le istituzioni politiche» [14]. Tutte le
recenti politiche statali hanno causato, a parere de «I Volsci», un allargamento
delle fasce di emarginazione sociale in grado di trasformarsi, attraverso
una loro organizzazione, identificabile nell'Autonomia operaia, in forze
rivoluzionarie. Di fronte a tutto questo e ad una conseguente ripresa della
conflittualità, la classe politica è stata soltanto capace o di inasprire
le già dure misure repressive, o di disaggregare la nascente organizzazione
attraverso la deliberata introduzione delle droghe pesanti. «Riteniamo che
una delle ragioni fondamentali dell'introduzione dell'eroina sia
stato il pericolo che il capitale avvertiva nella tendenza all'integrazione
tra fasce di proletariato espulso dal processo produttivo; integrazione
che offriva grosse potenzialità rivoluzionarie» [15].
Il principale strumento repressivo rimane comunque il carcere; a questo
proposito il punto di vista della redazione è di un netto rifiuto dell'istituto
carcerario in generale, visto come misura repressiva che colpisce soprattutto
il proletariato; in particolare c'è un rifiuto per le carceri «speciali»,
luoghi di detenzione dei detenuti politici, che rispondono «alla necessità
di colpire le avanguardie comuniste combattenti e funzionare come punto
di partenza per la militarizzazione del territorio e di divisione del proletariato
in buoni e cattivi, i criminali e i ragionevoli, i brigatisti, gli autonomi,
i moderati, in definitiva chi si ribella, e rifiuta i patti sociali per
i proletari, e chi li accetta [...]» [16].
La condanna dello sfruttamento ambientale è parte integrante della lotta
rivoluzionaria, in quanto la distruzione delle risorse è una componente
essenziale dello sviluppo capitalistico. «[...] Come non abbiamo mai creduto
alla lotta antinucleare di tipo ecologico, separata dal resto della lotta
di classe, così non abbiamo creduto nemmeno alla possibilità di misurarla
istituzionalmente attraverso il referendum [... ]» [17].
La dimensione internazionale è analizzata sotto diversi aspetti: l'internazionalismo
proletario si deve opporre all'imperialismo «tradizionale», quello legato
agli Usa, e al «socialimperialismo» che caratterizza la politica estera
sovietica; si riscontrano, inoltre, dure critiche a quello che è definito
«l'impero delle multinazionali».
[...] Sono frequenti gli appelli alla mobilitazione: «Occorre realizzare
la messa in movimento di tutti gli strati sociali in funzione antagonista
all'attuale regime; fare avanzare, cioè, il fronte di classe [...]»
[18] e «[...] è necessario riuscire a ricomporre i vari settori comunisti
del proletariato nella lotta contro il capitale e lo Stato» [19]. Indubbiamente
in ogni articolo traspare un'analisi della conflittualità sociale, la
cui risoluzione è vista sempre in prospettiva rivoluzionaria.
Ogni articolo non è firmato dal redattore, come se ogni pezzo volesse caratterizzarsi
come il prodotto di una singola voce collettiva, quella de «I Volsci» appunto.
[...] la rivista copre una tiratura di 5000 copie circa. Accanto a «I Volsci»
opera, inoltre, la libera Radio Onda Rossa, che ancora oggi prosegue le
sue trasmissioni.
[1] Tratto da «Rosso», «Rivolta di classe», «Metropoli», i periodici
dell'autonomia a Milano e Roma dal 1974 al 1981, di Tiziana Rondinella
e da «I Volsci» e l'autonomia operaia, a cura di Andrea Barbera
e Luisella Quaglia, rispettivamente consultabili su: http://w3.uniroma1.it/dsmc/ricerca/Allegati/425_442.pdf
e http://w3.uniroma1.it/dsmc/ricerca/Allegati/407_424.pdf
[2] «Rivolta di classe,», Roma, 1973-75.
[3] «Rivolta di classe», Roma, 1975.
[4] «Rivolta di classe», Roma, 1976-78.
[5[ «Rosso», Roma, ottobre 1976, n. 12.
[6] «Rivolta di classe», Roma, 1978-81.
[7] M. Monicelli, L'ultrasinistra in Italia 1969-1978, Laterza,
Roma-Bari 1978, p. 116.
[8[ Nanni Balestrini, Primo Moroni, L'orda d'oro. La grande
ondata rivoluzionaria e creativa, politica ed esistenziale, Feltrinelli,
Milano 1997, p. 445.
[9[ Cfr. Giorgio Bocca, Il caso 7 aprile, Feltrinelli, Milano 1980,
pp. 87-102; A. Mangano, Le riviste degli anni Settanta. Gruppi, movimenti
e conflitti sociali, Massari, Bolsena (VT) 1998, pp. 276-277.
[10[ A. Mangano, op. cit., p. 276.
[11[ «I Volsci», Inchiesta: per conoscere la nuova realtà di classe dentro
cui far crescere l'Autonomia, n. 6, ottobre 1978, pp. 2 sgg
[12[ «I Volsci», Quelli che vengono da lontano, n. 10, marzo 1980, p. 16.
[13[ «I Volsci», Operaie negate di un lavoro emarginato, n. 9, luglio 1979,
p. 20.
[14[ «I Volsci», Aborto. Una legge sul controllo dei meno garantiti: le
donne, n. 4, mag./giu.1978, p. 4.
[15[ «I Volsci», La trappola dell'eroina, 1979, n. 9, luglio, p. 22.
[16[ «I Volsci», Siamo tutti prigionieri politici, 1978, n. 4, mag./giu,
p. 10.
[17[ «I Volsci», Estate antinucleare, n. 9, luglio 1979, p. 15.
[18] «I Volsci», Il piano per lo sfruttamento, n. 7 nov./dic. 1978, p. 2.
[19] «I Volsci», Le gabbie speciali, n. 4, mag./giu. 1978, p. 10.
MITI, RITI E DETRITI DEL PARCO LAMBRO
di Gianfranco Manfredi
A Parco Lambro mi sono smontato la testa. Come tanti. Ripetere questo smontaggio
per iscritto non é facile, anche perché ho ancora tutti i pezzi in giro.
D'altra parte pare indispensabile di fronte a un fatto su cui molti
hanno tratto "conclusioni" e pochi "aperture". E provenendo
ogni "apertura" da uno smantellamento comincio col dire cosa ho
personalmente smantellato grazie al Lambro.
I MITI
a) Proletariato giovanile
Se c'è una cosa certa dopo il Lambro, é che questo termine non ha senso.
Attenzione: non che non abbia senso di per sé, non ha senso rispetto ai
contenuti e alle prospettive che vi si supponevano inclusi. Ora: persino
i radicali si accorgono dell'inconsistenza del termine (cfr. Prova radicale
n. 2), però nel contesto dello stesso articolo propongono come concetto
sostitutivo quello di "incazzati di tutti i tipi, di tutte le situazioni,
di tutte le classi". Il che vuol dire sostituire a un concetto impreciso,
un altro anche più generico: "gli incazzati". Incazzati di ruolo,
si suppone. Forse quelli che la mattina si svegliano male, o quelli che
quando gli accarezzi una spalla da dietro estraggono la Colt, si voltano
e ti riducono un colabrodo (tipo Tex). Sempre i radicali, più avanti, in
un altro articolo, provano a definire meglio questi "incazzati":
omosessuali, femministe e "proletari a caccia di polli". Rieccoci
da capo: riecco "il proletariato giovanile". Allora? No. Se dobbiamo
smontare un concetto, smontiamolo seriamente.
Anzitutto: come mai un concetto funzionale che all'inizio voleva solo
dare un vago quadro sociologico (grosso modo: "i figli degli operai"
o "i giovani operai senza lavoro o a lavoro precario") é diventato
nell'uso della sinistra "rivoluzionaria" (soprattutto di Lotta
Continua e dell'Autonomia Operaia) un punto di riferimento politico,
una indicazione di sviluppo e di prospettiva?.
Da quando la "sinistra di classe" ha scelto come nodo della sua
pratica (non diciamo strategia) la realtà sociologica del "proletariato
giovanile", ecco che il termine ha acquistato valore d'indicazione
di "classe" e le sue azioni coincidenza con la "lotta di
classe". Sono ormai ben più di dieci anni che sono/siamo tutti lì a
cercare "la nuova classe operaia" o meglio "il nuovo soggetto
storico" che la rappresenti. Ecco allora che rispetto alle varie fasi
dello sviluppo della classe, una sua frazione di volta in volta é elevata
a "rappresentante generale": ieri l'operaio-massa, poi i giovani
operai, infine il proletariato giovanile, strato sociale diffuso, vivo nel
quartiere, spugna delle contraddizioni e di "comportamenti" anti-istituzionali.
Dunque: primo gradino è l'individuazione di uno strato interno alla
classe che in una fase la rappresenti o perlomeno ne rappresenti "i
contenuti più avanzati". Secondo gradino é, con la concentrazione della
pratica politica e degli sforzi organizzativi sullo strato più avanzato,
la definizione della classe attraverso la sua rappresentanza avanzata. Di
qui all'identificazione, dello strato con la classe, il passo é breve,
anzi spesso é spinto anche più in là fino all'identificazione dell'avanguardia-che-rappresenta-lo-strato-che-rappresenta-la-classe,
con la classe stessa: cioè "il nucleo proletario armato" alla
fine é "gli operai".
Ma c'é di più: al termine settoriale così "isolato" si attribuiscono
i valori che sono propri della classe nel suo insieme e cioè: di avere un'omogeneità
interna che può esprimere un'omogeneità di comportamenti quindi una
direzione unitaria e perlomeno nazionale, una rappresentanza organizzata.
Bene o male, anche in Re Nudo, anche nell'ideologia del grande raduno
annuale del proletariato giovanile, c'era e c'è dietro questo schema
logico o meglio ideologico. C'é bisogno di questo schema sennò entrerebbe
in crisi "la politica" e "l'organizzazione": se
"la gente" non é riferita alla "classe" va a farsi benedire
qualsiasi discorso organizzativo perchè la "classe" si organizza
(esprime o subisce organizzazione), ma "la gente" non é detto.
Ecco allora che tutti i comportamenti devono essere riferiti alla classe.
Ci casca anche il Mario Mieli che (sempre su Prova Radicale) scrive: "forse
il proletariato, la classe rivoluzionaria sono le donne e gli omosessuali;
in Italia almeno non vedo altro, non credo che i maschi siano rivoluzionari,
e sento contraria alla mia libertà qualsiasi azione compiuta dai maschi,
anche se mi rendo conto che come appartenente al sesso maschile posso ancora
essere molto controrivoluzionario nei confronti delle donne".
Qui appare chiara anche la "gerarchia degli strati rivoluzionari"
che é implicita dentro ogni ricerca del "nuovo Soggetto": il Più
Oppresso di Tutti, il Cristincroce di turno. Secondo questa logica il nuovo
Soggetto sarebbe probabilmente una vecchia ex-operaia negra schizofrenica
e omosessuale. Nel riferire alla classe tutti i comportamenti anti-istituzionali
anche Re Nudo non é stato da meno, a partire dalla stessa impostazione del
giornale (e so quel che dico avendovi non poco contribuito). Un'espressione
sintetica abbastanza chiara é stata quella usata da Romano Madera in un
noto articolo: "la classe sfuma se non fuma". Con questo egli
probabilmente intendeva dire, nel contesto dell'articolo, che era necessario
proprio che la classe "sfumasse", ma la frase dice invece l'opposto
e cioé che "fumare" é attività che contribuisce a rinsaldare la
classe come unità rivoluzionaria. E dato che per Madera "fumare"
é soprattutto "capire" e "ragionare", si potrebbe dire
anche che l'attività razionale (anche se intesa come sana pratica corporea)
é alla fine il Soggetto rivoluzionario. Il che ha anche una sua parte di
verità (assai parziale) purché non sia nuovamente riferito alla fantomatica
"classe" che alla fine coinciderebbe (operazione non nuova) con
lo "Spirito Assoluto" (o anche "la Materia che pensa Se Stessa").
Di qui anche non poche frustrazioni per chi si recasse a un festival pop
per vedere dietro il proletariato giovanile lo Spirito del Mondo, anche
perché sono secoli che lo Spirito del Mondo non si concentra più in un punto
solo. (Eppure un noto idiota se ne uscì dopo il festival con questo commento:
"La gente sentiva l'assenza di una Weltanschauung", al che
un "proletario giovanile" ha aggiunto: "Sì é vero, anche
Alan Stivell e gli Steeleye Span li avevano promessi e invece non c'erano").
Proviamo invece, nella storia di questi dieci anni di ricerca del nuovo
Soggetto, a individuare un cammino opposto, inverso: non quello dell'aggregazione
rivoluzionaria della classe attorno al suo strato più avanzato e alla sua
(sempre attesa) rappresentanza, ma quello della disgregazione (dello sfumare)
della classe attraverso suoi strati marginali al di là di ogni rappresentanza.
Proviamo insomma a rileggere una storia diversa della classe e delle sue
figure: l'operaio-massa non é, in questo quadro, il soggetto che sostituendosi
all'operaio professionale e alle aristocrazie operaie muta il segno
riformista in rivoluzionario e dà alla classe una "nuova unità".
L'omogeneità del lavoro, la ripetitività, le grandi aggregazioni d'uomini,
la fine della "qualità", sono sì caratteristiche d'una nuova
figura operaia, ma di una figura operaia ormai assimilata totalmente al
ciclo. Il "rifiuto del lavoro" non sta dentro queste caratteristiche
ma "oltre": é appunto "la posizione del Soggetto". Da
questo punto in poi il cammino del Soggetto non é affatto nella direzione
di una più marcata aderenza al ciclo, di una sua internità che dovrebbe
alla fine riassumerlo (rovesciato) in sé, ma é invece nella sua progressiva
esternità al ciclo, oltre il lavoro, oltre la produzione, oltre la merce.
Appunto verso il Soggetto. Ecco allora la banalità, tanto banale quanto
vera: e se il Soggetto fosse proprio il soggetto, il sé, la persona?
La classe in quanto tale, l'omogeneità-lavoro uguale, non cerca una
nuova rappresentanza, né la produce: la sua rappresentanza istituzionale,
unitaria e nazionale, espressa dal suo essere classe, é il Partito Operaio
che diventa Stato Operaio. Qui, in Italia, il PCI. La classe che si nega
in quanto classe é Soggetto, l'operaio che si nega come operaio é persona.
Ecco allora perché il "Proletariato Giovanile". E' nell'ultimo
gradino della sua marginalizzazione rispetto alla macchina che l'operaio
trova la sua figura lacerata tra la classe e la persona. Il termine "proletariato
giovanile" esprime questa ambivalenza di direzioni, questa ambiguità:
da una parte un termine ("proletariato") che rimanda alla collocazione
nel ciclo, dall'altra un termine ("giovanile") che rimanda
alla realtà del corpo.
Il superamento dell'ambiguità è un problema più ampio di quello dell'abolizione
del termine che nella sua imprecisione é in realtà quanto di più preciso
ci sia. Il superamento dell'ambiguità può avvenire in opposte direzioni:
l'assorbimento del secondo termine nei primo (del corpo nel ciclo: tentativo
estremamente trasparente per esempio attraverso la cosidetta "pomografia"
cioé sessualità-lavoro, ripetitività-efficienza-produttività-scomposizione
dell'atto sessuale), o l'assorbimento del primo nel secondo che
é poi il problema stesso della rivoluzione: la negazione della classe, della
società delle classi (capovolgimento del valore in uso, emergenza del soggetto
di contro all'oggetto, della diversità-individualità concreta rispetto
all'omogeneità-universalità astratta).
Ma dentro questa seconda prospettiva il problema è la ricerca, l'allargamento
dell'area della coscienza, la comunicazione (per usare un termine vecchio,
la cultura), non é l'organizzazione, l'allargamento dell'area
dell'autonomia organizzata, la istituzionalità specularmente opposta
quanto uguale (cioé la politica). Il che non vuoi dire negare la dialettica
tra i due estremi della questione, ma vuol dire riconoscere che si tratta
d'una dialettica delle opposizioni, d'una dialettica scontro, e
non può trattarsi d'una dialettica della ricomposizione, dell'unità
degli opposti. Questa seconda dialettica é proprio quella della perpetuazione
(con il sogno/delirio dell'organizzazione) delle ambiguità non solo
terminologiche.
b) Felicità
Altra questione rimbalzata da Parco Lambro: il vero obiettivo sarebbe la
felicità, il problema giovanile starebbe tutto qui: Felicità. La suddetta
felicità sarebbe poi divisa in due rami: a) occupazione; b) stare bene insieme
("creatività"). In termini antichi: panem et circenses. E'
uno dei casi non rari in cui la sinistra é destra: tra "panem et circenses"
e "ora et labora" c'é solo una piccola differenza di ottica.
Tant'é vero che Comunione e Liberazione ha avuto parole di grande comprensione
per l'esigenza di "felicità" che emergeva ("certo in
forme paradossali") da Parco Lambro. E Comunione e Liberazione (C.L.)
é l'immagine specularmente opposta di Lotta Continua (L.C.).
Questa della Felicità é la colomba o la cornacchia estratta dal cappello
a cilindro di chi pensa si debba continuare sulla strada dell'ambiguità,
l'unica strada che conservi qualche aiuola di parcheggio alle "organizzazioni
rivoluzionarie". La Felicità infatti, nonostante per origine sia un
termine proprio del "personale" é qui assimilata al "politico"
e diventa quindi felicità ideologica che si esprime in riti collettivi (felicità
per il governo delle sinistre, girotondi nudi, "potere a chi lavora"
gridato tutti assieme per non far piovere, grandi raduni allietati da tarantelle
e chiavi inglesi nascoste sotto le camicie nel caso che qualche sconsiderato
non fosse felice e si bucasse). Questa Felicità, che è anche divertente
per chi vi partecipa, é l'ultima mascherata della religione: é infatti
più vicina al corpo che non la politica, proprio perché vuol essere la mediazione
tra il corpo e la politica, la custode dell'ambiguità. Con l'inevitabilità
dell'evasione dal personale. Se infatti si rimanesse nell'ambito
della persona, la felicità non potrebbe mai essere un obiettivo, dato che
non si tratta d'altro che d'uno stato particolare e temporaneo che
esiste solo in quanto ne esistono degli altri che hanno lo stesso identico
valore euristico, ivi compreso il dolore. Sul piano generale invece, la
felicità richiede una sua definizione: non é più una condizione emotiva,
é il rivestimento di un contenuto preciso di cui tracciare i confini. E
i confini li traccia l'organizzazione: è l'organizzazione (previa
assemblea) che decide se é giusto essere felici spiando una donna che piscia
(no, non é giusto, non é femminista, non si deve fare), se é giusto essere
felici battendo le mani all together (sì, è giusto perché così "si
partecipa").
Si tracciano le condizioni della felicità, il si può fare e il non si può
fare. Ma il problema che si dovrebbe porre é: "perché sono felice a
fare questo o quest'altro", il che significa: "sentirsi",
dove le considerazioni oggettive avvengono dentro un piano di conoscenza-ricerca
dei limiti e delle possibilità d'espansione del personale. Porre invece,
al contrario, la felicità come obiettivo e "soluzione" del personale
(invece che come oggetto d'indagine) porta all'individuazione delle
"condizioni medie possibili e augurabili di felicità ora e in questo
luogo" stante che la felicità é un dovere perché sei lì per quello:
ecco che allora la "felicità collettiva" si manifesta come assoluta
impotenza personale e totale paranoia quando si è fuori dal rito collettivo.
Il rito collettivo con il suo universo chiuso di regole, valide per chi
vi partecipa, é la Felicità: é il reciproco riconoscersi come identici,
uguali agli altri. La diversità-individualità, la non partecipazione o il
non gradimento del rito collettivo, diventa così tout court emarginazione,
solitudine, impotenza.
"Nessuna salvezza fuori della Chiesa". Invece d'essere la
"soluzione" all'emarginazione, la Felicità come obiettivo
generale, "politico", la rafforza e la ricrea.
I RITI
I riti, manco a dirlo, sono riti di merce. E lo dico senza scandalizzarmi.
Chi si scandalizza di solito é proprio chi prepara il rito perché la merce
vi sia presente, ma sfuggente, vi sia esorcizzata.
Ma per chi ha presente che la merce esiste, non è la merce a costituire
fonte d'irritazione, é casomai il rito che vorrebbe all'apparenza
cancellarla mentre la consacra. La merce del caso non é infatti il pacchetto
di Muratti o la presenza del divo x, o il mero "prezzo" del panino.
La merce é il "rapporto di merce": é merce-ideologia (la politica),
é merce-cultura (la musica), é merce-soggetto (il palco). Vediamola attraverso
alcuni suoi momenti simbolici al Lambro.
a) la merce-politica anzitutto: si presenta all'ingresso del prato come
striscione-stand, libri riviste panini, tutti rigorosamente di sinistra
e "rossi" ma perlopiù divisi per gruppo. Fenomenicamente uniti
nell'immagine: uno stand vale l'altro. La gente accetta il rapporto,
compra il panino. Ma é troppo caro. Il divario tra valore di mercato e prezzo
imposto é troppo. Esplode la contraddizione del "prezzo politico":
il "prezzo politico" di solito tende a smussare il carattere di
merce perché la presenta come "servizio", come oggetto d'uso
e non di "lucro". Poi tutti sanno che dentro v'é ugualmente
contenuto quello che metaforicamente si chiama il "giusto profitto"
(c'é un profitto "giusto"?), però psicologicamente si preferisce
prescinderne. Qui invece il "prezzo politico" mostra la politica
con un volto diverso: quello parassitario, quello che si paga sul mangiare,
anzi sull'avanzo del mangiare. Per di più la cosa è aggravata dalla
gestione clientelare degli stand: chi é del gruppo o simpatizza col gruppo
viene gratificato col panino migliore, chi é esterno si prende la merda.
Qualcuno di fronte a tanta realtà si incazza: "Compagni se voglio sottoscrivere,
sottoscrivo, ma se voglio un panino non potete aggiungerci il prezzo della
sottoscrizione". Rivendicazione giusta. Rivoluzionaria? No. Siamo sempre
dentro il giusto prezzo, il giusto profitto, la giusta merce. Meno clientele,
insomma, e poi non é il motivo per cui siamo tutti uniti contro la D.C.?
Qui con "giusto profitto" molti intendono nient'altro che
il mascheramento politico della merce, lo Stato Operaio che sul valore continua
a vivere, però lo chiama "servizio". Viene il dubbio che i più
lucidi siano gli altri, i parassiti. Ecco infatti uno che dice testualmente:
"ce la prendiamo perché i prezzi degli stand sono troppo alti, ma compagni
non dimentichiamo che questi soldi diventano volantini, manifesti, organizzazione,
lotta di classe". Applausi. Mai frase fu più ben detta: i soldi diventano
volantini, manifesti, lotta di classe.
Potenza dell'equivalente generale! x sterline = 20 libbre di tela= 1
Bibbia (diceva Marx) = 400 volantini = Xn lotta di classe, si può aggiungere).
Insomma: la "politica" é dentro il ciclo. La politica é merce
di scambio. La politica si paga sul lavoro. Chi vorrebbe nascondere il fatto
e fare "lo stand benefico", pagato con le sottoscrizioni di qualche
miliardario "democratico consegunte" (cioè: uno che paga per nascondere
a sé e agli altri la natura di merce dei rapporti sociali), non é rivoluzionario:
é un nostalgico d'un rito laburista che s'é rotto, d'un travestimento
della merce che é caduto. La merce c'é, e si vede. E questa merce é
la politica.
L'ultima maschera della politica é quella dell'Autonomia Operaia.
La politica qui si presenta come antagonista alla merce, si presenta come
esproprio, negazione apparente del rapporto di merce: "non ti pago".
Ma questa negazione in quanto prescinde dal carattere specifico della merce
(questa o quella, buona o cattiva) cioè dal suo reale godimento, nega proprio
il suo lato concreto, d'uso, per affermarne il lato formale, l'astratto
valore. La loro "festa" é sempre rito di merce. Assalto ai polli
e polli in terra o gettati "alle masse" da qualche palchetto.
I pirati amano il doblone perché sotto il doblone amano il rapporto di pirateria,
il loro ruolo di espropriati-espropriatori, la loro immagine allo specchio
(di subalternità rovesciata): di qui filibustiere, di là governatore. Si
riappropriano con la merce, del rapporto di merce. Non sfuggono al ciclo,
ci si divertono dentro. La politica qui raggiunge allora il massimo terreno
di mistificazione, trasferisce la persona totalmente dentro il rito della
merce (la persona, se un panino fa schifo o più semplicemente se non gli
va, non lo tocca anche se é gratis, mentre il militante se ne appropria
anche quando non ha fame perché ciò che serve, di cui ha fame, non é il
panino, ma é il rapporto di merce amato-odiato che il panino esprime). Se
bisogna contrattare il prezzo della merce oppure appropriarsene, é un problema
della classe, é una variante dentro il ciclo (non é in sé più rivoluzionaria
o più cosciente l'una cosa o l'altra). Il problema della persona
e della coscienza rivoluzionaria, quella cioé che capovolge l'ordine
di cose esistente, é la ricezione dell'oggetto, cioé la sua e la mia
"qualità" che entrano in rapporto e come in questo rapporto posso
far diventare la merce-cibo semplicemente cibo (gusto, nutrimento, piacere,
non rapporto di classe) e la merce-politica semplicemente "liberi rapporti
umani" (non pantomima speculare del rapporto di sfruttamento). La merce
é là, non bisogna averne paura, né esorcizzarla anche perché ci conviviamo:
bisogna frequentarla, amarla e assumerla ma non come valore bensì come uso,
ricezione, stimolo, godimento, come insomma "qualità", cioè oggetto
che si fa soggetto, "natura" che si fa "coscienza".
La merce (l'ha detto Marx) esce dal ciclo quando uno la mangia, la consuma,
la usa, quando ridiventa "cosa" buona o cattiva. Il rito-politica
non può più permettersi di nascondere questa realtà, anche questa ambiguità
al Lambro é stata rivelata.
b) la "merce-cultura" in un Festival-pop vive principalmente come
musica. La polemica contro la "musica commerciale" é vecchia come
il movimento giovanile e anch'essa manifesta lo stesso pavido tentativo
di occultare la realtà (in ciò é stata maestra Stampa Alternativa). La musica,
qualsiasi musica, in quanto dentro un rapporto di scambio. é merce, é quindi
"musica commerciale". Il problema vero é: questa musica o quella
musica? Di nuovo, il problema é la sua ricezione, il suo uso. Di solito
invece si contrappone alla "musica commerciale" la "musica
collettiva", quella che cioé ricrea il rito. Musica collettiva spontanea
(tamburi battuti in cerchio fino alla noia) o musica cosidetta " di
partecipazione". Questa seconda é una delle mistificazioni più grosse
che il "movimento" abbia partorito. Quando Elvis Presley a Las
Vegas durante l'esecuzione di "Love me tender" scendeva dal
palco a baciare le giovani e a farsi baciare, questa era partecipazione.
Partecipazione a un rito, a un'identificazione col divo. Il trucco di
far battere le mani alla gente o di farli cantare in coro è noto alle suore
quanto, sempre in campo musicale, a Bing Crosby. In gergo si dice che é
una maniera per "risolvere": molti cantanti e gruppi tengono come
pezzo finale il pezzo dalla ritmica più elementare così la gente batte le
mani, il pezzo finisce in un crescendo di applausi, la gente applaude il
divo, il divo applaude la gente, abbiamo fatto una bella festa in famiglia
e vi regalo pure il bis. La musica del Lambro io l'ho sentita fino alla
noia, l'ho ascoltata e riascoltata dal vivo e sui nastri registrati:
ore e ore di musica. Un'analisi particolareggiata richiederebbe un discorso
a parte. Sintetizzo e vengo al nocciolo del suo contenuto "rituale".
Alla musica si chiedeva di rappresentare l'unità della gente del Lambro.
Questo già costituiva una preclusione rispetto all'ascolto: la musica
come espressione e comunicazione del gruppo x, come ricerca personale, partiva
già compressa. Impossibile che neppure si presentasse "alla ribalta"
quella che si prestava alla scomposizione del pubblico, a "ribaltare"
una contraddizione tra la gente. E' interessante notare in alcune prestazioni
musicali di livello, quelle per esempio della Taberna Mylaensis, del Canzoniere
del Lazio, di Don Cherry, di Toni Esposito, come in genere i momenti di
maggior "successo", individuati dalla quantità e dal calore degli
applausi e dei consensi, siano inversamente proporzionali alla qualità musicale
espressa.
Ci sono degli ambiti d'ascolto dove si crea quella "giusta"
tensione psichica e corporale, quella "comunicazione" in cui la
persona che trasmette qualcosa di sé dal palco riesce non solo a esprimersi
pienamente, ma a "inventare", a comunicare oltre i confini previsti
e prefissati, a scoprire se stesso, nuove parti prima all'oscuro della
propria "musica interiore". Ci sono altre atmosfere, e questo
era il Lambro, dove chiarissimo a tutti i musicisti era il fatto che ogni
liberazione del personale sarebbe stata confusa con egotismo e quindi s'aveva
da ricorrere ai trucchi del mestiere, al pezzo facile e di sicuro effetto,
al gioco di bottega, cioé alle risorse del lavoro. Di nuovo: la merce. Ogni
tentativo di sortita verso dimensioni sonore più godibili in un rapporto
di persone, rilassate, emotive, aperte, era bollato da indifferenza o da
caduta di tensione; mentre ogni ripiegamento sulla "partecipazione"
furba, sulla presentazione "politica", sulla ritmica semplice,
sull'effettismo, sulla "meccanica" professionale, sul rito
collettivo suscitato dal solito atto magico sempre uguale a se stesso, era
invece coronato dall'applauso, dal successo e quindi a sua volta ripagato
in merce (dischi).
Ma c'è un livello anche più profondo: da un paio d'anni a questa
parte c'é stata in Italia a livello musicale, pilotata dai festival
pop, una grossa ripresa della ritmica: ritmica chiama corpo, corpo chiama
sesso. La cosa dovrebbe essere positiva. Senonché la matrice originale di
tutto ciò nasconde un'ambivalenza: c'é ritmica e ritmica, c'é
quella del corpo e c'é quella del lavoro. La musica primitiva dove il
lavoro é creativo ed é legato al ciclo della sessualità, nasconde questa
ambiguità. Ma la musica del nostro tempo non può più celarla. Nella stessa
ritmica africana e orientale d'altronde, il ritmo non è mero battimento,
pulsione, ma é un vero e proprio linguaggio, esprime significati, comportamenti,
contenuti umani. La nostra musica, soprattutto quella italiana di ascendenza
contadina, esprime talvolta attraverso suoni onomatopeici questi significati
(soprattutto allusioni erotiche), ma più spesso rimanda a una significazione
di fondo che é appunto il lavoro, la scansione del ritmo di lavoro. Il rituale
collettivo é in questo caso scandito da un gesto ripetitivo e uguale trasmesso
da lavoratore a lavoratore. Ci si identifica in quanto "lavoratori".
Questa "musica del lavoro" é inutile nascondere che é stata la
matrice della musica della sinistra italiana. L'altra matrice anch'essa
d'origine "popolare" é la marcia, anch'essa a ritmo costante,
deciso e scandito, gesti ripetitivi e uguali, cioé la musica marziale, che
non é solo musica dell'esercito, ma anche musica "di lotta".
Infine la musica da chiesa, corale, rituale, impostata anch'essa su
un ritmo costante, su fasi semplici e ripetitive, slogan. Appare già una
differenza sostanziale dalla ritmica africana, orientale e, in parte, afro-americana:
qui proprio per un richiamo corporeo e/o "colto" più marcato,
le varianti ritmiche si sovrappongono e/o trasmutano le une nelle altre.
Invece nella nostra ritmica, le varianti tendono ad appiattirsi su un unico
disegno battente sempre uguale a se stesso e perciò tanto più coinvolgente.
Ma si tratta di coinvolgimento da "lavoro", da "milizia"
(anche in servizio d'ordine), o da "religione-ideologia" (slogan
ritmato, domanda-risposta, rito simbolico).
Se la musica deve esprimere l'unità politica del proletariato giovanile,
é ovvio che essa deve negarsi come musica e ridursi a "suono del ciclo":
lavoro, militanza e fede. Nello stesso tempo la musica esprime in termini
astratti, mediati, ma più vicini al corpo, questi tre capisaldi della "coscienza
di classe" e quindi a differenza della politica si presta meno alla
rilevazione della contraddizione. E infatti al Lambro se la contraddizione
della politica si é espressa, quella della cultura-musica non si é espressa
o si é espressa in termini vecchi identificando cioé come merce solo la
musica che non tracciava legame esplicito con lavoro-militanza-fede, l'altra
invece era "musica nostra", era "partecipazione": eppure
si trattava spesso d'una partecipazione allo stesso rito politico di
merce che s'era in qualche modo smascherato. Qui, nella musica, l'ambivalenza
é ancora da mostrare, può ancora trattarsi d'un terreno d'apparente
unità. Il che per chi fa musica e per chi ama la musica costituisce un impegno
a lottare in direzione della scissione, dello scioglimento dell'ambiguità,
contro il "rito del lavoro" verso la "comunicazione tra persone".
E anche al Lambro qualcuno c'é riuscito. E non é poco.
c) la "merce soggetto". Se già passando dalla "politica"
alla "cultura" la contraddizione s'ammorbidiva e si celava,
qui giunta alle soglie dell'io, la contraddizione si nascondeva proprio.
La pulce nell'orecchio m'é venuta dalla solita banalità fenomenica:
la gente aveva preso il palco e si alternava a parlare al microfono.
"Parlo io, parlo io", "No tocca a me" e via a strapparselo.
Vabbé, mi dicevo, é il solito problema delle code. Poi ognuno si presentava:"Sono
un compagno di ... ", oppure "sono un operaio...": che noia
'sti biglietti da visita. Poi "compagni" di qui, "compagni"
di là. Ma che bisogno c'é... Infine il flash, l'ultima sconcertante
osservazione. C'era il microfono, ben due enormi altoparlanti accesi,
da supergruppo, la gente tutta sotto il palco praticamente a portata di
voce naturale. Eppure chi parlava al microfono urlava. La mia stupida domanda
interiore era dunque questa: il microfono é un raffinato strumento tecnologico
atto ad amplificare le onde sonore: la sua specificità sta insomma nel fatto
che permette di parlare a voce normale e di farsi intendere ugualmente a
grandi distanze. "Ma allora perché urlano?" Urlare al microfono
é un po' come mettersi l'apparecchio acustico quando si ha un ottimo
udito, o anche come guardare un elefante con la lente d'ingrandimento.
Eppure no, non é cosi.
A livello di espressività corporale nell'urlo al microfono s'esprime
l'istinto di potenza, il potere sugli altri. Tutti piccoli Charlot che
fanno Hitler. Allora: avevano preso il palco o erano stati presi dal palco?
Cos'é il palco, se non qualcosa che ti mette sulla testa degli altri,
e perché l'ossessione di prenderlo se non per mettersi sulla testa degli
altri?
Questo é il gioco del palco. Che é anche il gioco del Soggetto. II Soggetto
é colui che ha potere, e il potere é un palco. Ma i soggetti mutano e cambiano,
si alternano a urlare al microfono, il palco resta perché il potere è lui.
Il Soggetto é una "Cosa": il palco, e i soggetti che si definiscono
tali solo in virtù della dimensione del palco sono soggetti fantasmatici,
sono personaggi in cerca d'autore. E' il palco il vero Soggetto,
é l'Autore, quello che ti presta voce e atteggiamento e ti trasmette
gestualità. Anche qui: il palco, nonostante tutto, unisce. E' l'unità
rituale che permette l'assemblea perché parlare in crocchio o a due,
a tre, a quattro, pare non sia comunicazione interpersonale "verace":
la comunicazione é assemblea e il palco ne é il Soggetto, e il soggetto
singolo si pensa tale solo quando si toglie dalla sua soggettività reale
di persona e si mostra come "figura del palco", perché la comunicazione
non é da persone a persone ma da "soggetto politico" "coagulo
di potere" "io urlante al microfono", a "masse"
"classe" "compagni", unità indistinta di altri "soggetti
politici" che anch'essa non s'esprime in sguardi, sensazioni
tattili, parole chiare o sottintese, ma in urla applausi e fischi (o lattine).
Ciclo del potere: la polvere e l'altare, con la polvere che da un momento
all'altro ti può anche finire negli occhi. Altri non urlavano: erano
lì a usare un microfono, una struttura casuale perché in quel momento era
lì che si comunicava e comunicavano magari raccontando di sé, com'erano
arrivati al parco, cosa gli era successo. Quelli sono scesi dal palco come
ci sono saliti: hanno parlato lì come altrove. Anche qui, qualcuno c'é
riuscito. E non é poco. Che siano sempre più soggetti a parlare e sempre
meno "soggetti politici", sempre più "persone", e sempre
meno "compagni".
Da «L'erba voglio» n. 27 - settembre/ottobre 1976
L'OFFENSIVA DEGLI OPERAI FIAT INDICA AL MOVIMENTO UN NUOVO TERRENO DI LOTTA E DI ORGANIZZAZIONE
Ancora una volta, lotta a oltranza alla Fiat. Come sempre, la lotta degli
operai Fiat è, per la classe operaia in Italia, il segnale dell'attacco.
E infatti, appena iniziata la oltranza e il blocco di Mirafiori, il movimento
si è esteso rapidamente all'Alfa Romeo di Arese e di Pomigliano, all'Italsider
di Taranto, Trieste, Genova, Bagnoli; all'Olivetti di Ivrea, alla Zoppas,
alla Fiat di Cento. Un meccanismo generale di ripresa dell'offensiva
operaia - che già si era da parecchie settimane rimessa in moto a partire
dalla Fiat, dalla Pirelli, dall'Alfa Romeo - ha ricevuto la sua decisiva
accelerazione.
Una cosa è certa: è fallito il tentativo dei padroni di assicurarsi la tregua
sociale e su questa base di avviare un processo di generale ristrutturazione
della fabbrica e della società, per ribadire il loro dominio sugli operai,
per distruggere l'unità e la forza che la classe operaia ha accumulato
in questi anni di lotte. Una cosa è chiara: non è passata la manovra dei
padroni, che tendeva a rovesciare contro gli operai gli effetti della crisi
economica e politica a cui in primo luogo le lotte, in secondo luogo le
loro contraddizioni interne hanno inchiodato il sistema capitalistico. Lo
scorso autunno doveva essere l'autunno dei padroni, l'occasione
buona per sconfiggere lo straordinario movimento nato nel '68-69 nelle
fabbriche italiane. A questo, a mettere in ginocchio gli operai, doveva
servire la crisi energetica, e l'inflazione. Dovevano servire a dire
agli operai: «Se volete mantenere le vostre attuali condizioni di vita,
dovete lavorare di più, tornare a farvi sfruttare al limite delle vostre
possibilità. La "festa" è finita». Ma gli operai non hanno nessuna
voglia di aiutare il padrone per farsi mettere i piedi sulla testa. E così
la risposta è arrivata, l'iniziativa è tornata in mano agli operai.
È possibile parlare di apertura di un nuovo ciclo di lotte operaie.
Ma la lotta operaia nella crisi ha un carattere particolare: è necessariamente
lotta politica, non semplicemente rivendicativa. Si gioca sul terreno del
potere, non della trattativa. Da che esiste il capitalismo, quando il padrone
non ha margini riformistici (cioè non può e non vuole concedere nulla),
o gli operai piegano la testa e accettano la sconfitta, o devono organizzarsi
sul terreno dello scontro violento. In altre parole: nella crisi, o la lotta
è generale, politica, organizzata e armata, o non è. Gli operai si trovano
di fronte tutta la struttura di comando dei padroni, dalla fabbrica allo
Stato: e allora è il terreno del potere, dei rapporti di forza generali,
è il problema della guerra di classe che viene in primo piano.
Questa è la situazione attuale dello scontro di classe in Italia. I padroni
e i loro rappresentanti politici, da un lato, hanno continuato a provocare
la collera operaia con una serie continua di manovre di aperta violenza
anti-operaia: il razionamento, la austerity, l'attacco forsennato al
potere d'acquisto dei salari, i licenziamenti, l'intensifìcazione
dello sfruttamento in fabbrica. Gli operai, dal canto loro, hanno ricominciato
con gli scioperi, con le fermate selvagge, i cortei che spazzano le fabbriche;
i pestaggi dei capi, dei crumiri, dei dirigenti, i picchetti duri, i cortei
«armati», dentro e fuori la fabbrica.
Tutto questo esprime la volontà degli operai di rompere la camicia di forza
della tregua, del cedimento, che il sindacato e i partiti riformisti vogliono
stringere attorno alle lotte. Gli operai hanno ben chiaro in testa che il
«compromesso storico» con il padrone rappresenterebbe la loro sconfitta
generale, la liquidazione di tutto quanto in questi anni si sono conquistati
come potere di organizzazione e di lotta. Per questo hanno cominciato a
preparare lo sciopero del 27, rilanciando la massiccia offensiva di questi
giorni. Il 27 doveva essere l'occasione - passaggio iniziale ma essenziale
- di un rilancio della contrattazione della tregua fra sindacati, padroni,
governo; gli operai vogliono farne un'occasione di scontro che indichi
quale dovrà essere la qualità, il percorso, il tipo di lotta nella fase
che si apre.
Questo foglio d'agitazione, che Potere operaio propone come strumento
di organizzazione a tutte le avanguardie comuniste, vuole essere un frammento
di iniziativa in questa direzione. Questo strumento ha un senso, se viene
sottratto a una dimensione di gruppo e diventa voce di un processo, ben
più ampio e significativo, di organizzazione operaia.
Questo strumento ha un senso, se si lega alla costruzione di momenti organizzati:
di unità delle avanguardie, di elementi di organizzazione operaia di attacco.
È di qui che si comincia a costruire il partito della guerra al lavoro,
il partito armato degli operai comunisti. A un nuovo ciclo di lotte deve
oggi corrispondere un nuovo ciclo di organizzazione. Vogliamo raccogliere
e rilanciare il segnale d'attacco delle avanguardie operaie della Fiat,
che preparano per il 27 una grande giornata di lotta, un momento di scontro
politico che mandi all'aria il piano padronale di sconfitta operaia,
il piano sindacale di tregua e di cedimento.
In questa settimana, prima e dopo lo sciopero generale del 27, questo giornale
uscirà ogni giorno, per costruire dentro il movimento delle lotte una scadenza
significativa, che sposti, ancora una volta in avanti il terreno dello scontro.
da «Fuori dalle linee» n. 1, Torino, Febbraio 1974
di Sergio Bologna
(Storming Heaven. Class composition and struggle in Italian Autonomist
Marxism, by Steve Wright, Pluto Press, London 2002)
È il risultato della ricerca condotta per una tesi di laurea e come tale
è il primo lavoro che affronta una ricostruzione storica del pensiero e
della pratica militante dell'operaismo italiano secondo i criteri di
analisi critica delle fonti, con il necessario distacco dalle vicende ma
anche con una capacità di comprensione, che deriva da un forte sentimento
di partecipazione personale e di condivisione delle ragioni dei movimenti
rivoluzionari.
È il primo libro di storia sull'operaismo italiano, che interrompe la
linea memorialistico-autobiografica dei materiali finora disponibili e la
diffusa produzione di giudizi sommari e generalmente liquidatori. Dovendo
scegliere un filo conduttore attraverso questa singolare vicenda intellettuale
e politica, Wright ha optato per il concetto di "composizione di classe",
riconoscendone in tal modo quel valore che una parte degli operaisti stessi
ha avuto difficoltà a riconoscergli, perché lo mettevano in secondo piano,
come criterio di pura ricerca empirica, rispetto alla "grande teoria
politica" (sullo stato, sul partito, sulla rivoluzione, sulla classe,
sul general intellect e così via).
Giustamente Wright sottolinea che il concetto di "composizione di classe"
ha uno stretto legame con l'approccio della "conricerca" ed
ambedue rimandano ad un modo, caratteristico degli operaisti italiani, di
instaurare una collaborazione tra intellettuali e operai o tra intellettuali
e proletari in senso lato, fondata su delle ragioni diverse da quelle che
hanno caratterizzato il rapporto tra partito e classe nella II, III e IV
Internazionale. Gli operaisti italiani non hanno voluto essere "la
guida" della classe, non hanno voluto essere ceto politico, non hanno
voluto essere un "partitino", vivendo fino in fondo la contraddizione
tra chi esercita teoria politica ed al tempo stesso rifiuta i modelli organizzativi
tradizionali.
Chiedendosi perché l'operaismo italiano è rimasto a lungo ignoto nel
mondo anglosassone, Wright nota che solo grazie all'opera di alcuni
volontari, come Ed Emery, sono state create le condizioni linguistiche perché
gli scritti di Negri, di Tronti, di Alquati, di Virno abbiano potuto circolare.
A questo probabilmente dobbiamo aggiungere oggi lo straordinario successo
di pubblico di "Empire" di Toni Negri e Michael Hardt.
Il primo capitolo del libro è dedicato ad una breve ricostruzione delle
correnti e delle personalità politiche che nel primo dopoguerra, anni '40
e '50, in Italia hanno cercato un'alternativa "di sinistra"
alla politica del PCI e di Togliatti in particolare. Vengono in luce subito
le figure di Morandi e di Raniero Panzieri, fondatore e animatore della
rivista "Quaderni Rossi", nella cui redazione si sono ritrovati
per la prima volta tutti i protagonisti della vicenda dell'operaismo
italiano.
Il capitolo successivo è di notevole rilievo, perché espone con molta chiarezza
il quadro teorico fondamentale dell'operaismo italiano attraverso una
lettura intelligente degli scritti di Mario Tronti su fabbrica e società,
pubblicati nei "Quaderni Rossi". Sono scritti che innovano il
marxismo del Novecento, attraverso una rilettura/reinterpretazione del II
libro de "Il Capitale" di Marx, riuscendo a introdurre elementi
di grande originalità (Tronti's discoveries). Tronti pone i "fondamentali"
dell'operaismo. Lo stesso concetto di "composizione di classe"
non è che un tentativo di tradurre in pratica alcuni concetti che Tronti
per primo ha esplicitato. Aver capito appieno l'importanza e il significato
degli scritti di Tronti in quel periodo dà a Steve Wright la chiave di lettura
giusta per ricostruire la storia dell'operaismo italiano. Al tempo stesso
Wright coglie la "novità" dei "Quaderni rossi" e la
"scossa" che questa pubblicazione impone al movimento operaio
italiano per risvegliarlo dalla crisi che lo aveva colpito, anche sul piano
intellettuale, dopo le sconfitte dei primi Anni 50. Questa "novità"
è rappresentata dall'"inchiesta operaia". Da dove bisogna
ripartire? Dalla conoscenza della classe operaia, della "nuova"
classe operaia, anzi dalla comprensione delle mentalità delle nuove generazioni,
di quelle che avevano difeso la democrazia dai rigurgiti neo-fascisti, scontrandosi
in piazza con la polizia nel luglio del 1960. La figura centrale dell'"inchiesta
operaia" (cioé dell'approccio marxiano, anche in questo caso) è
Romano Alquati, che mette a punto la metodologia della "conricerca"
assieme a Romolo Gobbi e Gianfranco Faina (un nome che non compare nel libro
di Wright ma che ha avuto un'enorme importanza in questa primissima
fase dell'operaismo italiano). Faina era un docente di storia dell'Università
di Genova, (la città epicentro dei moti di piazza del luglio 60 che hanno
bloccato l'esperimento neo-autoritario del Governo Tambroni), prenderà
parte all'esperienza di "classe operaia" ma non a quella di
Potere Operaio, negli Anni 70 avrà dei rapporti anche con gruppi di origine
anarchica che praticavano forme di lotta armata, verrà rinchiuso in carcere
e morirà di cancro in carcere nel 1981 (v. il ricordo pubblicato su "Primo
Maggio", n. 19/20, inverno 1983/84 da Rinaldo Manstretta e Pierpaolo
Poggio). Al contributo di Alquati, in questa fase che precede la nascita
dell'operaismo vero e proprio, Wright dedica le pp. 46-58 del suo volume,
mentre le pagine precedenti (41-46) sono dedicate al contributo di Panzieri.
Il quale aveva aperto nuovi orizzonti teorici con la rilettura del I Libro
del Capitale e quindi aveva focalizzato il suo ragionamento sul rapporto
tra classe operaia e innovazione tecnologica ("il problema delle macchine"),
traendone conclusioni di forte critica alla cultura sindacale della CGIL
per la sua subalterna accettazione dello sviluppo capitalistico. Panzieri
pone un problema che avrà importanti sviluppi nei "Quaderni rossi"
e dopo: è possibile una sociologia del lavoro e dell'industria che non
sia al servizio dell'innovazione tecnologica ma al servizio delle lotte
operaie? Com'è noto, da questa sollecitazione di Panzieri nasce un modo
di fare sociologia diverso, che sarà di riferimento ad alcuni dei maggiori
sociologi italiani (Rieser, Mottura, Paci ed altri) presenti allora nella
redazione dei "Quaderni rossi".
Perché Panzieri rompe con tutti quelli che successivamente daranno vita
a "classe operaia", la rivista con cui nasce l'operaismo italiano?
Perchè Tronti, Negri, Alquati escono da "Quaderni rossi"? Steve
Wright dà una risposta sfumata a questo interrogativo ma quel poco che dice
corrisponde alla realtà: il progetto politico di Panzieri era quello di
produrre una svolta "all'interno" del movimento operaio, della
CGIL, del PSI (dove era stato membro del Comitato Centrale) e del PCI. Il
progetto degli altri era quello di sperimentare un nuovo modo di fare politica
con la classe operaia, di creare un nuovo movimento che aprisse l'èra
post-comunista. Qui la figura ed il ruolo di Toni Negri diventano centrali,
decisive. Nessuno come lui aveva la "volontà" di buttarsi in un'impresa
del genere, anche se egli in tutti i modi cercò di convincere Panzieri e
Rieser che la sua era la strada giusta (la rottura definitiva, nei primi
di settembre del 1963, si consumò a casa mia a Milano, anzi, più che una
casa era una stanza dell'appartamento che dividevo con altri due compagni
del gruppo dei "Quaderni rossi"). Scegliere o meno di collocarsi
dentro la tradizione del movimento operaio significava anche condividere
o meno certe forme di lotta selvaggia in fabbrica o violente di piazza,
come quelle che scossero Torino nell'estate del 1962, conosciute come
gli "scontri di Piazza Statuto", dove gli operai diedero anche
l'assalto alla sede di un sindacato accusato di schierarsi dalla parte
del padronato.
Il terzo capitolo è dedicato interamente all'analisi degli scritti di
Tronti e Alquati nella rivista "classe operaia" ed alle discussioni,
alle polemiche che questi scritti hanno suscitato. Manca invece una storia
della rivista in tutte le sue sfaccettature, manca in maniera evidente un'analisi
del ruolo e del contributo di Toni Negri, manca una messa in rilievo dell'internazionalismo
degli operaisti italiani, quindi della formazione dell'idea dell'operaio
multinazionale, manca l'intensificazione dei rapporti con la sinistra
di classe americana, dove Ferruccio Gambino svolse un ruolo fondamentale.
Tutti aspetti che in seguito caratterizzeranno fortemente l'azione e
soprattutto la presa della metodologia operaista presso il movimento studentesco
del '68, i comitati di base del '68/'69 e i movimenti degli
Anni 70. Ne viene fuori un operaismo ridotto a poche tematiche, sia pure
essenziali.
Essenziale indubbiamente fu la svolta che Tronti impresse al suo stesso
pensiero con l'articolo di fondo del n. 1 di "classe operaia"
intitolato "Lenin in Inghilterra". Questo articolo apriva la fase
"forte" dell'operaismo e al tempo stesso poneva le premesse
per la sua prima crisi, che si concluse con una nuova rottura, la chiusura
della rivista due anni dopo e l'ingresso (o il ritorno) di personalità
di rilievo, come Tronti stesso, Asor Rosa e Rita Di Leo nel PCI. Quell'articolo
riportava in campo la tematica del partito (chiamata allora la tematica
della "tattica") e richiamava i militanti a misurarsi con la politica
istituzionale. D'altro lato si arricchiva lo strumentario teorico con
il paradigma della "società-fabbrica". Romano Alquati e altri,
in particolare i compagni che agivano nelle città con forte presenza operaia
(Milano, Torino, Porto Marghera), cercavano di capire le dinamiche dei movimenti
della classe operaia, per anticipare i momenti di rivolta, di sciopero,
e poterli collegare tra loro. Gli operaisti si sentivano al servizio della
"ricomposizione di classe". "classe operaia" non solo
fu uno straordinario laboratorio di idee ma mise in moto nelle città in
cui c'erano dei militanti attivi una serie di esperienze politiche di
avanguardia che si diffusero in molti ambienti. A Milano nel 1964 i volantini
di "classe operaia" nelle fabbriche (si coprivano con azioni di
intervento politico al primo turno anche 15 grandi fabbriche simultaneamente,
tra Milano, Sesto San Giovanni ed altre zone dell'Hinterland!) contribuivano
a far partire lotte improvvise all'Innocenti, fabbrica di motoleggere
e di automobili, con cortei operai che invadevano la città. Il movimento
studentesco di Trento, l'Università fondata nel 1965 che sarà uno degli
epicentri della lotta degli studenti nel 1968, conoscerà Jimmy Boggs grazie
a "classe operaia" in un'assemblea-dibattito entusiasmante
(ricordo la faccia felice di Jimmy che mi abbracciava dopo l'entusiastica
accoglienza che riservarono a lui ed a Grace Lee gli studenti), il gruppo
di giovani filosofi dell'Università di Milano, allievi di Enzo Paci
(Nanni Filippini, Giairo Daghini, Paolo Gambazzi, Guido Neri, Paolo Caruso)
e di psicologi allievi di Cesare Musatti (Renato Rozzi) avranno stretti
rapporti con "classe operaia". L'operaismo esercitava per
le sue posizioni innovative un forte fascino su tanti giovani intellettuali
già prima del '68. Oppure gli architetti, gli urbanisti e gli studiosi
del territorio che introdurranno nella loro disciplina le tematiche dell'operaismo,
come Alberto Magnaghi, di Torino, che sarà segretario generale di Potere
operaio nel 1971, e tanti altri. Quando chiude, nel 1966, "classe operaia"
ha già formato un nucleo di "nuovi" militanti della generazione
più giovane che svolgeranno un ruolo decisivo nel '68 e per tutti gli
Anni 70. Molti di essi sono ancora sulla breccia. Quando il gruppo della
redazione di "classe operaia" si scioglie, iniziano, per così
dire, i preparativi per il '68. Steve Wright mette in evidenza due aspetti
importanti, l'introduzione della tematica dei "tecnici" (che
avrà molta presa nelle facoltà scientifiche e nei Politecnici) e la partecipazione
di alcuni operaisti italiani al maggio francese, seguita dalla pubblicazione
di articoli che offrivano una lettura complessiva della rivolta degli studenti
e degli operai di Parigi. L'esperienza francese viene trasmessa e "filtrata"
in Italia dagli operaisti. Altre lacune nel libro di Wright riguardano la
dinamica che portò all'intervento alla Fiat di Torino nella primavera
del 1969. Probabilmente, per ricostruire con precisione questo, che fu un
passaggio fondamentale per l'operaismo italiano, anzi, senza dubbio,
la sua maggiore vittoria, sarebbe stato necessario avere a disposizione
materiali d'archivio difficilmente reperibili, in particolare i volantini
che si distribuivano allora nelle fabbriche (questi materiali si trovavano
nelle collezioni private dei singoli militanti, ma per la maggior parte
sono stati sequestrati e distrutti durante e dopo l'ondata di arresti
del 1979). Un ruolo fondamentale ebbero anche i due opuscoli di Linea di
massa. Il primo, "Lotte alle Pirelli", fu scritto sulla base della
testimonianza di uno dei fondatori del Comitato di Base della Pirelli di
Milano, il compagno Raffaello De Mori, il secondo "Lotte dei tecnici
alla Snam Progetti", il laboratorio di ricerche dell'Ente Nazionale
Idrocarburi (ENI) di San Donato Milanese, fu scritto sulla base delle testimonianze
dei tecnici del Comitato di Base (l'ENI è l'industria petrolifera
di Stato), che hanno mantenuto una presenza militante sul territorio fino
ai nostri giorni. Questi due opuscoli insieme al giornale "La Classe",
il cui primo numero fu diffuso il 1 maggio 1969, un mese prima dello scoppio
delle lotte spontanee alla Fiat di Torino (giugno-luglio 1969), rappresentano
l'apice della parabola dell'operaismo italiano. Negli anni cruciali
per il destino del movimento rivoluzionario in Italia, 1967, 1968, primavera
1969, Milano e il suo Hinterland sono i luoghi dove si incrociano e convivono
tutte le esperienze più avanzate, dai gruppi che si ricollegano alla rivoluzione
cinese (Edizioni Oriente), alle reti di sostegno alla guerriglia latino-americana
in Venezuela, Bolivia, Perù (Centro Frantz Fanon), dalle case editrici e
dai centri di ricerca storica (Feltrinelli Editore, Biblioteca G.G. Feltrinelli,
Edizioni Avanti!) alle redazioni di riviste d'avanguardia come "Quaderni
Piacentini", dai centri di studio delle culture contadine (Istituto
Ernesto de Martino) ai centri di raccolta dei canti popolari (Nuovo Canzoniere
Italiano), dalle concentrazioni operaie del ciclo dell'auto (Alfa Romeo,
Innocenti, O.M., Pirelli, Magneti Marelli), alle fabbriche chimiche e farmaceutiche
(Snia Viscosa, Montecatini, Farmitalia, Carlo Erba), dalle fabbriche della
meccanica pesante e della meccanica fine (Siemens, Breda, Falck, T.I.B.B.)
ai laboratori dell'industria petrolifera dell'ENI e agli uffici
di design industriale e di grafica pubblicitaria dell'Olivetti. Tutti
questi luoghi sono stati attraversati o sono stati contaminati dall'operaismo
negli Anni 60. Dopo lo scoppio delle lotte Fiat e del ciclo di scioperi
del cosiddetto "Autunno Caldo" (giugno-dicembre 1969), non è un
caso che proprio a Milano inizino le stragi del terrorismo di stato (12
dicembre 1969, bomba di Piazza Fontana). Qualche settimana prima era stato
arrestato Francesco Tolin, direttore responsabile di "Potere Operaio".
La storia degli operaisti negli Anni 70 - quando pochi tra loro si definivano
ancora "operaisti" - è la storia di un paradosso. Sul piano dell'organizzazione
dei movimenti il loro ruolo fu decisamente minoritario. Ma proprio la demonizzazione
di "Potere Operaio" e poi dell'Autonomia Operaia da parte
dei media permise all'operaismo di sopravvivere a se stesso. Steve Wright
coglie giustamente l'intrinseca debolezza teorica e politica di "Potere
Operaio". Il gruppo di militanti, ormai emarginato dalle lotte di fabbrica,
gira a vuoto, cercando nuovi punti di riferimento (le lotte dei neri afroamericani,
dei disoccupati meridionali) e, non trovandoli, accentua il carattere volontaristico,
tardoleninista, della sua azione militante. La rivolta delle donne, che
parte dall'interno di "Potere Operaio" e porta alla formazione
del primo gruppo femminista italiano, comincia a rendere evidente la crisi
dell'organizzazione. A molti anni di distanza si può dire veramente
che la fondazione del gruppo politico "Potere Operaio" fu una
forzatura (di cui io stesso sono stato responsabile). Essa appare tanto
più grave se mettiamo a confronto la povertà di "Potere Operaio"
con la ricchezza inesauribile delle esperienze diffuse degli Anni 70, con
la creatività e l'ottimismo con cui si cercò di "rovesciare il
mondo", cioè di cambiare il segno delle cose, nelle professioni, nella
vita quotidiana. L'organizzazione di base nelle fabbriche, riconosciuta
dai sindacati, coinvolse decine di migliaia di operai e impiegati. Le lotte
nell'istituzione ospedaliera, nella scuola, nel mondo dei trasporti
determinarono un ciclo decennale. Cos'era di fronte a questo l'azione
di un piccolo gruppo, che aveva avuto il merito di fecondare lo spirito
di rivolta ma che non aveva l'umiltà di riconoscerlo e di sciogliersi
dentro questa realtà infinitamente più ricca dei suoi asfittici proclami?
A parti alcuni, come me ed altri, che uscirono dopo pochi mesi, fu Toni
Negri ad accorgersene per primo, quando riuscì a costruire quel notevole
laboratorio di formazione e di trasmissione di idee che si raccolse attorno
alla collana "Materiali marxisti" dell'Editore Feltrinelli.
Testi come Operai e Stato, Crisi e organizzazione operaia, L'operaio
multinazionale ed altri lasciarono il segno. Eppure va riconosciuto anche
che "Potere Operaio" marchiò i compagni che ne fecero parte, segnò
la loro vita per sempre, lasciò l'impronta di un radicalismo delle idee
che nessun'altra esperienza in nessun altro gruppo ha potuto o voluto
eguagliare. Fu però un fatto "privato", il movimento andava avanti
per conto suo, senza bisogno degli operaisti. S'instaura quindi una
dinamica, che Wright non ha difficoltà a individuare, di formazione di un
"ceto politico" come corpo separato. La tematica dell'"insurrezione
all'ordine del giorno" riporta "Potere Operaio" indietro
di 50 anni, con la riproposizione di atteggiamenti "bolscevichi",
che sono la negazione delle premesse stesse dell'operaismo. Se avesse
potuto restare il più "a sinistra" dei gruppi extraparlamentari,
forse "Potere Operaio" avrebbe saputo ritagliarsi un suo spazio,
ma da quando cominciano ad agire i gruppi della cosiddetta "lotta armata",
le Brigate Rosse ed altri, per "Potere Operaio" è finita. "The
most valuable lesson on 1960s - the attentive study of working-class behaviour
- was to be sacrificed in a greater or lesser degree to political impatience
and an increasingly rigid conceptual apparatus" (p. 151).
I due capitoli successivi del libro sono dedicati rispettivamente a Toni
Negri ed alle sue teorie dell'operaio sociale ed al lavoro della rivista
"Primo Maggio". E' una scelta curiosa e interessante quella
di mettere insieme in un unico percorso politico l'azione militante
di un gruppo, quello che faceva capo a Toni Negri ed alla rivista Rosso,
che concepiva la propria missione ancora in termini di organizzazione politica
(per quanto non separata dal movimento ma intrinseca al movimento stesso)
e l'azione di un gruppo che concepiva se stesso come semplice redazione
di una rivista. Si tratta di due piani completamente diversi perché all'origine
ci sono impostazioni politiche differenti e divergenti. Quanto il lettore
riesca a percepirlo leggendo la ricostruzione di Steve Wright, rimane dubbio.
Perciò è una scelta che a prima vista sconcerta. Il capitolo su Toni Negri
soddisfa bene il bisogno di comprendere cos'era questa "Autonomia
Operaia", sia come forma della politica sia come teoria della rivoluzione.
Ma occorre separare bene la fase di incubazione di questa nuova tendenza
(1973-75) dalla fase in cui essa si incontra con un movimento "nuovo",
con il primo movimento post-68, con una generazione diversa da quella che
si era formata dieci anni prima. La rivista Rosso sta al movimento del '77
(fu chiamato così dall'anno in cui esplose in Italia per breve durata)
quanto "classe operaia" stava al movimento del '68. A Padova
e nel suo Hinterland si forma una nuova struttura organizzativa, in parte
dalle ceneri di "Potere Operaio", in parte da questa nuova generazione
di militanti cresciuta dopo il '68, che si definisce "Autonomia
Operaia" ma è formata in gran parte da studenti e proletariato giovanile.
Anche se analoghe strutture nascono in altre città, in parte dalle ceneri
dei gruppi extraparlamentari, in parte dalle nuove generazioni, quella di
Padova (e poi di Mestre-Venezia), malgrado l'incarcerazione di quasi
tutti i suoi partecipanti negli anni 1979, 1980 e 1981 (chi non fu arrestato
si rifugiò all'estero) rimase la più forte e la più duratura, creando
quel tessuto che a tutt'oggi rappresenta una delle realtà più forti
del movimento italiano, un movimento che negli anni ha cambiato radicalmente
la sua natura, in particolare nel rifiuto della violenza e delle azioni
di lotta violenta.
"Primo Maggio" è tutta un'altra storia. E' vero che fu
fondato da alcuni compagni di "Potere Operaio" (Lapo Berti, Franco
Gori, Andrea Battinelli, Guido de Masi, io stesso) ma la sua caratteristica
fu quella di impiantarsi su una rete di iniziative di autogestione della
cultura politica e della formazione "a servizio del movimento".
La libreria Calusca di Primo Moroni a Milano fu la più originale e importante
di queste iniziative. Se "Primo Maggio" non si fosse innestato
in questa rete, non avrebbe mai esercitato l'influenza che solo oggi
le viene riconosciuta. Da questo punto di vista, Steve Wright ha ragione
a inserirlo nella tradizione dell'operaismo italiano, anzi, mentre "Primo
Maggio" si riconosceva esplicitamente in quella esperienza e ne rivendicava
apertamente la continuità, per Negri già nel 1973 l'operaismo era morto,
per Negri la storia dell'operaismo si era conclusa con la fine di "classe
operaia". La seconda ragione per la quale "Primo Maggio"
fu una rivista che seppe produrre qualcosa di nuovo e di interessante per
il futuro, sul piano dell'analisi del capitale finanziario, del welfare
state, della storiografia, della composizione di classe, va individuata
nella presenza, all'interno della sua redazione, di compagni che provenivano
(anche per ragioni di età) da esperienze diverse da quelle dell'operaismo
"classico", come Cesare Bermani, Bruno Cartosio, Marco Revelli,
Christian Marazzi, Marcello Messori. Ma quale era la fondamentale differenza
tra "Primo Maggio" e l'Autonomia Operaia, tanto che mi sembra
scorretto e fuorviante metterli nello stesso calderone? La differenza di
fondo stava nella concezione del proprio ruolo di intellettuali. A noi di
"Primo Maggio" interessava cambiare le regole dello statuto delle
discipline, interessava innovare il metodo della storiografia, della sociologia,
dell'economia, della politologia. Ci sentivamo molto vicini a riviste
come "Sapere", che svolgeva analogo ruolo nei confronti delle
discipline scientifiche (la fisica, la medicina ecc.) ma poiché nessuno
di noi pensava di essere un nuovo Braudel o un nuovo Einstein o un nuovo
Weber, ritenevamo, come i compagni di "Sapere", che alla fine
l'obbiettivo più importante fosse quello di cambiare il "ruolo
sociale" del docente universitario, del medico, del fisico, del sociologo,
dell'avvocato, dell'architetto. In tal senso andava cambiato anche
il ruolo sociale dell'"intellettuale politico", che non doveva
essere un nuovo Lenin o un nuovo Robespierre, ma un "prestatore di
servizi" al movimento diffuso, in grado di offrire al movimento una
migliore comprensione di se stesso, di aprirgli nuovi orizzonti. Nacque
così la precoce percezione che il modo di produzione fordista stava esaurendosi
per lasciare il posto a un nuovo modo di produzione, per convenzione ormai
chiamato "postfordista", che conteneva in sé sia elementi di liberazione
dal lavoro sia elementi di maggiore sfruttamento capitalistico.
Steve Wright di questa complessa parabola ("Primo Maggio" apre
nel 1973 e chiude nel 1986) coglie alcuni aspetti essenziali, in particolare
sottolinea il modo caratteristico e originale in cui "Primo Maggio"
affrontò il problema della storia e della memoria, anticipando la battaglia
su un tema che alcuni anni dopo diventerà esplosivo in seguito all'offensiva
del revisionismo storico.
Nell'ultimo capitolo, "The collape of workerism", Wright prende
in considerazione l'atteggiamento verso il movimento del '77 dei
gruppi politici dell'Autonomia Operaia e delle forze intellettuali attorno
a "Primo Maggio". Sembra l'ultimo sforzo di una generazione
politica nata negli Anni 60 di tenere il passo degli eventi, con fatica
ma, a rileggere quanto scrivemmo allora, con dignità. Gli eventi però correvano
troppo e ci travolsero. Nel 1978 il rapimento di Aldo Moro da parte delle
Brigate Rosse cambia completamente il clima all'interno dei gruppi dell'Autonomia
Operaia, che si sentono schiacciati tra lo Stato che si riorganizza per
rispondere all'attacco terroristico e i gruppi armati che "alzano
il tiro". Nel 1979 Toni Negri e tutti i compagni che avevano fatto
parte di "Potere Operaio" fino al 1973 vengono arrestati, altri
fuggono all'estero (alcuni si trovano ancora in esilio). Nel 1980, in
autunno, la Fiat decide di licenziare in massa, nasce una lotta che ormai
è perduta in partenza, uno sciopero che dura 35 giorni e che si conclude
con la più cruda e profonda sconfitta operaia in Italia dal 1950. Per capire
con quale drammaticità gli operai Fiat vissero umanamente questa sconfitta,
basterà dire che nei mesi successivi si registrarono più di un centinaio
di casi di suicidio. I militanti dei movimenti arrestati o costretti a fuggire
all'estero furono circa 5.000, circa 1.000 quelli che subirono ai processi
condanne superiori ai 10 anni di carcere. Invece di soffermarsi su questi
eventi, che sono noti e sui quali esiste un'ampia letteratura, Wright
preferisce soffermarsi in dettaglio sulla dinamica che ha portato all'ultimo
scontro di classe alla Fiat (1978-80), nel paragrafo intitolato "The
family Gasparazzo goes to Fiat". E' stata anche l'ultima "inchiesta"
dell'operaismo condotta alla Fiat.
Nelle sue brevi conclusioni Wright enumera i lati deboli dell'operaismo,
che sono forse alla base della sua estinzione come teoria politica del presente:
"The first of these consists in its penchant for all-embracing categories
that, in seeking to explain everything, too often would clarify very little
(...) another of the more obvious weaknessess of Italian workerism ...would
be a too narrow focus upon what Marx termed the immediate process of production
as the essential source of working-class experience and struggle" (p.
225) E il terzo lato debole sarebbe la "political impatience".
Non si può che essere d'accordo con lui, ciononostante è anche vero,
come aggiunge in seguito, citando un compagno inglese che "the questions
that it posed then, as two decades before, stubbornly refuse to go away"
e che, citando un compagno italiano, "the best way to defend workerism
today is to go beyond it" (p. 227).
Per concludere questa recensione che, forzatamente, oltre che una recensione
è una testimonianza, diremo che il merito maggiore del libro è l'aver
capito lo spirito (e la lettera) degli scritti dell'operaismo, compito
non facile per uno straniero. Non minore è il merito di aver saputo collocare
questi scritti in rapporto con gli eventi che li avevano determinati, ed
infine - cosa per cui tutti gli operaisti dovrebbero essere grati a Wright
- di aver riconosciuto lo spessore, la complessità dei ragionamenti, spezzando
in tal modo una tradizione dove l'operaismo o era preso a calci o era
idealizzato, senza entrare nel merito delle sue ragioni. Ovviamente le lacune
sono molte, riguardano soprattutto il contesto sociale e politico, ma ciò
è giustificabile perché di quella ricchissima articolazione di esperienze
del movimento in Italia, negli Anni 70, ben poco è rimasto come testimonianza
scritta e quel che è rimasto o pecca di eccessivo soggettivismo o di eccessivo
schematismo. I libri di storia sugli Anni 70 in Italia mancano, mentre abbondano
le deformazioni e su tutto incombe la versione ufficiale che sono stati
solo "anni di piombo". Né Steve Wright ha potuto utilizzare le
circa 50 testimonianze che gli operaisti degli Anni 60 hanno rilasciato
a dei giovani studiosi, militanti dei movimenti del nuovo millennio, allievi
di Romano Alquati. Un fatto curioso e singolare, che ha stupito gli stessi,
se si pensa che ci sono tra noi persone che da decenni non si parlavano
o non avevano più alcun rapporto personale, nemmeno sul piano umano, tanto
divergenti sono stati i percorsi individuali. Ed un bel giorno del 2000
accettano di riconoscersi in una comune tradizione, senza rinnegare il passato,
pur criticando le proprie esperienze. Questo volume, "Futuro Anteriore.
Dai '"Quaderni rossi"' ai movimenti globali: ricchezze
e limiti dell'operaismo italiano", a cura di Guido Borio, Francesca
Pozzi, Gigi Roggero, pubblicato dalle edizioni DeriveApprodi nel febbraio
2002, con allegato CD Rom delle interviste, meriterebbe una recensione,
se lo spazio- di cui già troppo ho abusato - lo permettesse. E' un caso
se gli stessi autori di questo volume sono oggi tra quelli che maggiormente
contribuiscono alla formazione dei giovani dei "nuovi movimenti"
partiti da Seattle e da Genova (v. il sito www.conricerca.it)? Il seme dell'operaismo
quindi può essere ancora fecondo, proprio nel momento in cui - vendetta
della storia! - collassa la Fiat, distrutta da un management incapace e
irresponsabile, inaridita da una forza-lavoro passiva e subalterna, complice
una Sinistra politica e sindacale che ha condiviso le scelte strategiche
del padronato italiano, limitandosi a ricavarne qualche utile per sé, complici
i governi di centro-sinistra che hanno spinto al massimo la finanziarizzazione
dell'economia. La Fiat uscì piena di energie innovative dopo dieci anni
di conflittualità operaia (1969-1980), dopo ventidue anni di pace sociale
(1980-2002) ne esce a pezzi. (Non erano stati gli operaisti a dire che la
lotta operaia accelera lo sviluppo capitalistico?)
Concludo con un interrogativo, che interessa coloro, se ci saranno, che
in futuro riprenderanno in mano la storia dell'operaismo. E' possibile
applicare la categoria della continuità a questo movimento? La categoria
della continuità non fa parte del modo tradizionale di fare storia? Non
è propria della storia delle dinastie, dei partiti? Ma chi si è messo fuori
sin dall'inizio da una prospettiva di partito, chi ha considerato la
rivoluzione come una linfa piuttosto che un evento, ha diritto alla continuità,
deve subirla? Forse l'esplorazione sui metodi della storiografia, sul
mestiere dello storico, iniziata con "Primo Maggio", ripresa negli
Anni 90 con "Altre Ragioni" e poi con LUMHI (Libera Università
di Milano e del suo Hinterland) - progetto soffocato sul nascere ma oggi
forse destinato a risorgere nel nuovo clima politico italiano - non è ancora
conclusa.
di Michele Brambilla
"Quando il cielo si svuota di Dio, la terra si popola di idoli"
Karl Barth
XIII - VERSO LA FINE
Il 1976 è l'anno in cui il Sessantotto entra in agonia. Certo, gran
parte delle battaglie cominciate otto anni prima erano state vinte: il divorzio
era diventato legge dello Stato, già dal 1970 era stato varato lo Statuto
dei lavoratori, nel 1975 era stato riformato il diritto di famiglia, la
scuola e l'università erano state sensibilmente modificate. E certo
molti degli stili di vita e delle idee dei sessantottini si erano ormai
radicati nella mentalità comune: dai comportamenti sessuali al linguaggio
all'atteggiamento verso l'autorità. Persino il cosiddetto apparato
era stato intaccato dalla «rivoluzione» sessantottina, e di questo l'esempio
forse più rilevante è costituito dalla forte influenza, nel sistema giudiziario,
della corrente di sinistra dei giudici, Magistratura democratica, e del
fenomeno dei «pretori d'assalto». Di tutti questi cambiamenti nei costumi,
del resto, è rimasta fino ai giorni nostri una traccia che appare indelebile.
Ma per quanto riguarda il suo obiettivo principale, il Sessantotto è stato
innegabilmente sconfitto. Il fine dichiarato dei contestatori, soprattutto
dopo l'incanalamento ideologico della protesta, era una radicale trasformazione
del sistema politico ed economico; un rinnegamento del capitalismo, l'instaurazione
di una democrazia «dal basso». Molti sessantottini il potere l'hanno
pure preso, come si può oggi facilmente constatare dando uno sguardo a molti
organigrammi: ma per farlo hanno dovuto abiurare l'antica fede, e accettare
di essere strumenti di quel capitalismo che volevano distruggere.
LA CRISI DEI GRUPPI
Di questa sconfitta, nel 1976 c'era già molto più di qualche semplice
segno premonitore. L'avvisaglia principale fu la crisi dei gruppi rivoluzionari
organizzati, che cominciarono allora la propria dissoluzione. I gruppi avevano
fallito su tutti i fronti: non erano riusciti a sottrarre la classe operaia
alla fedeltà al Partito comunista e al sindacato tradizionale; e, sul versante
opposto, non erano stati in grado di interpretare fino in fondo lo spirito
«movimentista» dell'ultima generazione. «I gruppi» ha scritto Paul Ginsborg
«erano settari, dominati da modelli rivoluzionari terzomondisti, incapaci
di trarre conclusioni realistiche dai segnali che venivano dalla società
italiana.»
Dicevano di combattere l'autoritarismo, ma cercarono di imporre a tutti
le loro forme di lotta, i loro stili di vita e le loro idee politiche: «Il
lavoratore» era scritto su un documento programmatico del Cub della Pirelli
nel 1972, «deve concepire se stesso come produttore ed acquisire coscienza
della sua funzione, deve aver coscienza di classe e diventare comunista,
deve rendersi conto che la proprietà privata è un peso morto, è un ingombro
che bisogna eliminare».
Dicevano di detestare la forma-partito, ma caddero quasi tutti nella tentazione
di riprodurre in fotocopia l'organizzazione di quei partiti che volevano
spazzare via. Uno degli esempi più eclatanti fu, nel 1973, la nomina di
Adriano Sofri a segretario della «movimentista» Lotta continua. E fu proprio
nel 1976 che Lotta continua, forse il più importante dei gruppi del Sessantotto,
si sciolse.
Il 20 giugno c'erano state le elezioni politiche, e i risultati erano
stati, per l'estrema sinistra, disastrosi. Democrazia proletaria, l'unica
lista che avrebbe dovuto rappresentare gli eredi della contestazione del
Sessantotto, aveva preso solo 557.000 voti, l'1,5 per cento, meno della
metà di quanti sperava. E i radicali, pur entrando per la prima volta in
Parlamento, non erano andati oltre l'1,1 per cento. Ma più che la constatazione
della modestia della propria forza, a deprimere l'area della sinistra
rivoluzionaria fu lo straordinario consenso elettorale -e quindi popolare-
ancora una volta riscosso dalla Democrazia cristiana, che aveva ottenuto
il 38,7 per cento, cioè il 3,7 per cento in più rispetto alle elezioni amministrative
dell'anno precedente. Un risultato che smentiva la previsione, più volte
espressa, di un ormai imminente crollo della Dc, e che costringeva a un
rinvio sine die della rivoluzione. Certo: aveva guadagnato anche il Pci,
in continua crescita, passando dal già rilevantissimo 33 per cento del 15
giugno 1975 al 34,4 per cento del 20 giugno 1976. Ma questo non era, per
l'estrema sinistra, una consolazione. Anzi: come ricorda l'ex di
Lotta continua Luigi Bobbio, «l'ulteriore rafforzamento del Pci non
apre la strada a un'alternativa di potere alla Democrazia cristiana,
ma prefigura piuttosto un processo di stabilizzazione giocato su due grossi
poli convergenti. Il quadro che esce dal 20 giugno non è quello del "governo
delle sinistre"; se mai, è quello del "compromesso storico"»
(Storia di Lotta Continua). Lo smacco fu tale che Adriano Sofri parlò, al
Comitato nazionale, di «sconfitta politica» e definì le previsioni elettorali
di Lc «l'errore più clamoroso della nostra storia». Ancor più drastico
fu Marco Boato, che lasciò intravedere l'ormai prossimo autoscioglimento:
«Siamo a una svolta storica in cui si decide della vita e della morte di
Lotta continua. Abbiamo sbagliato tutto. Un partito rivoluzionario che sbaglia
tutto nella fase che ha definito storica e decisiva della lotta di classe
nel nostro Paese non può permettersi di uscirne con qualche aggiustamento
di tiro».
EUTANASIA DI LOTTA CONTINUA
La batosta elettorale di Democrazia proletaria non era l'unico grattacapo
di Sofri e compagni. All'interno del movimento il dissenso cresceva,
anche e soprattutto perché mal si tollerava la scimmiottatura dei partiti
tradizionali, che come detto aveva snaturato l'originale spirito movimentista.
E' ancora Luigi Bobbio a ricordare: «Il partito... diviene il principale
bersaglio dei militanti, non tanto per le scelte compiute, quanto per essersi
costituito come autorità superiore e averli quindi trascinati in quell'avventurosa
separazione. Il termine "espropriazione" è quello che ricorre
di più nelle requisitorie, spesso cariche di recriminazioni, formulate dai
compagni della base». E ad aggravare la situazione interna si aggiunse la
questione delle donne e degli operai. Le prime -si era ormai in pieno clima
femminista- da un anno avevano preso a riunirsi da sole e a praticare l'«autocoscienza».
I secondi rimproveravano al nucleo dirigente di aver smarrito la «centralità
operaia». Donne e operai si erano così posti alla testa della rivolta contro
la linea dei vertici di Lc.
Fu in questo clima che si aprì a Rimini, il 31 ottobre 1976, il secondo
congresso nazionale di Lotta continua, a cui parteciparono un migliaio di
militanti. Invano Sofri cercò di ricompattare le forze. Donne e operai continuarono
a riunirsi, anche durante il congresso, in assemblee separate. Sul banco
degli imputati, la dirigenza di Lc. La compagna Vichi di Torino intervenne
invitando gli operai «a mettersi in discussione a partire dal loro rapporto
sessuale e dalla loro vita», e la compagna Laura, anche lei di Torino, dichiarò
che «non è possibile nessuna alleanza in questo momento fra operai e donne».
Il congresso finì senza alcun ricompattamento. Il giornale «Lotta continua»
lo definì, il giorno dopo la chiusura, una «straordinaria esperienza politica
e umana». Il titolo del giornale del 6 novembre 1976 fu: Apriamo ovunque
le nostre contraddizioni. Portiamo ovunque la ricchezza del nostro congresso.
Ma il destino di Lotta continua era segnato. Pur senza alcun atto ufficiale,
il movimento si sciolse. Il comitato nazionale smise di riunirsi, gli organi
dirigenti non vennero rinnovati, le federazioni furono abbandonate a se
stesse. Rimase in vita il giornale, che continuò a uscire fino al 1982;
si videro ancora, nei cortei, gli striscioni con la scritta «Lotta continua».
Molti giovani continuarono a rivendicare la propria appartenenza a quel
movimento. Ma il movimento, inteso come organizzazione, non c'era più.
Molto si è discusso sul perché della fine di Lotta continua. Certo la struttura,
da partito, era rifiutata da gran parte della base. Certo la questione femminista
ebbe un peso rilevante. Ma il fatto che i vertici di Lc non fecero, dopo
Rimini, alcun tentativo di salvare il movimento, e anzi lo lasciarono deliberatamente
morire, dà credito alla versione secondo cui il vero motivo dell'autoscioglimento
di Lotta continua sta nell'inquietudine di molti militanti che «spingevano»
affinché si passasse decisamente alla lotta armata. Sofri, già da tempo
drasticamente risoluto nel condannare la scelta delle Brigate rosse, cercò
di frenare queste pulsioni, tentò di isolare coloro che chiedevano di trasformare
Lc in un gruppo clandestino terroristico. Ma non ci riuscì. E allora sciolse
il movimento. E' una versione, questa, mai ufficializzata, e anzi smentita
dai capi di Lc, che associano sempre la fine dei movimento alla «questione
femminista». A dimostrare però che la spinta verso la lotta armata c'era,
sta il fatto che gran parte dei componenti della nascente Prima linea veniva
da Lotta continua.
PROLIFERA IL PARTITO ARMATO
Non era un problema solo di Lotta continua. Il partito armato stava facendo
proseliti un po' dappertutto, ed ebbe la sua parte nello sfaldamento
dei vari movimenti. Pareva non avesse più senso, infatti, chiamarsi «gruppi
rivoluzionari», distinguendosi dai partiti della sinistra tradizionale,
e non fare la rivoluzione. Sembrava più logica una scelta netta: o di qua,
con il Pci, o di là, con le Brigate rosse. E infatti, in quello stesso 1976
in cui i gruppi si sciolsero, crebbero sia il Pci che le azioni dei terroristi
di sinistra.
Costoro avevano subito un duro colpo, all'inizio dell'anno, con
la cattura (a Milano) di Renato Curcio e Nadia Mantovani. Ma avevano in
quegli stessi mesi ingrossato le file, proprio attingendo nel grande mare
dei «delusi» dai gruppi tipo Lotta continua. Fra le azioni più importanti
compiute nel '76, una serie di attentati alle fabbriche (il più grave
fu forse l'incendio alla Fiat Mirafiori, 3 aprile, un miliardo di danni
di allora), che indussero gli operai di molte aziende a trascorrere la Pasqua
negli stabilimenti per organizzare dei «presidi volontari». E poi l'uccisione,
ad opera di militanti dell'Autonomia che stavano per costituire Prima
linea, del consigliere provinciale del Msi milanese Enrico Pedenovi (29
aprile); l'omicidio del procuratore generale di Genova Francesco Coco
e dei due carabinieri della scorta, compiuto dalle Brigate rosse a Genova
l'8 giugno; l'omicidio, il 1° settembre a Biella, del vicequestore
Francesco Cusano, anche lui vittima delle Br; l'agguato dei Nap al capo
del nucleo antiterrorismo del Lazio Alfonso Noce (a Roma, il 14 dicembre)
che finì in una sparatoria in cui rimasero uccisi l'agente Prisco Palumbo
e il terrorista Martino Zichitella; l'altra tragica sparatoria, il giorno
dopo a Sesto San Giovanni, in cui il brigatista Walter Alasia uccise il
vicequestore Vittorio Padovani e il maresciallo Sergio Bazzega, prima di
rimanere a sua volta fulminato dai poliziotti. Il partito armato -e in particolare
le Br, decisamente passate sotto la guida di Mario Moretti- stava preparando
il «salto di qualità» che lo avrebbe più volte portato, negli anni successivi,
a mettere in ginocchio lo Stato.
BERLINGUER E IL COMUNISMO MODERATO
Proprio mentre i gruppi rivoluzionari dichiaravano la bancarotta e le Br
diventavano sempre più efficienti, il Partito comunista si trovò vicino
alla presa del potere come mai era stato in precedenza, e come mai più accadde
in seguito. Le elezioni del 1975, oltre a far compiere al Pci un balzo di
6 punti e mezzo in percentuale (rispetto alle amministrative del 1970),
avevano portato i comunisti al governo di Lombardia, Piemonte e Liguria,
oltre che a quello di regioni già «rosse» come l'Emilia Romagna, la
Toscana e l'Umbria. Non solo: tutte le grandi città italiane, ad eccezione
di Palermo e Bari, erano passate sotto la guida di giunte di sinistra. A
favorire questo grande balzo del Pci aveva contribuito in modo sensibile
la linea politica del suo segretario, Enrico Berlinguer, che si era conquistato
la benevolenza di una discreta parte dei ceti borghesi, rinnegando esplicitamente
il socialismo reale e dichiarandosi disponibile a una collaborazione con
i cattolici. Già nell'ottobre del 1973, con un articolo su «Rinascita»,
Berlinguer aveva proposto il «compromesso storico» fra le due forze popolari
del Paese, quella della sinistra e quella appunto cattolica. Un'idea
maturata dopo il colpo di Stato che in Cile aveva spazzato via il governo
socialista di Salvador Allende: Berlinguer era convinto che il golpe era
stato favorito dalla mancata unità dei partiti democratici. L'articolo
su «Rinascita» si intitolava appunto Riflessioni sull'Italia dopo i
fatti del Cile. E a questa proposta di abbraccio con la Dc, Berlinguer fece
seguire, insieme con i segretari dei partiti comunisti francese e spagnolo,
la creazione dell'«eurocomunismo», ossia di una via occidentale al socialismo,
nettamente diversa dalle spietate dittature dell'Est. Il documento che
i segretari comunisti italiano e spagnolo firmarono insieme il 12 luglio
1975 era un'autentica apostasia del marxismo-leninismo.
Ma se in Italia parte della borghesia smise di associare il Pci allo spauracchio
dell'Armata Rossa, negli Stati Uniti l'eurocomunismo non venne accolto
bene. Anzi, fu ritenuto pericolosissimo e destabilizzante. Il 14 giugno
1976, a pochi giorni dalle elezioni politiche, il prestigioso settimanale
americano «Time» pubblicò in copertina una foto di Berlinguer e il significativo
titolo: Italia: la minaccia rossa. Berlinguer si diede subito da fare per
tranquillizzare gli italiani, e il giorno dopo rilasciò a Giampaolo Pansa,
sul «Corriere della Sera», un'intervista in cui si impegnava, in caso
di vittoria elettorale, a mantenere l'Italia all'interno della Nato.
«Mi sento più sicuro stando di qua» disse. Un'affermazione storica per
il segretario di un partito comunista.
La tradizionale avversione degli italiani al comunismo rimaneva tuttavia
molto forte, e se è vero che da un lato una certa parte della borghesia
credette che il Pci fosse ormai un partito socialdemocratico, dall'altra
si fece muro contro il «pericolo rosso». La Dc fu ritenuta da tutti la barriera
più efficace, anzi la sola barriera possibile: e anche grazie alla campagna
promossa dal laico Indro Montanelli («Queste non sono elezioni, sono un
referendum: turiamoci il naso e votiamo Dc» scrisse sul «Giornale»), alla
mobilitazione dei cattolici di Comunione e liberazione e al travaso di voti
dall'estrema destra (il Msi perse un 3 per cento che affluì, evidentemente,
alle liste democristiane), la Dc riuscì a contenere l'avanzata del Pci
e a restare saldamente il partito di maggioranza relativa. Nonostante la
sfida elettorale, subito dopo si aprì la stagione della collaborazione fra
democristiani e comunisti, che culminò nei vari governi della «non sfiducia»
e della «solidarietà nazionale»: esecutivi a guida Dc a cui il Pci diede
un appoggio esterno.
ARRIVA L'AUTONOMIA
Dopo la fine dei gruppi organizzati la sinistra, come abbiamo visto, si
era divisa in due: da una parte il Pci, ormai ben inserito nel potere grazie
alla conquista di gran parte delle amministrazioni locali e alla collaborazione
di governo con la Dc; dall'altra il partito armato. Ma la distanza fra
Pci e Br era troppo grande, e in mezzo restava comunque un vuoto. Un vuoto
in cui si infilò la cosiddetta autonomia, un'area molto complessa e
in realtà spesso contigua alle formazioni terroristiche vere e proprie.
Rispetto alle Br, l'autonomia non faceva un'esplicita scelta di
lotta armata, non era costretta alla clandestinità e poteva agire alla luce
del sole. Era però, come si diceva allora, «l'acqua dove nuotano i pesci»:
l'ambiente, insomma, dove il partito armato poteva reclutare i suoi
militanti e ottenere importanti appoggi e coperture. Secondo alcuni osservatori,
l'incubatrice dell'autonomia fu l'occupazione della Fiat Mirafiori
del 1973: sia perché sfuggì totalmente alla guida del sindacato e del Pci,
sia perché a gestirla furono, più che i tradizionali operai Fiat emigrati
dal Sud, giovani della «cintura» torinese protagonisti, cinque anni prima,
del Sessantotto nelle scuole. «Le urla senza senso, senza più slogan, senza
più minacce né promesse dei giovani operai con il fazzoletto rosso legato
intorno alla fronte, i primi indiani metropolitani, quelle urla annunciavano
che una nuova stagione si apriva per il movimento rivoluzionario in Italia.
Una fase senza ideologie progressiste né fiducia nel socialismo, senza alcuna
affezione per il sistema democratico, ma anche senza rispetto per i miti
della rivoluzione proletaria, mostrava le sue prospettive. Fu in questo
mutamento di scenario che prese forma il nuovo fenomeno politico-culturale
dell'autonomia operaia» hanno scritto Nanni Balestrini e Primo Moroni.
Un altro sintomo premonitore dello stile dell'autonomia furono forme
di protesta tipo l'«autoriduzione» e gli «espropri proletari». L'autoriduzione
nacque nell'agosto del 1974 su iniziativa di alcuni operai della Fiat
Rivalta che, rifiutandosi di pagare le nuove tariffe degli autobus, spedirono
alla società dei trasporti pubblici l'equivalente dei vecchi abbonamenti,
e continuarono a usare i mezzi pubblici senza fare il biglietto. Dai pullman
si passò all'autoriduzione delle bollette della luce e del telefono.
Questa pratica si estese poi alle altre città, diventando spesso un puro
pretesto per non pagare il biglietto: non solo sugli autobus, ma anche,
ad esempio, al cinema, dove gruppi di estremisti assistevano alle prime
visioni pagando 500 lire, e i gestori delle sale lasciavano correre temendo
ritorsioni dai danni ben più gravi. Così come gli «espropri proletari» ai
danni dei negozianti (qualcuno arrivò a chiamarli «riappropriazioni») furono
in realtà autentici furti, o addirittura rapine quando compiuti con minacce
e violenze.
Fare una mappa dell'area autonoma è ben più difficile che non fare quella
dei gruppi nati dopo il 1968. Anzi, è un'impresa impossibile, essendo
gli autonomi per loro stessa definizione sganciati da qualsiasi organizzazione.
Si possono tuttavia, schematizzando, ricordare tre filoni. Il primo è quello
cosiddetto «creativo», «spontaneo», alieno da ogni forma di gerarchia. Di
questo filone, gli elementi più rappresentativi furono gli «indiani metropolitani»,
giovani che si dipingevano il viso, appunto, come i pellerossa, e che rifiutavano,
fra le tante etichette, anche quella di essere «di sinistra». Il secondo
filone è quello delle teste d'uovo: intellettuali che teorizzarono il
nuovo messaggio, e che erano concentrati soprattutto all'Università
di Padova e in una serie di librerie nelle maggiori città. Il terzo filone
è quello che fa capo all'Autonomia operaia organizzata (con la A maiuscola;
quando scriviamo autonomia con l'iniziale minuscola intendiamo invece
tutta l'area che stava in mezzo fra Pci e Br; l'area, insomma, che
comprende tutti e tre i filoni di cui stiamo parlando). L'Autonomia
operaia organizzata conservò una linea leninista e militarista, esplicitamente
favorevole alla cultura della violenza e all'organizzazione della «battaglia
contro lo Stato». Questo terzo filone, strettamente legato al secondo, aveva
come leader ex esponenti di Potere operaio, quali il docente universitario
Toni Negri e Oreste Scalzone. A sua volta, l'Autonomia operaia organizzata
aveva varie sfumature al suo interno, che si esprimevano in un'incontrollabile
quantità di correnti, fra le quali ricordiamo i Comitati autonomi romani;
i Comitati comunisti rivoluzionari; le Assemblee autonome operaie; i Cps,
Collettivi politici studenteschi; i Collettivi autonomi, presenti nelle
grandi città (famoso quello di via dei Volsci a Roma).
L'area dell'autonomia produsse anche una miriade di giornali: alcuni
di fabbrica come «Senza Padroni» all'Alfa Romeo, «Lavoro Zero» a Porto
Marghera, «Mirafiori Rossa» a Torino; e altri di maggiore diffusione come
«Aut Aut», «Primo Maggio», «Rosso» e «Senza Tregua» a Milano, «Potere Operaio
per il Comunismo» (poi trasformato in «Autonomia») in Veneto, «Rivolta di
Classe» (poi diventato «I Volsci»), «Metropoli» e «Pre-print» a Roma. Quello
che ebbe maggiore fortuna fu «A/traverso», fatto a Bologna dal gruppo di
Francesco Berardi detto «Bifo», che nel '77 arriverà alle 20.000 copie.
Questa nascente area dell'autonomia si poneva in forte contrasto con
il Pci, cui rimproverava di essere ormai «sistema». La sinistra si spaccò
fra «garantiti» e «non garantiti», cioè fra coloro che nelle fabbriche potevano
contare sull'«ombrello» del Pci e i giovani che, viceversa, non trovavano
lavoro o perdevano quello che avevano appena trovato. Arrivato ormai nel
«palazzo», il Pci non volle, o non poté, cavalcare la protesta dei «non
garantiti», e anzi passò al pugno di ferro contro questi nuovi contestatori:
ad esempio, schierandosi a favore del rinnovo di quella legge Reale sull'ordine
pubblico contro la quale aveva invece nel 1975 votato «no».
Lo scontro fra autonomi e Pci esploderà drammaticamente nel 1977, e risulterà,
alla fine, ancora più grave e più violento di quello fra lo stesso Partito
comunista e i sessantottini.
XIV - IL SETTANTASETTE
Mentre sono ormai consuete, alle ricorrenze canoniche, le rievocazioni del
Sessantotto, quasi mai si ricorda il movimento del 1977.
Eppure, quello fu l'anno più burrascoso del decennio. Le occupazioni
delle scuole e delle università tornarono a un ritmo molto vicino a quello
del 1968; e, rispetto al 1968, le manifestazioni di piazza furono molto
più violente: basti pensare che, alla fine dell'anno, ci furono quarantamila
denunciati, quindicimila arrestati, quattromila condannati e decine di morti
e feriti. Autonomi e indiani metropolitani si sentivano tagliati fuori da
tutto e da tutti. Non solo dal Pci, che aveva coniato lo slogan «la classe
operaia si fa Stato» e che poteva offrire ai suoi iscritti la tutela del
posto di lavoro; ma anche dai sessantottini, visti come patetici reduci
che s'appuntavano sul petto medaglie di una rivoluzione mai fatta, e
che ormai beneficiavano a loro volta del nuovo sistema. All'Università
Statale di Milano il Movimento lavoratori per il socialismo, nato dalle
ceneri del Movimento studentesco, aveva acquisito posizioni importanti in
termini di potere ma anche di posti di lavoro, essendosi assicurata la gestione
della libreria e della cooperativa universitaria. E' solo un esempio,
per far capire come i «settantasettini» si sentissero dimenticati e traditi
non solo dallo Stato, ma anche da quella sinistra -Pci e gruppi del '68-
che aveva promesso il cambiamento e che si era invece limitata, ai loro
occhi, a guadagnare posizioni all'interno dell'odiato «regime».
Per questo la loro rabbia esplose violentissima.
LA CACCIATA DI LAMA
La recrudescenza degli scontri di piazza del '77 aveva avuto un prologo
il 7 dicembre del '76 a Milano, quando i Circoli proletari giovanili
e i Circoli giovanili (il lettore non pensi a un errore: erano proprio due
formazioni diverse) avevano boicottato la tradizionale «prima» della Scala.
Come otto anni prima, si voleva contestare lo spreco di denaro dell'alta
borghesia milanese, che in piena crisi occupazionale si permetteva centomila
lire -di allora- per un biglietto dello spettacolo di inizio stagione (questa
volta era di scena l'Otello), e chissà quant'altro denaro per le
spese di sartoria. Questa volta, però, i contestatori di Sant'Ambrogio
non si limitarono al tutto sommato innocuo lancio di uova di Capanna e compagni;
questa volta fu una guerriglia, che impegnò cinquemila fra poliziotti e
carabinieri, e che si concluse con 250 fermati, 30 arrestati, 21 feriti
e decine di tram e di automobili incendiate.
Nel '77 la tensione si spostò però soprattutto a Roma e a Bologna. A
Roma, il primo febbraio era stata occupata l'Università. Il pretesto
era una circolare del ministro della Pubblica Istruzione Franco Maria Malfatti,
democristiano, che vietava agli studenti universitari di sostenere più esami
nella stessa materia. Che di un pretesto si trattasse, lo dimostra il fatto
che l'occupazione continuò anche dopo il ritiro della circolare da parte
dello stesso Malfatti. Gli occupanti non erano però uniti. Pci, Democrazia
proletaria e Avanguardia operaia contestavano la linea dell'Autonomia,
protagonista di scontri in città con estremisti di destra e polizia. Ma
era proprio l'Autonomia ad avere in pugno la gestione dell'occupazione.
Il 9 febbraio, il movimento del '77 fece il suo esordio con un corteo,
per le strade di Roma, di trentamila studenti. «Il Manifesto» criticò («Gli
autonomi sono la faccia più negativa, e vecchia, della nuova sinistra»),
la Cgil e il Pci organizzarono un comizio di Luciano Lama, per il giorno
17, all'interno dell'Università, nel tentativo di riprendere in
mano la situazione. Ma Lama, il 17, non riuscì praticamente a parlare. Gli
autonomi glielo impedirono, ingaggiando una furiosa battaglia con il servizio
d'ordine del Pci, al grido «Via, via, la nuova polizia». Alla fine di
scontri violentissimi, con decine e decine di feriti, i comunisti dovettero
abbandonare l'Università. La manovra del Pci era fallita, gli autonomi
si erano rivelati «ingestibili»: per i vertici di Botteghe Oscure, erano
«i nuovi squadristi». La cacciata di Lama dall'Università aveva così
dato vigore al movimento degli autonomi, che alla fine di febbraio si era
già diffuso in molte città italiane, in particolare a Padova, dove l'Università
era stata occupata. Il 5 marzo il movimento diede una prova di forza scatenando
per le strade di Roma quattro ore di guerriglia, per protesta contro la
condanna di Fabrizio Panzieri per l'omicidio dello studente missino
Mikis Mantakas. I raid degli estremisti furono coordinati da un'emittente
privata, Radio Città Futura, che inaugurò così una strategia destinata a
più d'una replica nel corso dell'anno. Grazie alla radio, gli autonomi
sapevano dov'era la polizia, dove potevano raggiungere i compagni, dove
conveniva organizzare barricate e mettere fuori uso i semafori.
GUERRIGLIA A BOLOGNA
E guerriglia ancora più grave fu quella scoppiata l'11 marzo a Bologna.
All'istituto di anatomia dell'Università era in programma un'assemblea
dei cattolici di Comunione e liberazione. Fatto assolutamente intollerabile,
per un movimento che si riempiva la bocca con la parola «democrazia» ma
che non ammetteva altre manifestazioni di pensiero al di fuori della propria.
E infatti i ciellini furono assediati e costretti a barricarsi all'interno
dell'istituto. Ancora oggi circola la versione secondo cui gli incidenti
sarebbero scoppiati perché i ciellini avrebbero malmenato alcuni studenti
del movimento che si erano semplicemente presentati all'ingresso dell'aula
dov'era in corso l'assemblea. Ma per male che si possa o si voglia
dire dei ciellini, non s'è mai sentito di pestaggi da loro compiuti.
Valga il volantino diffuso lo stesso pomeriggio dal Pci e dalla Fgci, che
parlava di «un'inammissibile decisione di un gruppo della cosiddetta
Autonomia di impedire l'assemblea di CL». E comunque la realtà fu quella:
i ciellini barricati in un'aula, e fuori gli studenti del movimento,
armati e ben più numerosi, a sferrare l'attacco. Inevitabile l'intervento
dei carabinieri, contro i quali gli autonomi lanciarono parecchie molotov,
a dimostrazione del fatto che all'Università non erano giunti impreparati.
La battaglia si allargò, e alla fine negli scontri rimase ucciso il giovane
di Lotta continua Francesco Lorusso. Cominciò così il «sacco» del centro
di Bologna. Gli autonomi, che oltre alle molotov avevano già le famigerate
pistole «P38», ingaggiarono sparatorie ovunque; distrussero decine di negozi,
innalzarono barricate, appiccarono incendi. Fu occupata la stazione ferroviaria;
furono assaltati due commissariati di polizia, la redazione del «Resto del
Carlino» e la sede provinciale della Dc; fu devastata la libreria di CL
«Terra Promessa». I guerriglieri si sfamarono, ed evidentemente non male,
al «Cantunzein», uno dei più noti ristoranti della città, le cui riserve
furono ripulite con un «esproprio» proletario. Anche qui gli incidenti furono
coordinati via etere: e la magistratura ordinò l'arresto di Francesco
Berardi detto «Bifo», il ventottenne insegnante di lettere animatore di
Radio Alice. Era stato lui, attraverso i microfoni, a guidare assalti e
distruzioni, sosteneva la procura della Repubblica. Radio Alice venne chiusa,
ma Bifo riuscì a sfuggire all'arresto e a rifugiarsi a Parigi.
Il saccheggio di Bologna durò tre giorni, e per ristabilire l'ordine
dovettero intervenire -cosa mai successa neppure nel '68- i mezzi blindati,
con tremila uomini a presidiare il centro. Alla fine di quei tre giorni
di guerra si contarono 131 arresti. Fu uno smacco storico per il Pci, che
vantava la «sua» Bologna come fiore all'occhiello, come dimostrazione
di città comunista, efficiente, ordinata e felice. Il 12 marzo, giorno successivo
alla morte di Lorusso, anche Roma divenne un campo di battaglia: gli autonomi
saccheggiarono due armerie e partirono all'assalto della città. Attaccarono
l'ambasciata cilena in Vaticano, la sede del quotidiano democristiano
«Il Popolo», la caserma dei carabinieri di piazza del Popolo, la sede della
Gulf, una concessionaria della Fiat, alcune banche. Centinaia di vetrine
di negozi vennero abbattute. Sparatorie e incendi si protrassero fino a
notte. E, nello stesso 12 marzo, incidenti gravi scoppiarono anche a Napoli,
Padova, Firenze, Palermo e Milano, dove a colpi di P38 furono mandate in
frantumi le vetrate dell'Assolombarda, la sede regionale degli industriali.
UN PROBLEMA PER LA SINISTRA
Il clima era tale che il 16 marzo l'Università di Roma, quando riaprì,
restò presidiata dalla polizia. L'attività poteva comunque riprendere
regolarmente. Ma gli studenti del movimento vollero imporre le loro condizioni:
immediato allontanamento degli agenti, università aperta dalle 8 alle 22,
libera scelta dell'argomento da portare all'esame e 27 trentesimi
come voto minimo garantito. Di fronte allo scontato «no» che fu opposto
a queste richieste, gli autonomi rioccuparono l'Università. Il 21 aprile
la polizia intervenne e riuscì a sgomberarla, in mattinata, senza particolari
incidenti. Nel pomeriggio, però, gli autonomi passarono al contrattacco.
Assaltarono l'Università armati di molotov e di P38, uccisero un agente
di polizia -Settimio Passamonti, ventitré anni- e ne ferirono gravemente
altri due. Il giorno dopo, vista l'eccezionale gravità della situazione
dell'ordine pubblico, il governo proibì ogni manifestazione pubblica,
a Roma, per un mese. Incuranti del divieto, i radicali organizzarono proprio
a Roma, per il 12 maggio, una manifestazione pubblica per il terzo anniversario
della vittoria nel referendum sul divorzio. La polizia intervenne e furono
altri scontri, fino a tarda sera: e a cadere, uccisa da un colpo di pistola
sparato da un agente, questa volta fu una dimostrante, Giorgiana Masi, vent'anni,
simpatizzante radicale.
Due giorni dopo a Milano, durante un corteo di protesta per l'arresto
di due avvocati di Soccorso rosso, gli autonomi uccisero in via De Amicis
il brigadiere di polizia Antonino Custrà. Fu in quell'occasione che
un dilettante scattò la fotografia divenuta l'immagine-simbolo degli
anni di piombo: un giovane autonomo, con il volto coperto, sparava impugnando
la pistola con entrambe le mani. L'Autonomia era ormai un problema grave
anche per i gruppi alla sinistra del Pci. «Di Autonomia operaia e non solo
delle sue violenze ultime occorre liberarsi» scrisse Rossana Rossanda sul
«Manifesto» del 17 maggio. E Luca Cafiero, segretario nazionale del Mls:
«Noi toglieremo le pistole agli autonomi e gliele faremo ingoiare».
AL BAR SI MUORE
Che il 1977 sia stato un anno di guerra lo testimoniano, oltre al numero
degli scontri di piazza, anche le azioni delle Brigate rosse e delle altre
formazioni clandestine, che in quell'anno si erano fatte ancor più efficienti
e spietate. Il 28 aprile, a Torino, le Br uccisero il presidente dell'Ordine
degli avvocati Fulvio Croce: un omicidio-avvertimento nel più classico stile
mafioso, perché Croce avrebbe dovuto designare i difensori d'ufficio
al processo contro Curcio e altri terroristi; si volle in questo modo intimidire
avvocati e giudici popolari, e infatti questi ultimi, il 31 maggio, rifiutarono
l'incarico, provocando il rinvio del processo. Anche i giornalisti finirono
nel mirino delle Br. Nel mese di giugno ne furono feriti alle gambe dodici,
fra cui Indro Montanelli, il direttore del Tg 1 Emilio Rossi e il vicedirettore
del «Secolo XIX» di Genova Vittorio Bruno. E il 16 novembre, a Torino, ancora
le Br uccisero il vicedirettore della «Stampa» Carlo Casalegno, definito
un «servo dello Stato». Quanto alle fabbriche, i dirigenti e i capireparto
«gambizzati» in quell'anno furono decine. Ma per dare un'idea di
quanto questa guerra fosse una minaccia costante per tutti, si pensi che
il pericolo poteva raggiungere chiunque e ovunque. Come dimostrano la morte
di Roberto Crescenzio e i sette feriti del bar di largo Porto di Classe.
L'assalto al bar di largo Porto di Classe a Milano, zona Città Studi,
fu opera di commando di Avanguardia operaia e dei Caf, i comitati antifascisti.
Scattò il 31 marzo 1976, alle sei di sera. Il bar era ritenuto un covo di
«neri». Quella sera, però, di fascisti all'interno del locale non ce
n'era neanche uno. Gli estremisti -in buona parte erano gli stessi che
un anno prima avevano ucciso Ramelli- incendiarono il bar lanciando bottiglie
molotov, e sprangarono gli avventori in fuga. In sette rimasero feriti in
modo grave, e tre di loro portano ancora oggi i segni del pestaggio. Un
atto tanto vile da provocare, nei giorni seguenti, una discussione interna
che fu uno dei primi sintomi della crisi di Avanguardia operaia. Massimo
Bogni, uno dei responsabili dell'assalto, in seguito convertitosi al
cattolicesimo e sinceramente pentito (si presentò spontaneamente al giudice
istruttore), ha raccontato al processo, celebrato nell'87: «Emulavamo
gli eroi, Garibaldi e Guevara, e poi eravamo vigliacchi».
Anche Roberto Crescenzio non era un fascista. Aveva ventidue anni, ed era
un perito chimico disoccupato. Ebbe la tragica sfortuna di trovarsi, il
l° ottobre 1977, al bar l'«Angelo azzurro» di Torino. Quel giorno Torino,
come Roma e altre città italiane, fu sconvolta da nuovi, furibondi scontri
fra la polizia e i giovani di estrema sinistra, inferociti per l'uccisione
avvenuta il giorno prima a Roma, ad opera di neofascisti, del militante
di Lotta continua Walter Rossi. A un certo punto il corteo passò vicino
all'«Angelo azzurro» e qualcuno riferì di aver visto, al liceo Gioberti,
una scritta secondo cui quel bar era un punto di ritrovo dei fascisti. Tanto
bastò per scatenare l'attacco.
Il locale fu incendiato e gli avventori costretti a fuggire all'esterno.
Un bimbo di tre anni e la sua baby-sitter sedicenne rimasero semiasfissiati
e furono portati in ospedale. Roberto Crescenzio restò intrappolato nella
toilette. Quando, con le ultime energie, riuscì a spalancare l'uscio,
ad attraversare la sala del bar, a sfondare una vetrata e a gettarsi sull'asfalto,
all'aperto, il suo corpo era ormai devastato dal fuoco. Ed era troppo
tardi.
Anche in questo caso la morte di un innocente (ammesso che altri possano
essere considerati colpevoli) provocò una crisi all'interno del movimento.
Proprio pochi giorni dopo il rogo dell'«Angelo azzurro» in corso Valdocco
qualcuno tracciò su un muro una grande scritta: «E' un momentaccio».
Un piccolo, ma non insignificante indizio di un travaglio che i più sensibili
cominciavano ad avvertire, e che avrebbe portato, di lì a poco, a un ripensamento
da parte di tutti. In fondo non solo la gente comune, ma anche la maggioranza
dei giovani che andavano in corteo cominciava a essere stanca di tanto sangue
e di tanti lutti.
GLI INTELLETTUALI E LA REPRESSIONE
Ma, contrariamente alla gente comune, gli intellettuali -o almeno certi
intellettuali- rimanevano convinti che tutta quella violenza fosse frutto
della repressione organizzata da un sistema che andava sempre più assumendo
la sostanza di una nuova dittatura. Così pensavano, ad esempio, Nanni Balestrini
ed Elvio Facchinelli, i quali chiesero, polemicamente, che un padiglione
della Biennale di Venezia venisse riservato al dissenso in Italia. E altri
uomini di cultura, fra cui Leonardo Sciascia, si mantennero in una posizione
che il comunista Giorgio Amendola, con un duro articolo sull'«Unità»,
definì ambigua. Ma fu da Parigi, dove l'intellighenzia italiana cerca
solitamente la propria consacrazione, che venne l'attacco più duro contro
il nuovo «regime» Dc-Pci.
L'8 luglio, proprio a Parigi, era stato arrestato Bifo, l'animatore
di Radio Alice e delle riviste «A/traverso» e «Zut», accusato, come abbiamo
visto, di avere incitato e promosso, via radio, gli incidenti dell'11
marzo a Bologna («Ammazzate, ammazzate, abbiamo bisogno di cadaveri», una
delle frasi che gli furono contestate). A Parigi, dov'era scappato per
sottrarsi al mandato di cattura firmato dal tribunale di Bologna, Bifo aveva
trovato alloggio nientemeno che a casa del professor Felix Guattari, lo
psicanalista direttore della rivista «Recherches» e autore, con il filosofo
Gilles Deleuze, dell'Anti-Edipo.
L'8 luglio, come detto, fu arrestato. Poco importava che solo tre giorni
dopo le autorità francesi l'avessero rimesso in libertà, negando l'estradizione
alla giustizia italiana e imponendo all'imputato l'unico vincolo
della firma da apporre, ogni quindici giorni, su un registro al palazzo
della prefettura di polizia di Parigi. Il mandato di cattura contro Bifo
convinse un gruppo di intellettuali francesi a inviare a Belgrado, dov'era
in corso una conferenza Est-Ovest, un «appello contro la repressione in
Italia». «Noi vogliamo attirare l'attenzione» era scritto nell'appello
«sui gravi avvenimenti che si svolgono attualmente in Italia e, più particolarmente,
sulla repressione che si sta abbattendo sui militanti operai e sui dissidenti
intellettuali in lotta contro il compromesso storico. «In queste condizioni»
proseguiva l'appello «che vuol dire oggi, in Italia, "compromesso
storico"? Il "socialismo dal volto umano" ha, negli ultimi
mesi, svelato il suo vero aspetto: da un lato sviluppo di un sistema di
controllo repressivo su una classe operaia e un proletariato giovanile che
rifiutano di pagare il prezzo della crisi; dall'altro, progetto di spartizione
dello Stato con la Dc (banche ed esercito alla Dc; polizia, controllo sociale
e territoriale al Pci) per mezzo di un reale partito "unico";
è contro questo stato di fatto che si sono ribellati in questi ultimi mesi
i giovani proletari e i dissidenti intellettuali. (...)
«I sottoscritti» terminava poi l'appello «esigono la liberazione immediata
di tutti i militanti arrestati, la fine della persecuzione e della campagna
di diffamazione contro il movimento e la sua attività culturale proclamando
la loro solidarietà con tutti i dissidenti attualmente sotto inchiesta.»
Seguivano le firme di Jean-Paul Sartre, Michel Foucault, Felix Guattari,
Gilles Deleuze, Roland Barthes, Philippe Sollers, François Chatelet, Claude
Mauriac, Pierre Clementi, Maria Antonietta Macciocchi e in seguito anche
Dario Fo e altre personalità della cultura e dello spettacolo. L'appello
fu commentato molto duramente in Italia. Il «Corriere della Sera» osservò:
«Immaginare [alla Biennale di Venezia, n.d.a.] un padiglione del dissenso
italiano, magari a due passi da quello sovietico, è assurdo. Mandar petizioni
alla conferenza di Belgrado, dove il problema maggiore è quello di ridurre
il numero degli internati negli asili psichiatrici e di impedire che l'Urss
metta a tacere una volta per sempre la voce di Sacharov, rivela una miopia
libresca che non giova a chi se ne fa promotore». Ma anche i giornali comunisti,
«l'Unità» e «Paese Sera», furono durissimi; e pure «il Manifesto» ebbe
parole severe. Il fatto è che il Pci, entrando nella gestione dello Stato,
aveva dovuto per forza di cose abbassare la voce della protesta, moderarne
i toni, distinguere fra ciò che era possibile conquistare subito e ciò che
andava rinviato e atteso con pazienza. E alla sua sinistra s'era creato
lo spazio per rivendicazioni libertarie e utopistiche.
IL CONVEGNO DI BOLOGNA
Proprio Guattari e gli altri intellettuali, comunque, erano riusciti a dare
il la a quello che si rivelò poi l'ultimo grande avvenimento della stagione
della contestazione: il convegno di Bologna sulla repressione. Il 23, 24
e 25 settembre nel capoluogo emiliano calarono chi dice cento, chi dice
cinquanta, chi dice venticinquemila giovani provenienti da tutta Italia
e in piccola parte anche dall'estero. C'erano ovviamente gli autonomi
e gli indiani metropolitani; ma anche ciò che restava dei gruppi organizzati.
E non mancavano -lo accerteranno poi diverse inchieste giudiziarie- «osservatori»
delle Br e di altre formazioni, venuti a caccia di nuove reclute. Il Pci
accettò la sfida: «Bologna è la città più libera del mondo» disse il sindaco
comunista Renato Zangheri. Ma è ovvio che la paura di una replica della
guerriglia di marzo era enorme. Proprio in quei giorni, fra l'altro,
Berlinguer gettò benzina sul fuoco definendo gli autonomi «poveri untorelli».
Bologna fu invasa anche da polizia e carabinieri. Ma non ci fu, contrariamente
ai timori, alcun incidente. I tre giorni trascorsero fra bivacchi e spettacoli
nelle piazze e le assemblee al Palazzetto dello Sport. Ecco, le uniche violenze
furono proprio lì dentro, al Palazzetto dello Sport, dove si trovarono a
convivere decine di posizioni diverse, a volte radicalmente diverse: dall'ideologia
ancora impregnata di marxismo-leninismo dei vecchi gruppi alla tematica
del «rifiuto del lavoro» degli autonomi e degli indiani metropolitani. Divergenze
che si manifestarono spesso con botte da orbi, a colpi di sedia in testa,
per strapparsi il microfono. Alla fine, l'Autonomia operaia organizzata
riuscì a prendere in mano il controllo dell'assemblea, dalla quale furono
espulsi, nell'ordine, prima il Mls, poi Avanguardia operaia e infine
Lotta continua.
Tutti quanti, poi, si ritrovarono insieme nel grande corteo (trentacinquemila
persone, secondo la stima della questura) che il giorno 25 concluse il convegno.
C'erano tutti, e quelli dei gruppi tentarono, in realtà senza riuscirci
troppo, di tenere gli autonomi al centro del corteo, per controllarli meglio.
Comunque, non ci furono incidenti. E gli stessi slogan urlati in quell'occasione
mostrarono l'eterogeneità del corteo. C'erano quelli che agitavano
le mani con le dita a pistola e gridavano «Con la P38 / ti spunta un foro
in bocca», «Lotta armata / per la rivoluzione», «Per il comunismo / per
la rivoluzione», «Carabiniere, basco nero / il tuo posto è al cimitero».
Quelli che cercavano la satira: «Carabiniere levati il cappello / e fumati
con noi uno spinello». Le femministe che pensavano soprattutto alle proprie
rivendicazioni: «Nelle case e nelle galere / siamo sempre prigioniere».
Gli omosessuali che avevano trovato la formula per vincere la rivoluzione:
«Coito anale / abbatte il capitale».
Nonostante la straordinaria massa numerica, il convegno di Bologna non rappresentò
una vittoria del movimento, ma una sconfitta. L'ultima sconfitta, quella
decisiva. Il movimento aveva radunato centinaia di voci di rifiuto, di dissenso,
di rivolta, ma non era riuscito a coagularle. Era emersa, in modo ancor
più netto che in passato, l'impossibilità di un'azione unitaria.
I nouveaux philosophes francesi che erano venuti a cavalcare la rivolta
fecero la misera figura degli opportunisti, e non trovarono alcun seguito
fra quei giovani che avevano cercato di blandire. Anche l'intervento
che Bifo aveva inviato dalla sua latitanza di Parigi, e che fu letto durante
l'assemblea al Palasport, venne sonoramente fischiato. Privo di una
guida, privo di unità ma ancor più privo di fondamenta veramente solide,
il movimento si sciolse. E il Sessantotto finì veramente lì, quel 25 settembre
1977.
EPILOGO
S'è detto che, contrariamente ai moti del 1968, quelli del 1977 raramente
hanno diritto di cittadinanza nelle rievocazioni e negli stessi libri di
storia. Forse, la differenza di attenzione è motivata dal fatto che il primo
fu un fenomeno mondiale, e il secondo quasi esclusivamente italiano, e come
tale meno importante. Ma forse c'è anche, da parte di molti, una sorta
di tentativo di rimozione. Il movimento del 1977 non ha goduto -a parte
le snobistiche prese di posizione di certi intellettuali- della benevolenza
e degli ammiccamenti che erano stati elargiti, nove anni prima, ai sessantottini;
i suoi protagonisti erano dei «veri» proletari, e non figli della borghesia
come furono, nella stragrande maggioranza, gli universitari del '68;
per certi versi la protesta del '77 era, come vedremo, più giustificata;
e a cavalcarla non c'era più, non poteva più esserci quel Pci ormai
entrato nel Palazzo, e ben più risoluto nel chiedere le maniere forti contro
i «sediziosi» di quanto non fossero stati, in precedenza, i vari presidenti
del Consiglio e ministri democristiani.
Gli autonomi e gli indiani metropolitani del 1977 vengono rimossi anche
perché la loro devastante violenza, in molti casi palesemente complice del
peggiore brigatismo, è un fantasma ingombrante per una sinistra che prima
ha predicato la lotta di classe e la rivoluzione (chi stando nel partito,
chi stando nei salotti) e poi ha detto che la rivoluzione non andava fatta
più (chi perché ormai arrivato dentro il sistema, chi perché ancora ben
inserito nei salotti). Per buona parte della sinistra, gli autonomi e gli
indiani metropolitani sono quindi figli, o nipoti, con cui non si vuole
avere nulla a che fare, e che è meglio disconoscere. E non è un caso che
si tenti sempre di scindere i due fenomeni, e dire che il Sessantotto è
una cosa, il Settantasette un'altra. Pur nelle loro differenze, le due
proteste sono invece strettamente legate fra loro, anzi sono l'inizio
e la fine del medesimo avvenimento. Come ha scritto Toni Negri: "In
Italia il '77 è la seconda fase del '68. (...). Il '77 è l'ultima
data dentro la quale questo processo [quello iniziato nel '68, n.d.a.]
viene complendosi, un processo perciò di rottura ma soprattutto di continuità,
work in progress".
Del Sessantotto, i «settantasettini» hanno pagato gli errori più evidenti:
se Capanna e soci avevano trovato una scuola vecchia e imbalsamata, loro
ne hanno trovata una inesistente, trasformata grazie alla logica tutta sessantottina
del «sei politico» e degli esami di gruppo in una fabbrica di disoccupati.
Posti di fronte a una crisi economica più grave di quella di nove anni prima,
i giovani proletari del 1977 faticavano a trovare lavoro, e si accorgevano
che nemmeno impegnandosi a fondo in un'università ormai a pezzi potevano
sperare di emanciparsi. Ma c'è un altro motivo -più profondo, anche
se forse meno evidente- per cui i giovani del 1977, ne siano o no consapevoli,
sono stati i veri «fregati» dal Sessantotto. Del Sessantotto hanno infatti
ereditato la sconfitta più grave, e cioè il nulla con cui si cercò di colmare
un vuoto esistanziale. A una generazione che non si accontentava degli idoli
offerti dal mondo borghese -una «posizione», una bella macchina, un'amante-
il Sessantotto ha offerto altri idoli, non meno fallaci.
Il movimento del 1977 cercò, pateticamente, di accreditarsi come gioioso,
ironico, creativo, traboccante di allegria, e si inventò la retorica delle
«feste» quale arma contro l'alienazione. In realtà il giovane del '77
-nonostante la regia delle solite teste d'uovo marxiste-leniniste- nei
cortei non urlava contro lo Stato o contro il capitalismo, e neanche contro
il compromesso storico, ma, più tragicamente, contro la sua noia e la sua
disperazione. Si leggano le molte lettere giunte in quell'anno a quella
specie di confessionale pubblico che era diventato il quotidiano «Lotta
continua». In una di queste lettere, pubblicata il 29 ottobre 1977 e firmata
«Antonella, una quattordicenne stanca di vivere», è scritto: «Sono arrivata
al punto di non poter più uscire da questa tremenda sensazione quale è la
solitudine. Questo mi ha fatto pensare al suicidio, ma forse ho paura di
aver paura di morire. Personalmente lotterò finché questa mia lunga vita
non si fermerà. Saluti rivoluzionari».
Ha scritto allora Mino Monicelli (L'ultrasinistra in Italia): «La nuova
etica purtroppo non è nata; e poiché quella vecchia, dello studio, del lavoro,
della famiglia, della militanza è sempre più rifiutata, passa solo l'etica
della morte. Siccome 'la vita non ha alcun valore e non me ne frega
niente' si è disposti anche a rischiarla. Questa è l'elaborazione
teorica che oggi esprimono settori importanti del movimento: una specie
di etica del negativo che coinvolge, in modo più o meno serio, molti giovani,
dalla base della Fgci all'Autonomia». Non è un caso se i giovani eroinomani
siano passati, in Italia, dai diecimila del 1976 ai settantamila del 1978.
Non è un caso se fu proprio in quel 1977 che nacquero, prima in Inghilterra
e poi un pò ovunque, quei movimenti dei «punk», dei «dark», degli «skin»
che (fra l'altro con una singolare liturgia funerea, evidentissima già
nell'abbigliamento e nei simboli) incarnano il disagio sprofondando
nel più totale nichilismo.
Passato il convegno sulla repressione di Bologna, il movimento del '77
si dissolverà. Dopo di che, resterà solo la lotta armata di un manipolo
di uomini che continueranno a credere nella rivoluzione. Ma nelle strade
e nelle piazze, più niente. E i ventenni del 1968 saranno i quarantenni
che gestiranno, negli anni Ottanta, la più spietatamente egoistica ed edonistica
delle società, quella del «reaganismo» e dello «yuppismo» rampante. Una
contraddizione? Del resto, l'eredità del Sessantotto pare tutta contraddire
le attese di chi fu protagonista di quella protesta. Il Sessantotto -parliamo
del nocciolo, dell'essenza dell'ideologia del Sessantotto- voleva
spazzare via il capitalismo ed edificare un uomo nuovo e una società giusta
ed egualitaria. Voleva, con la rivoluzione sessuale, mettere finalmente
sullo stesso piano i rapporti fra uomo e donna. Voleva, rivendicando il
diritto di ciascuno di fare ciò che vuole purché non danneggi gli altri,
portare finalmente alla felicità una gioventù che si sentiva sgomenta di
fronte alla prospettiva di una vita borghese. Ma per ottenere tutto questo
ha sbaraccato quei residui valori tradizionali che, forse, erano proprio
l'ultimo freno allo scatenamento della parte peggiore del capitalismo.
La messa in liquidazione di una certa religiosità, di un prevalere del trascendente
sul materiale e, non ultimo, di un certo senso della parsimonia e della
rinuncia, hanno consentito l'esplosione del consumismo più sfrenato.
Il crollo di quelli che venivano chiamati «tabù sessuali» ha portato a un'espansione
senza precedenti del mercato della pornografia e a un'impennata dei
reati di stupro, cioè a quanto di meno rispettoso della dignità della donna.
La caduta di quel saggio senso di autodifesa che veniva considerato una
barriera contro il proprio piacere, ha indotto una generazione disperatamente
alla ricerca della felicità a cadere nella schiavitù della droga.
Sembra insomma che ogni speranza del Sessantotto si sia rovesciata nel suo
contrario. Ma questo, a ben pensarci, è stato il destino di tutti i tentativi
dell'uomo di stabilire lui cosa sia il bene e cosa sia il male, e di
costruire in terra il suo paradiso. Tentativi di cui la storia è piena,
e che sono sempre, misteriosamente ma implacabilmente, falliti.
Da Storia del Sessantotto, Rizzoli, Milano 1994