ALCUNI GIUDIZI SUL NUOVO TERRENO DI LOTTA


Abbiamo dedicato ampio spazio alla cronaca dei fatti e siamo partiti da lontano nel considerarli e mettere in evidenza quegli aspetti positivi di programma che sono emersi nell'ultimo anno di lotte, perché ci sembra che poco spazio gli sia stato dato nelle assemblee fino a qui tenute dagli studenti che pur ne sono stati i maggiori protagonisti.
Autoriduzioni, ronde proletarie e operaie, occupazioni di case hanno sottolineato, nei mille rivoli in cui si è sfrangiata la lotta, il carattere nuovo dell'illegalità di massa e della componente interna a questa esperienza.
Hanno dimostrato intanto che la lotta non era solo di studenti, ma di una componente proletaria che ingrossa il mercato delle braccia, disoccupati, sottoccupati, e che vive il suo bisogno in termini di reddito.
Non c'è stata la capacità di adeguare la discussione su questi problemi che si evidenziavano e si è finiti molte volte per coglierne un singolo aspetto ed esaltarlo, senza capirne gli elementi di unità e potenzialità che fin dall'inizio questo movimento poteva esprimere.
Ci sentiamo da questo punto di vista interni e vogliamo esprimerci con un nostro punto di vista in un momento in cui sembra prevalere una teoria dell'affossamento di queste esperienze, non capendone gli elementi di continuità e di saldatura che possono avere con lo scontro aperto nelle fabbriche intorno alla tematica del salario e dell'orario.

Diciamo no ai teorici della sconfitta
Vogliamo intervenire perché continuamente nelle assemblee si parla del «rapporto» con gli operai, e ancora non è emerso su cosa si voglia avere questo rapporto e con chi.
Non è solo un problema di scelta di funzionalità (con tutti davanti ai cancelli e con la Flm all'università), ma una precisa linea politica che contraddistingue alcune forze. Non a caso nelle assemblee si sono visti riaffiorare sciacalli e corvi, gli stessi che sino all'inizio delle autoriduzioni sputavano merda sulle cose che succedevano e ora, nel momento della repressione, si pongono come gestori del riflusso, cercando continuamente di spostare il tiro, di democratizzare il terreno di lotta, di agganciarlo al carrettone sindacale, per riconquistarsi quello spazio che le lotte dentro e fuori la fabbrica gli avevano sempre negato, individuandoli come codisti e reggicoda del Pci; la velleità di rappresentare la nuova area riformista. Il peso sociale e complessivo della crisi ha indotto modificazioni profonde alla struttura del mercato del lavoro e alla composizione operaia. Non è possibile oggi riconoscere una figura egemone dal punto di vista produttivo, e i richiami alla classe operaia rischiano di essere richiami a una categoria sociologica, a una tematica fabbrichista, se non sono corredati dalla consapevolezza che la «centralità operaia» va vista in termini di programma che riunifica una serie di bisogni intorno alla prospettiva di potere, che unifica sul territorio la figura nuova di operaio sociale.
Questo programma è interno ai comportamenti di resistenza diffusa, di rifiuto della logica sindacale delle lotte che non è e non può essere patrimonio di tutti gli operai di fabbrica.
È aperto dentro la fabbrica uno spaccato profondo, anche se non ancora esplicito a Bologna, che contrappone, per schematizzare, - l'operaio del 3° livello a quello del 5° e 5° s., cioè coloro che non si sentono più garantiti sia del reddito che del posto di lavoro, e coloro che grazie ai privilegi di salario, alla figura professionale che hanno assunto dentro alla produzione, alla loro affezione al lavoro (più alta percentuale di straordinari), per la sicurezza che hanno ottenuto (casa di proprietà, lavoretti extra all'orario di lavoro ecc.) hanno tutto l'interesse a mantenere le cose così come stanno, sono disposti a fare sacrifici, perché sanno di essere privilegiati rispetto all'operaio comune. È questi ultimi che il sindacato rappresenta e ne tutela gli interessi Proprio gli ultimi avvenimenti hanno innescato dentro le fabbriche la discussione contrapponendo queste due componenti.
E ci siamo anche accorti che quando la discussione si bloccava sulla vetrina rotta, solo la capacità di gestire interamente questo terreno (mettendo anche in evidenza il carattere di «deviazione» che in alcuni casi questa pratica reca con sé, che non può essere assunta come elemento propositivo, ma deve essere guidato da una capacità politica di fare delle scelte non indiscriminate sugli obiettivi, anche se certo non presentano di per sé elemento di estraneità alla presenza di massa sulla piazza) ha fatto chiarezza non sui singoli fatti ma sul significato politico e la portata di questa lotta, e/o su chi (per ideologia) si è cristallizzato sulle sue posizioni.
Se oggi questo spaccato significa possibilità di far emergere un punto di vista comunista la cosa che dobbiamo dire è No al mostro sacro dell'unità di classe come unanimismo sindacale, sì a una battaglia sul programma che evidenzi il fronte dell'occupazione da quello dell'accettazione della tematica dei sacrifici e della gestione della crisi. Crediamo infatti che solo se si è all'attacco sul programma si riesce a superare l'ultima trincea che il controllo revisionista ha tessuto intorno alle lotte. Mai come in questi mesi l'apporto del Pci si è rappresentato come corpo di polizia sociale da usare contro l'area della ribellione, mai come ora ha però dimostrato la debolezza della sua rete di controllo, quando cominciano a saltare alcuni equilibri economici, quando l'area del consenso si incrina (lotte dei dipendenti pubblici), e il movimento si esprime apertamente contro ogni logica di recupero in illegalità di massa. Al di là del ruolo poliziesco del Pci, tramite i suoi organi di stampa che costruiscono montature per scagionare gli assassini di Stato, oltre alla rete di spie infiltrata nel movimento che ha stretto rapporti con la questura, oltre al servizio d'ordine contro gli estremisti, si sta facendo sempre più chiaro cosa sia il «governo delle astensioni». Quando le lotte escono dagli argini del controllo «sindacale», allora il Pci si presenta in quanto partito operaio a fare da tampone con una presenza terroristica e paternalistica sulla piazza (come a Roma), ma quando questo non basta allora intervengono le autoblindo per decretare lo stato d'assedio. Così Zangheri, sindaco di Bologna, consegna la città in mano all'esercito quando vede che non bastano gli appelli alle forze democratiche. E oggi la polizia non si accontenta di una pura opera di contenimento e di repressione, ma prende lo spunto per operare una vera e propria azione antiguerriglia a cui da tanto tempo squadre speciali e Sid si sono dedicati.
Così Roma, Bologna e Padova come la Sardegna, il Friuli, Seveso diventano zone di operazioni militari. Si dichiara lo stato d'assedio, si instaura il tribunale speciale, si chiudono le fonti di informazione non di regime, si fanno i rastrellamenti di massa, le perquisizioni a tappeto, si tiene la città con le autoblindo. Quando un territorio si sta trasformando in probabile terreno di organizzazione, allora occorre evacuarlo e instaurare un clima di terrore poliziesco; lo sanno i mezzi di informazione di regime che devono coprire tale operazione. Quello di cui hanno avuto paura non era la risposta che si era espressa in sé venerdì e sabato; ma la qualità interna che conteneva.
Per la prima volta si sono trovati di fronte a un corteo non più disarmato, le cui sedi di decisione politica reale non erano più le assemblee ma tutta la città e le barricate. Era lì che risiedeva la vera capacità di decisione politica, è stato lì che il movimento ha fatto un notevole salto unificando nel fuoco dello scontro iniziativa politica e militare. Questa ricchezza è stata in parte anche il segno di una debolezza del movimento che si esprimeva soprattutto come spontaneità e creatività più che con sedimenti reali di organizzazione, e in più punti questo ha portato a una «dispersione» di forza e di strumenti per la lotta. Ma d'altra parte quello che ha posto in rilievo è stato rappresentare come possibile da oggi il praticare forme embrionali di liberazione del territorio, e lì dentro sancire una nuova «regola», una capacità comunista di rompere la legittimità delle merci, ridistribuendole non più tramite denaro ma secondo la necessità e il bisogno. Costruire momenti di contropotere Costruire momenti di contropotere deve essere oggi la parola d'ordine che l'esperienza di organizzazione dentro la classe deve affrontare non più solo come problema di dibattito ma di pratica di lotta. Liberazione del territorio e pratica del contropotere non possono essere visti come un processo di insurrezione a cui richiama il tessuto sociale di militanti comunisti, ma deve essere la pratica di un terreno che ogni giorno si sedimenta e cresce, dove il problema non è costruire esperienza geograficamente vasta, ma conquistarsi spazi politici in cui ricomporre il problema della tenuta con quello dell'indicazione di massa. Ricomporre sul territorio la figura sociale dell'operaio legando lavoratori garantiti e non garantiti intorno alla tematica del reddito con un ciclo di lotte che prendono e non chiedono, vuole dire articolare un terreno di iniziativa che dalla tematica della riduzione generale nata dall'orario si leghi alle lotte per la garanzia del salario, un'articolazione che deve riscoprire una faccia passiva rilanciando le lotte sulle occupazioni delle case, i picchetti di supermercati, spese politiche, autoriduzione.
È la ronda proletaria che garantisce queste esperienze, che individua gli obiettivi, che impone la presenza organizzata degli studenti, dei disoccupati davanti ai cancelli delle fabbriche il sabato, contro gli straordinari, legandoli agli obiettivi interni, alle solide scintille di lotta: le gerarchie di fabbrica, i ritmi, la nocività, l'estensione e l'aumento dei presalario degli studenti, il prezzo politico della mensa e l'apertura di mense di quartiere, l'aumento dei sussidi di disoccupazione e il controllo sugli uffici di collocamento, la lotta contro il lavoro nero. Lotte che portano il segno di una tematica di potere; dalla fabbrica al sociale si rappresenta la stessa faccia della ristrutturazione. Fare un salto nella qualità delle forme di lotta e di programma significa darsi anche strumenti nuovi di organizzazione; è più che mai necessario costruire un centro di iniziativa politica che riunifica non a parole ma su una pratica di lotta operai, studenti, disoccupati, lavoratori dei servizi, braccia per il lavoro nero.
Foglio a cura del Coordinamento operaio cittadino, Bologna, marzo 1977.

CONTRO LA BARBARIE DEL CAPITALE POTERE OPERAIO PER IL COMUNISMO


Compagni, ogni anno, a migliaia di proletari viene il sangue agli occhi per un fatto apparentemente «senza senso», di certo insopportabile e provocatorio: la distruzione di tonnellate e tonnellate di frutta, di prodotti della terra in genere. Un ente di Stato, l'Aima, compra la frutta per avviarla «alle fosse biologiche», per avviarla a essere stritolata dai cingoli dei trattori.
La contraddizione è soltanto apparente.
La ragione di questo «fenomeno», come si sa, è economica: milioni di chili di pesche, di mele, di pere, di pomodori vengono distrutti per «sostenere i prezzi». Cioè per far sì che la frutta possa essere venduta nei negozi e nei supermarket a 700, 800, 1000 lire al chilo. Compagni, i padroni e i «tecnici» dell'economia parlano di «sovrapproduzione». Ma «sovrapproduzione» rispetto a che? Forse rispetto ai bisogni, alla vita, delle donne, degli uomini, dei giovani, dei bambini proletari? Certamente no: sovrapproduzione rispetto alla possibilità dei padroni di realizzare il profitto fondato sul plusvalore estorto al lavoro operaio, rispetto alla loro possibilità di negare la soddisfazione dei bisogni delle masse proletarie, di negare l'«abbondanza» perché questa sarebbe la fine della condizione su cui si fonda il regime del lavoro salariato: la schiavitù del bisogno, la costrizione a vendere la propria forza lavoro per vivere. Il capitalismo, compagni, è questo.
L'economia è scienza della scarsità. Il fine del sistema è infatti il profitto, l'accumulazione del capitale - non lo sviluppo della ricchezza generale.
Le merci sono solo occasioni di accumulazione di potenza e di comando del capitale, e solo secondariamente, solo perché possa avvenire lo scambio (solo perché, cioè possano essere vendute consentendo al padrone la realizzazione del profitto), sono anche beni utili a soddisfare alcuni «bisogni», alcune esigenze di vita. Una massa immensa di lavoro viene erogata da milioni di proletari, non per costruire la loro ricchezza, non per liberarsi dal bisogno, non per godere di una serie di beni e produrre una ricca base materiale della propria esistenza; questa massa di lavoro serve ad accrescere infinitamente la potenza impersonale del capitale: questa massa enorme di lavoro si cristallizza in un monte di prodotti, di merci (macchinari per fabbricare altre merci, oggetti di consumo, beni), che schiacciano colui che li ha prodotti e al quale non appartengono, che vive la privazione di essi (se sono beni di consumo) o il dominio di essi sulla propria vita (se sono mezzi di produzione). Queste merci servono perché hanno un «valore», perché viene fissato un loro «prezzo», perché della loro vendita viene realizzato un profitto, che viene investito a sua volta e crea altre possibilità di succhiare il sangue ad altri proletari. Nel regime capitalistico, che vige su scala mondiale, la miseria di milioni di uomini è la condizione del mantenimento di questo meccanismo di riproduzione. Il capitalismo come sistema mondiale è in definitiva una grande «fabbrica di capitale», cioè una fabbrica di altro lavoro sfruttato, di altra miseria, di altra separazione dei proletari dalla possibilità della ricchezza. Compagni, questo avviene nella quotidianità del rapporto di sfruttamento capitalistico, in ogni minuto della nostra esistenza di proletari. Ma alcuni fatti particolari vistosi sono come la punta di un iceberg, e possono servire a rendere queste cose chiare e lampanti agli occhi di milioni di uomini, ai quali svelano questa realtà che sta sotto le apparenze della nostra società, questo «inferno della fabbrica» che viviamo quotidianamente come proletari. La questione della distruzione della frutta è uno di questi fatti. Un altro esempio sono gli «omicidi bianchi»: in Italia muore sul lavoro un operaio ogni sei ore. Altrettanto rivelatore è un fatto come quello di Seveso: la «vietnamizzazione» di 150.000 proletari da parte di una delle tante «fabbriche della morte» che nel capitalismo, naturalmente, vivono e prosperano.
Lì la questione di fondo non è una sorta di «eccezionalità» criminale dell'Icmesa e della Roche né la criminale complicità delle «pubbliche autorità», Stato centrale o Enti locali che siano; né la catena schifosa di omertà che attorno all'episodio è stata costruita.
La vera questione è che tutto questo è normale, perché il capitalismo è questo, un regime che produce merci, cioè indifferentemente beni utili e arnesi di morte, frigoriferi e bombe atomiche, cioccolatini o defolianti. Il Tcdd, il veleno della «nube tossica» che stagna alla periferia di Milano, è una merce, questa è la sua caratteristica generale.
Il capitalismo è il regime del lavoro salariato e della produzione di merci a mezzo di comando, e può indifferentemente distruggere beni di sussistenza primaria o combinare elementi chimici capaci di scatenare spaventosi processi di distruzione della vita. Compagni, ogni giorno, i giornali di parte capitalistica, da quelli del tradizionale ceto borghese a quelli della nuova socialdemocrazia autoritaria, dal « Corriere della Sera » a «l'Unità », assumono toni da «civilizzatori». Ma, compagni, quale «civiltà»? Ancora una volta, oggi, bisogna affermare che l'alternativa è: comunismo o barbarie. Perché, compagni, la barbarie è questa. È la compressione distruttiva dello sviluppo delle forze produttive sociali per impedirne la liberazione, per impedire la possibilità della ricchezza generale. La barbarie moderna, compagni, vive nell'inferno quotidiano della fabbrica sociale, nell'inferno dello sfruttamento e in quello dell'emarginazione e della miseria. Compagni, questa è già guerra: nel massacro quotidiano degli omicidi bianchi, nei rituali massacri di Pasqua e Ferragosto sulle autostrade a gloria della Fiat, nella nocività sociale degli inquinamenti, nella medicina che uccide, nelle forme che mettono in evidenza la natura della «civilizzazione» capitalistica. Operai, proletari, compagni, gli uomini di questo regime hanno l'ardire di bollare come attentato alla «civilizzazione», alla «solidarietà democratica», l'unica pratica razionale e legittima per gli operai e i proletari: la distruzione di questo stato di cose, il programma comunista, la forza organizzata, la volontà di dittatura operaia, la violenza proletaria. Pensate a quanto è ridicolo, e criminale, chi starnazza sui giovani proletari che lanciano una «molotov» contro una vetrina, e invece fa discorsi «ragionevoli», moderati sul fatto che 150.000 proletari possano sapere da un giorno all'altro di essere stati vietnamizzati, i campi distrutti col napalm, la merce prodotta dalla fatica della loro giornata lavorativa capace di sovvertire il codice genetico che presiede alla vita delle generazioni future. Di fronte a queste occasioni di presa di coscienza e di critica teorica e pratica appare chiaro che i proletari non hanno da perdere che le loro catene; che contro questo regime sociale, contro questa «civiltà» tutto è legittimo, che «una rapina in banca è niente a confronto della fondazione di una banca, che l'omicidio è niente di fronte al lavoro». Compagni proletari, alla dittatura capitalistica si può sfuggire. Oggi il comunismo è possibile e necessario, il comunismo è maturo. Questa chiarezza vive nella profondità e irreversibilità della crisi capitalistica, vive nell'unificazione delle masse proletarie attorno a una radicalità senza precedenti di bisogno, a un livello estremamente alto, di autonomia sociale, all'emergenza di un sistema di bisogni che muove il costituirsi del movimento proletario in una formidabile macchina desiderante. Questa maturità sta nella coscienza della nuova possibilità della ricchezza che vive nell'enorme sviluppo delle forze produttive, nella scienza, nella tecnica, nella cooperazione sociale, nell'intelligenza produttiva dell'individuo sociale proletario. Compagni, non esiste alcuna «oggettività» economica: si tratta puramente e semplicemente di una questione di rapporti di forza. Compagni, compagne, le misure che la classe operaia può e deve prendere di fronte all'avvelenamento di tutto il territorio-nord di Milano e ai riflessi di questo avvelenamento su tutta la città, sono altrettanto dure, altrettanto determinate e drastiche di quanto appare cinicamente determinato il programma capitalista di distruzione cosciente, di rischio calcolato del genocidio proletario. A migliaia, ogni anno, i proletari nelle fabbriche muoiono stritolati direttamente dalla macchina di produzione; nella zona-nord con in testa fabbriche come l'Icmesa, l'Acna, la Snia di Varedo e di Cesano la nocività per operaie e operai è tanto alta da essere di continuo mortale: ma oggi, oggi i padroni rendono organico il loro attentato alla vita dei proletari e rivolgono la loro produzione bellica non solo in lontani Vietnam, così ognuno si salva con la solidarietà a parole, ma direttamente qui, contro i proletari di qui. La nube tossica era in agguato da anni, da sempre, ogni giorno e ogni notte come da sempre forze altrettanto distruttive sono in agguato e possono scatenarsi con spaventosa potenzialità distruttiva.
La possibilità dell'incidente è una regola e nessun codice penale punisce la criminalità potenziale che c'è dietro il più piccolo atto, il più piccolo meccanismo dell'ingranaggio capitalistico. La «vietnamizzazione» di 150.000 proletari è normale: il capitalismo è una «fabbrica di lavoro sfruttato», una fabbrica di profitti; la caratteristica primaria del Tcdd è prima di tutto quella di essere una merce. La nube di Seveso, due chilogrammi e mezzo di diossina, dimostra nel rovescio che oggi non è più possibile non sapere, far finta di non sapere. Gli operai dell'Icmesa, i tecnici, sapevano e sanno che, cooptati con alti salari e stipendi, con lavoro nero e straordinario, nello sfruttamento operaio più bestiale, costruivano e producevano morte per sé e per altri. Il Consiglio di fabbrica lo sapeva e lo sapevano sia le cosiddette autorità locali, sia i sindacati provinciali. Oggi lo sanno tutti gli operai: la questione non è più ristretta al piccolo nucleo di operai dell'Icmesa né tanto meno alle cosiddette autorità né ai sindacati, questo è un problema di tutta la classe operaia! Compagni, lo Stato circonda con i cavalli di frisia e le sue truppe le zone avvelenate che si allargano sempre di più, i sindacati chiedono controlli e organizzazione dei servizi sanitari, «l'Unità» chiede controlli e, ancora una volta, il riconoscimento della morte come malattia professionale.
I sindacati democristiani che hanno da sempre dato carta bianca alle fabbriche della morte, e Comunione e liberazione, l'organizzazione integralista e corporativa che ancora ritiene di aver diritto di parola in zona proletaria, tentano in ogni modo (con la disinformazione, la demagogia e la manipolazione dei dati) di non essere travolti dalla reazione proletaria.
Comunione e liberazione propone, oggi, di difendere il «proprio focolare» ai proletari: un focolare di miseria, di sfruttamento, di sottomissione, di morte.
La Democrazia cristiana e le sue articolazioni cercano di portare a termine, come sempre, l'opera di distruzione del capitale, per ottenere assieme genocidio proletario e consenso proletario alla propria distruzione! Operai, proletari, la classe operaia deve rompere questo ghetto di paura, di ricatto, di impotenza. Il capitale, tanto più evidentemente criminale quando si applica alle produzioni di guerra, va colpito con ogni mezzo: la distruzione e il sabotaggio di queste produzioni è all'ordine del giorno!
La chiusura e il blocco di queste produzioni è all'ordine del giorno! Il problema dell'occupazione è altra cosa, su altra scala di fronte alla dimensione di tutto ciò! All'Icmesa, oggi, i dirigenti, i funzionari del capitale che in questo caso non solo hanno collaborato alla macchina dello sfruttamento e del dominio sui proletari, ma anche al funzionamento della macchina specifica di distruzione a fini di profitto, devono avere nella fabbrica un puro ruolo di ostaggi fintantoché il loro ordigno mostruoso non sarà stato disinnescato. La Roche va colpita in ogni sua dimensione produttiva, ispettori, medici e autorità locali conniventi vanno segnalati e interdetti con la stessa determinazione con cui scientemente ogni giorno attentano alla nostra vita. Per quanto riguarda il territorio nessuno può pensare di ricostruire le condizioni di vita e di lavoro preesistenti alla «nube».
Perché la vita degli operai dell'Icmesa e del nord-Milano era già ipotecata da un regime di distruzione.
Perché i lavoratori dell'Icmesa producevano ogni giorno la loro morte e la possibilità di morte per migliaia di proletari, perché a questo li costringeva la regola spietata del regime capitalista, la costrizione a vendere la forza-lavoro per vivere! Compagni, gli operai che lavorano all'Icmesa, coscienti o meno di ciò che producevano, hanno oggi la possibilità di riscattarsi da lunghi anni di bestiale sfruttamento e isolamento dal resto della classe operaia. Debbono guidare la battaglia senza quartiere all'apparato decisionale della Roche, debbono guidare la battaglia alla distruzione delle produzioni nocive nella zona, debbono guidare la battaglia per unire le piccole fabbriche produttrici di morte che in questa e in altre zone continuano a lavorare. Operai dell'Icmesa! Proletari! In questi anni la schiavitù del bisogno vi ha costretti a essere oggettivamente agenti di una delle più mostruose sezioni del capitale.
Oggi la vostra possibilità di riscatto passa per la scelta di aprire contro padroni, Roche, Stato delle multinazionali, una lotta senza quartiere. Non potete certo affidare la garanzia del vostro salario a una ripresa di queste produzioni di morte.
Non sono legittime soluzioni individuali o settoriali: è alla classe operaia, alla autorità sociale che deriva alle sue avanguardie comuniste dal ruolo che hanno svolto nelle lotte autonome operaie e proletarie che dovete riferirvi. Operai dell'Icmesa! Proletari. La classe operaia si assume tutto il problema: quello immediato delle case, del salario, delle donne e dei bambini colpiti, da subito.
La sezione italiana della classe operaia internazionale ha la forza e la maturità sufficiente per decretare - sul cammino dell'abbattimento del regime capitalistico e della costruzione di una nuova società - la fine delle produzioni che servono a organizzare la morte, il genocidio, la distruzione dei proletari.
Da un volantone pubblicato da « Rosso vivo » e « Senza Tregua», Milano, luglio 1976

DONNE NELLA LOTTA ARMATA


La presenza di donne nel livello armato della lotta politica ha sorpreso lo Stato. Quello stesso Stato che, per garantire a sé e ai padroni il massimo del profitto, ha protratto - oscenamente indifferente - fino a oggi la «strage delle innocenti» pur di continuare a esercitare un comando terroristico sui nostri uteri, come sulle nostre braccia.
Generalmente eravamo condannate a morire su quegli stessi tavoli da cucina dove spendevamo gran parte del nostro lavoro gratuito o, con un ferro da calza infilato nell'utero, dissanguate su quegli stessi letti dove procreavamo e acquietavamo la sessualità maschile.
Generalmente potevamo piangere sui figli e mariti sterminati in guerra o consumati in fabbrica o svenduti all'estero a basso prezzo.
Generalmente potevamo impazzire di dolore durante il parto, «assistite» da medici sadici, potevamo essere violentate e bastonate tranquille che le «forze dell'ordine» non sarebbero accorse né la stampa l'avrebbe considerata una notizia rilevante. Generalmente potevamo come «operaie della strada» (prostitute) essere violentate a pagamento mentre lo Stato riscuoteva la tangente. Chissà perché questa situazione «va stretta» a sempre più donne per cui sempre più donne, rifiutando il «loro posto», prendono mille strade? Lo Stato si stupisce. Gli uomini si stupiscono. Noi ci stupiamo che si stupiscano. E adesso veniamo al problema. Perché la ribellione delle donne c'è sempre stata, ma come non basta la ribellione isolata, così non basta l'indistinta «lotta di classe» anche ai livelli più «agguerriti» a costruire una forza di massa alle donne sui propri interessi. Perché nella classe esiste una precisa stratificazione di potere che il capitale ha usato e tenta di continuare a usare fino in fondo. Fondamentalmente il potere della sezione più forte, i salariati maschi, contro il potere della sezione più debole, le donne, che lavorano 24 ore su 24 senza un salario proprio.
Ed è precisamente questa stratificazione che va distrutta con la lotta, perché rappresenta la più grossa debolezza della classe nel suo complesso. I maschi hanno sempre largamente usato la loro violenza nella famiglia, e fuori, per assicurarsi i vantaggi e i frutti del nostro lavoro.
Anzi, oggi, uccisioni di donne, violenze carnali e botte aumentano tanto più quanto più aumenta il rifiuto da parte delle donne del lavoro e della disciplina familiare. Se non fossimo uscite dalle cucine, dalle camere da letto, dalle fabbriche, dagli uffici, dalle scuole, per costruire un movimento di massa, un processo di lotta aperta e dichiarata, a partire dal primo lavoro che ci accomuna tutte, e che determina tutta la nostra vita, e, in quanto lavoro non salariato, la nostra debolezza all'interno della classe e il nostro posto subalterno a qualunque livello dell'organizzazione di classe, ancora oggi, non avremmo alcuna garanzia sul nostro «destino». Ci pare ridicolo allora, specie in un momento in cui il femminismo serpeggia in ogni casa, in ogni fabbrica, in ogni ufficio, l'atteggiamento di chi indaga sui «trascorsi femministi» dell'una o dell'altra. È chiaro comunque che, se delle mille strade significative, parecchie donne non avessero scelto specificatamente il faticoso, aperto, costruirsi del Movimento femminista, non ci sarebbero state né le 10.000 donne a Trento, né poche mesi dopo, 20.000 donne a Roma. Il femminismo, come movimento che si allarga sempre più e sempre più ha necessità di organizzazione, ha un solo problema, che è quello di determinare la rottura della fondamentale stratificazione di potere all'interno della classe, costruendo un potere autonomo alle donne sui loro interessi specifici, che è l'unica forza determinante per il potere della totalità della classe. La lotta contro il lavoro salariato è impotente a determinare la distruzione del rapporto capitalistico se non è sostenuta da una lotta di massa contro il lavoro domestico non salariato. La lotta sul «reddito garantito», finché non c'è stato un movimento di donne che ha cominciato a parlare e a organizzarsi per il salario al lavoro domestico, non sollecitava né comprendeva di per sé una lotta sul salario domestico; si parlava anche allora di organizzazione generale della classe, in realtà c'era solo la gestione maschile della lotta di classe.
Proprio tale gestione maschile, come non aveva visto la lotta più massificata che le donne da lungo tempo avevano condotto, il rifiuto di diventare madri, altrettanto non aveva visto il comportamento di massa su cui tale lotta si era innestata: il rifiuto del lavoro domestico.
Il rifiuto del lavoro domestico è stato ed è il rifiuto che sta dietro a ogni momento di lotta della donna, perché il lavoro domestico è il lavoro che determina non solo le condizioni in cui dobbiamo accettare anche il lavoro esterno e i servizi, ma la qualità complessiva della nostra vita, la nostra sessualità in funzione procreativa e le condizioni stesse della procreazione. Quindi, tanto per citare l'ultimo e più noto esempio di lotta a livello di massa delle donne, anche dietro la lotta sull'aborto c'è la lotta sul lavoro domestico, il rifiuto del lavoro domestico. Si tratta di «svelare» questo rifiuto che sta dietro a ogni lotta proprio per riuscire ad approfondirlo. Si tratta, dal punto di vista dell'autonomia femminista, di trasformare il comportamento di massa di rifiuto del lavoro domestico in lotta organizzata per la distruzione del lavoro domestico. Ma solo la richiesta di salario al lavoro domestico è in grado di determinare tale passaggio.
È su questa richiesta allora che va concentrato lo sforzo organizzativo nel senso di riuscire a determinare una mobilitazione di massa. Senza tale mobilitazione, senza questo sforzo organizzativo in cui ogni mobilitazione per l'aborto deve diventare allo stesso tempo mobilitazione per il salario al lavoro domestico, non possiamo pensare di instaurare più alti livelli organizzativi che hanno senso solo se, partendo dall'interpretazione degli interessi delle donne, siano sostenuti dal movimento di massa delle donne stesse su tali interessi. Il Movimento femminista deve interpretare fino in fondo i bisogni espressi dalle lotte delle donne arrivando a coglierne il bisogno fondamentale di liberazione dal lavoro domestico espresso in tutte, se vuole riuscire a dare alle stesse un collegamento destinato non solo a durare ma soprattutto ad approfondirsi e a crescere. E altrettanto, nella crescita del processo organizzativo deve mantenere una autonomia femminista a tutti i livelli di crescita dell'organizzazione. Non è un caso, ripetiamo, che la sinistra maschile non avesse mai visto il lavoro domestico.
Gli uomini, diretti destinatari e controllori del nostro lavoro, se fino a ieri non lo avevano visto come tale, certamente oggi non possono per noi rappresentare una garanzia per la liberazione dallo stesso. Obiettivamente, l'autonomia perciò anche ai livelli più alti della lotta, si riconoscerà nel tipo di azione, nella specificità di interessi che questa azione porta avanti corrispondentemente agli interessi su cui il Movimento femminista a livello di massa si muove.
E in quanto i tempi, i modi ecc. siano appunto determinati dal Movimento femminista stesso. Come si sa, i vari livelli della lotta non sono mai stati «omogeneamente programmabili» né questo è il nostro intento.
Nella lotta ha un senso molto relativo parlare di «errori» e di «se era tempo» o «se non era tempo». Ha senso invece, perché i tempi e modi «accelerati» o «ritardati» non appartengono ad altri che alle donne, che siano misurati sul Movimento stesso delle donne. E quindi, anche un'azione specifica, perché ritorni come nuovo livello di forza al Movimento, deve offrire un'indicazione raccoglibile dalle donne stesse.
Da «Comunicato del Comitato Triveneto per il salario al lavoro domestico», Padova, gennaio 1975

I PERIODICI «RIVOLTA DI CLASSE» E «I VOLSCI» [1]


[...] nel 1973, nasce a Roma «Rivolta di classe» [2] un «foglio aperto al contributo dell'autonomia operaia interessata al processo di centralizzazione nazionale e a quelle forze politiche intenzionate ad un serio e costruttivo confronto interno alla necessità pratica di costruire il partito armato proletario» [3]. Rispetto al suo corrispondente milanese, il giornale è inizialmente molto essenziale e stringato sia nell'analisi che nell'impaginazione (eccettuate alcune copie uscirà sempre come foglio in attesa di registrazione, né datato né numerato), e rimarrà comunque sempre fedele all'iniziale obiettivo programmatico, cioè produrre un lavoro collettivo frutto della fusione di militanza, teoria e pratica, nell'ambito dell'area dell'autonomia operaia. Quest'esperienza si concluderà nel 1975 con il merito di aver saputo riunire in un'unica testata le istanze plurime di quella che era la frammentata area dell'autonomia romana: dal sottoproletariato urbano organizzato ai comitati per la casa, dal movimento di lotta dei carcerati agli ospedalieri del Policlinico, prestando sempre maggiore attenzione alla nuova realtà dei lavoratori del terziario, il settore dei servizi infatti stava divenendo il nuovo teatro di scontro delle rivendicazioni dell'area. Una nuova serie comincerà ad essere stampata a partire dal 1976: rimanendo sempre legato agli aspetti pratico-teorici della militanza, e per questioni oggettive con particolare attenzione al mondo carcerario, e al movimento studentesco. La redazione del nuovo «Rivolta di classe» [4], contigua alla precedente, trova legittimazione all'interno dei Collettivi Autonomi Operai (CAO), più vicina per impostazione analitica a quella del milanese «Rosso», con il quale collaborerà come corrispondente romano per un breve periodo nello stesso anno; è dell' ottobre 1976, infatti, il comunicato che annuncia sulle pagine del giornale la chiusura della «breve ma pur fruttuosa collaborazione dei compagni della redazione romana» [5]. Anche la redazione di «Rivolta di classe» non riuscirà ad arrivare alla fine del '77, in questo caso per portare a compimento il progetto del movimento dell'Autonomia Operaia, che agisse da raccordo dell'area a livello nazionale; nel 1978 infatti la stessa redazione darà il via alla pubblicazione della rivista «I Volsci» [6], nata con ampi spazi di approfondimento teorico all'interno della oramai lacerata area autonoma romana che trovava base ideale tra i lavoratori del settore terziario e dei servizi. [...]

[...] «I primi collettivi autonomi nascono all'inizio degli anni Settanta da alcuni gruppi di transfughi dal Pci e dal Manifesto e, soprattutto, dal filone operaista. [... ] A Roma, all'origine di tutto c'è l'alleanza lavoratori-studenti del Collettivo di Medicina, che si riconosce nelle posizioni del Manifesto; ed è dal Collettivo che si separa un nucleo di infermieri, portantini e tecnici guidato da Daniele Pifano [... ] che nel '72 fonda, insieme ad altre componenti (Enel, Fiat di Grottarossa, Cub dei ferrovieri), i Comitati autonomi operai di via dei Volsci» [7] «che sviluppano da subito una tematica fortemente spontaneista, erede di una impostazione luxemburghiana» [8] e che assieme a quelli di via di Donna Olimpia diventeranno i referenti principali dell'intera area dell'autonomia romana. Lo scioglimento di Potere operaio, del Gruppo Gramsci, e della Federazione comunista libertaria romana portano nell'area nuovi militanti che giungono anche da un'organizzazione ormai in crisi di identità come Lotta continua.
[...] un cenno a parte occorre dedicarlo a «I Volsci». La rivista esce dal febbraio 1978 come continuazione della precedente «Rivolta di classe»; la sua cadenza ha carattere mensile ma irregolare e, in totale, usciranno undici numeri, l'ultimo nell'ottobre 1981. «I Volsci» sono l'espressione del collettivo di via dei Volsci, un gruppo che si forma a cavallo del '71 e '72 per una scissione dal Manifesto, quando fallisce la fusione di quest'ultimo con Potere Operaio. Inizialmente il collettivo collabora con «Rosso», ma quasi subito se ne stacca a causa di profondi contrasti e inizia una pubblicazione propria, «Rivolta di classe». Il successivo cambiamento del nome segue la durissima campagna di criminalizzazione e repressione attuata dal Pci in particolare durante tutto l'arco del '77 [9]. «I Volsci» è una sfida alla campagna di criminalizzazione dei media nella quale più volte ricorre il nome di via dei Volsci (una strada del popolare quartiere romano di San Lorenzo) sovente associata alla parola "covo"» [10]. Alla fine del '78 il gruppo partecipa attivamente al dibattito in seno a tutta l'Autonomia di un ulteriore salto di qualità organizzativo e prospetta la costituzione di una struttura accentrata che organizzi tutte le forme di spontaneismo antagonista, il Movimento dell'Autonomia Operaia (MAO). «I Volsci» risente indubbiamente della realtà romana più legata al settore terziario che alla dimensione della fabbrica. Un'attenzione particolare è dedicata alle condizioni di lavoro di settori quali ospedalieri, ferrovieri, lavoratori dell'Enel e della Sip colpiti dalla piaga del lavoro nero, dalla crescente precarizzazione e dimenticati dalle politiche del sindacato indicato come «un soggetto istituzionale integrato in un progetto di programmazione capitalistica» [11] di cui fa parte anche il Pci «[... ] fautore di una socialdemocrazia oppressiva, [... ] asservito all'imperialismo sovietico, [... ] ormai entrato nell' apparato repressivo dello Stato» [12] .
Gli articoli dedicati alle problematiche della donna sono esclusivamente a firma dei Collettivi femministi. La recente approvazione della legge che legalizza l'aborto è solo un primo passo verso l'emancipazione della donna: «Il tipo di "emancipazione" che il capitale offre alle donne è, in termini di mercato del lavoro, lavoro nero, a domicilio, precarietà, sottoccupazione, o, nel caso di regolari rapporti di dipendenza, lavoro parcellare, ripetitivo, dequalificato [...]» [13]. Occorre rimuovere gli ostacoli burocratici che, rendendo difficile e lungo il processo dell'interruzione di gravidanza, costringeranno le donne a tornare sul tavolo delle «mammane». Un'altra proposta è quella di migliorare il funzionamento dei consultori, visti come «momenti di assorbimento dello «scontento» femminile, dei canali di collegamento tra le donne e le istituzioni politiche» [14]. Tutte le recenti politiche statali hanno causato, a parere de «I Volsci», un allargamento delle fasce di emarginazione sociale in grado di trasformarsi, attraverso una loro organizzazione, identificabile nell'Autonomia operaia, in forze rivoluzionarie. Di fronte a tutto questo e ad una conseguente ripresa della conflittualità, la classe politica è stata soltanto capace o di inasprire le già dure misure repressive, o di disaggregare la nascente organizzazione attraverso la deliberata introduzione delle droghe pesanti. «Riteniamo che una delle ragioni fondamentali dell'introduzione dell'eroina sia stato il pericolo che il capitale avvertiva nella tendenza all'integrazione tra fasce di proletariato espulso dal processo produttivo; integrazione che offriva grosse potenzialità rivoluzionarie» [15].
Il principale strumento repressivo rimane comunque il carcere; a questo proposito il punto di vista della redazione è di un netto rifiuto dell'istituto carcerario in generale, visto come misura repressiva che colpisce soprattutto il proletariato; in particolare c'è un rifiuto per le carceri «speciali», luoghi di detenzione dei detenuti politici, che rispondono «alla necessità di colpire le avanguardie comuniste combattenti e funzionare come punto di partenza per la militarizzazione del territorio e di divisione del proletariato in buoni e cattivi, i criminali e i ragionevoli, i brigatisti, gli autonomi, i moderati, in definitiva chi si ribella, e rifiuta i patti sociali per i proletari, e chi li accetta [...]» [16].
La condanna dello sfruttamento ambientale è parte integrante della lotta rivoluzionaria, in quanto la distruzione delle risorse è una componente essenziale dello sviluppo capitalistico. «[...] Come non abbiamo mai creduto alla lotta antinucleare di tipo ecologico, separata dal resto della lotta di classe, così non abbiamo creduto nemmeno alla possibilità di misurarla istituzionalmente attraverso il referendum [... ]» [17].
La dimensione internazionale è analizzata sotto diversi aspetti: l'internazionalismo proletario si deve opporre all'imperialismo «tradizionale», quello legato agli Usa, e al «socialimperialismo» che caratterizza la politica estera sovietica; si riscontrano, inoltre, dure critiche a quello che è definito «l'impero delle multinazionali».
[...] Sono frequenti gli appelli alla mobilitazione: «Occorre realizzare la messa in movimento di tutti gli strati sociali in funzione antagonista all'attuale regime; fare avanzare, cioè, il fronte di classe [...]» [18] e «[...] è necessario riuscire a ricomporre i vari settori comunisti del proletariato nella lotta contro il capitale e lo Stato» [19]. Indubbiamente in ogni articolo traspare un'analisi della conflittualità sociale, la cui risoluzione è vista sempre in prospettiva rivoluzionaria.
Ogni articolo non è firmato dal redattore, come se ogni pezzo volesse caratterizzarsi come il prodotto di una singola voce collettiva, quella de «I Volsci» appunto. [...] la rivista copre una tiratura di 5000 copie circa. Accanto a «I Volsci» opera, inoltre, la libera Radio Onda Rossa, che ancora oggi prosegue le sue trasmissioni.

[1] Tratto da «Rosso», «Rivolta di classe», «Metropoli», i periodici dell'autonomia a Milano e Roma dal 1974 al 1981, di Tiziana Rondinella e da «I Volsci» e l'autonomia operaia, a cura di Andrea Barbera e Luisella Quaglia, rispettivamente consultabili su: http://w3.uniroma1.it/dsmc/ricerca/Allegati/425_442.pdf e http://w3.uniroma1.it/dsmc/ricerca/Allegati/407_424.pdf
[2] «Rivolta di classe,», Roma, 1973-75.
[3] «Rivolta di classe», Roma, 1975.
[4] «Rivolta di classe», Roma, 1976-78.
[5[ «Rosso», Roma, ottobre 1976, n. 12.
[6] «Rivolta di classe», Roma, 1978-81.
[7] M. Monicelli, L'ultrasinistra in Italia 1969-1978, Laterza, Roma-Bari 1978, p. 116.
[8[ Nanni Balestrini, Primo Moroni, L'orda d'oro. La grande ondata rivoluzionaria e creativa, politica ed esistenziale, Feltrinelli, Milano 1997, p. 445.
[9[ Cfr. Giorgio Bocca, Il caso 7 aprile, Feltrinelli, Milano 1980, pp. 87-102; A. Mangano, Le riviste degli anni Settanta. Gruppi, movimenti e conflitti sociali, Massari, Bolsena (VT) 1998, pp. 276-277.
[10[ A. Mangano, op. cit., p. 276.
[11[ «I Volsci», Inchiesta: per conoscere la nuova realtà di classe dentro cui far crescere l'Autonomia, n. 6, ottobre 1978, pp. 2 sgg
[12[ «I Volsci», Quelli che vengono da lontano, n. 10, marzo 1980, p. 16.
[13[ «I Volsci», Operaie negate di un lavoro emarginato, n. 9, luglio 1979, p. 20.
[14[ «I Volsci», Aborto. Una legge sul controllo dei meno garantiti: le donne, n. 4, mag./giu.1978, p. 4.
[15[ «I Volsci», La trappola dell'eroina, 1979, n. 9, luglio, p. 22.
[16[ «I Volsci», Siamo tutti prigionieri politici, 1978, n. 4, mag./giu, p. 10.
[17[ «I Volsci», Estate antinucleare, n. 9, luglio 1979, p. 15.
[18] «I Volsci», Il piano per lo sfruttamento, n. 7 nov./dic. 1978, p. 2.
[19] «I Volsci», Le gabbie speciali, n. 4, mag./giu. 1978, p. 10.

MITI, RITI E DETRITI DEL PARCO LAMBRO

di Gianfranco Manfredi

A Parco Lambro mi sono smontato la testa. Come tanti. Ripetere questo smontaggio per iscritto non é facile, anche perché ho ancora tutti i pezzi in giro. D'altra parte pare indispensabile di fronte a un fatto su cui molti hanno tratto "conclusioni" e pochi "aperture". E provenendo ogni "apertura" da uno smantellamento comincio col dire cosa ho personalmente smantellato grazie al Lambro.

I MITI

a) Proletariato giovanile
Se c'è una cosa certa dopo il Lambro, é che questo termine non ha senso. Attenzione: non che non abbia senso di per sé, non ha senso rispetto ai contenuti e alle prospettive che vi si supponevano inclusi. Ora: persino i radicali si accorgono dell'inconsistenza del termine (cfr. Prova radicale n. 2), però nel contesto dello stesso articolo propongono come concetto sostitutivo quello di "incazzati di tutti i tipi, di tutte le situazioni, di tutte le classi". Il che vuol dire sostituire a un concetto impreciso, un altro anche più generico: "gli incazzati". Incazzati di ruolo, si suppone. Forse quelli che la mattina si svegliano male, o quelli che quando gli accarezzi una spalla da dietro estraggono la Colt, si voltano e ti riducono un colabrodo (tipo Tex). Sempre i radicali, più avanti, in un altro articolo, provano a definire meglio questi "incazzati": omosessuali, femministe e "proletari a caccia di polli". Rieccoci da capo: riecco "il proletariato giovanile". Allora? No. Se dobbiamo smontare un concetto, smontiamolo seriamente.
Anzitutto: come mai un concetto funzionale che all'inizio voleva solo dare un vago quadro sociologico (grosso modo: "i figli degli operai" o "i giovani operai senza lavoro o a lavoro precario") é diventato nell'uso della sinistra "rivoluzionaria" (soprattutto di Lotta Continua e dell'Autonomia Operaia) un punto di riferimento politico, una indicazione di sviluppo e di prospettiva?.
Da quando la "sinistra di classe" ha scelto come nodo della sua pratica (non diciamo strategia) la realtà sociologica del "proletariato giovanile", ecco che il termine ha acquistato valore d'indicazione di "classe" e le sue azioni coincidenza con la "lotta di classe". Sono ormai ben più di dieci anni che sono/siamo tutti lì a cercare "la nuova classe operaia" o meglio "il nuovo soggetto storico" che la rappresenti. Ecco allora che rispetto alle varie fasi dello sviluppo della classe, una sua frazione di volta in volta é elevata a "rappresentante generale": ieri l'operaio-massa, poi i giovani operai, infine il proletariato giovanile, strato sociale diffuso, vivo nel quartiere, spugna delle contraddizioni e di "comportamenti" anti-istituzionali. Dunque: primo gradino è l'individuazione di uno strato interno alla classe che in una fase la rappresenti o perlomeno ne rappresenti "i contenuti più avanzati". Secondo gradino é, con la concentrazione della pratica politica e degli sforzi organizzativi sullo strato più avanzato, la definizione della classe attraverso la sua rappresentanza avanzata. Di qui all'identificazione, dello strato con la classe, il passo é breve, anzi spesso é spinto anche più in là fino all'identificazione dell'avanguardia-che-rappresenta-lo-strato-che-rappresenta-la-classe, con la classe stessa: cioè "il nucleo proletario armato" alla fine é "gli operai".
Ma c'é di più: al termine settoriale così "isolato" si attribuiscono i valori che sono propri della classe nel suo insieme e cioè: di avere un'omogeneità interna che può esprimere un'omogeneità di comportamenti quindi una direzione unitaria e perlomeno nazionale, una rappresentanza organizzata. Bene o male, anche in Re Nudo, anche nell'ideologia del grande raduno annuale del proletariato giovanile, c'era e c'è dietro questo schema logico o meglio ideologico. C'é bisogno di questo schema sennò entrerebbe in crisi "la politica" e "l'organizzazione": se "la gente" non é riferita alla "classe" va a farsi benedire qualsiasi discorso organizzativo perchè la "classe" si organizza (esprime o subisce organizzazione), ma "la gente" non é detto.
Ecco allora che tutti i comportamenti devono essere riferiti alla classe. Ci casca anche il Mario Mieli che (sempre su Prova Radicale) scrive: "forse il proletariato, la classe rivoluzionaria sono le donne e gli omosessuali; in Italia almeno non vedo altro, non credo che i maschi siano rivoluzionari, e sento contraria alla mia libertà qualsiasi azione compiuta dai maschi, anche se mi rendo conto che come appartenente al sesso maschile posso ancora essere molto controrivoluzionario nei confronti delle donne".
Qui appare chiara anche la "gerarchia degli strati rivoluzionari" che é implicita dentro ogni ricerca del "nuovo Soggetto": il Più Oppresso di Tutti, il Cristincroce di turno. Secondo questa logica il nuovo Soggetto sarebbe probabilmente una vecchia ex-operaia negra schizofrenica e omosessuale. Nel riferire alla classe tutti i comportamenti anti-istituzionali anche Re Nudo non é stato da meno, a partire dalla stessa impostazione del giornale (e so quel che dico avendovi non poco contribuito). Un'espressione sintetica abbastanza chiara é stata quella usata da Romano Madera in un noto articolo: "la classe sfuma se non fuma". Con questo egli probabilmente intendeva dire, nel contesto dell'articolo, che era necessario proprio che la classe "sfumasse", ma la frase dice invece l'opposto e cioé che "fumare" é attività che contribuisce a rinsaldare la classe come unità rivoluzionaria. E dato che per Madera "fumare" é soprattutto "capire" e "ragionare", si potrebbe dire anche che l'attività razionale (anche se intesa come sana pratica corporea) é alla fine il Soggetto rivoluzionario. Il che ha anche una sua parte di verità (assai parziale) purché non sia nuovamente riferito alla fantomatica "classe" che alla fine coinciderebbe (operazione non nuova) con lo "Spirito Assoluto" (o anche "la Materia che pensa Se Stessa").
Di qui anche non poche frustrazioni per chi si recasse a un festival pop per vedere dietro il proletariato giovanile lo Spirito del Mondo, anche perché sono secoli che lo Spirito del Mondo non si concentra più in un punto solo. (Eppure un noto idiota se ne uscì dopo il festival con questo commento: "La gente sentiva l'assenza di una Weltanschauung", al che un "proletario giovanile" ha aggiunto: "Sì é vero, anche Alan Stivell e gli Steeleye Span li avevano promessi e invece non c'erano"). Proviamo invece, nella storia di questi dieci anni di ricerca del nuovo Soggetto, a individuare un cammino opposto, inverso: non quello dell'aggregazione rivoluzionaria della classe attorno al suo strato più avanzato e alla sua (sempre attesa) rappresentanza, ma quello della disgregazione (dello sfumare) della classe attraverso suoi strati marginali al di là di ogni rappresentanza. Proviamo insomma a rileggere una storia diversa della classe e delle sue figure: l'operaio-massa non é, in questo quadro, il soggetto che sostituendosi all'operaio professionale e alle aristocrazie operaie muta il segno riformista in rivoluzionario e dà alla classe una "nuova unità". L'omogeneità del lavoro, la ripetitività, le grandi aggregazioni d'uomini, la fine della "qualità", sono sì caratteristiche d'una nuova figura operaia, ma di una figura operaia ormai assimilata totalmente al ciclo. Il "rifiuto del lavoro" non sta dentro queste caratteristiche ma "oltre": é appunto "la posizione del Soggetto". Da questo punto in poi il cammino del Soggetto non é affatto nella direzione di una più marcata aderenza al ciclo, di una sua internità che dovrebbe alla fine riassumerlo (rovesciato) in sé, ma é invece nella sua progressiva esternità al ciclo, oltre il lavoro, oltre la produzione, oltre la merce. Appunto verso il Soggetto. Ecco allora la banalità, tanto banale quanto vera: e se il Soggetto fosse proprio il soggetto, il sé, la persona?
La classe in quanto tale, l'omogeneità-lavoro uguale, non cerca una nuova rappresentanza, né la produce: la sua rappresentanza istituzionale, unitaria e nazionale, espressa dal suo essere classe, é il Partito Operaio che diventa Stato Operaio. Qui, in Italia, il PCI. La classe che si nega in quanto classe é Soggetto, l'operaio che si nega come operaio é persona. Ecco allora perché il "Proletariato Giovanile". E' nell'ultimo gradino della sua marginalizzazione rispetto alla macchina che l'operaio trova la sua figura lacerata tra la classe e la persona. Il termine "proletariato giovanile" esprime questa ambivalenza di direzioni, questa ambiguità: da una parte un termine ("proletariato") che rimanda alla collocazione nel ciclo, dall'altra un termine ("giovanile") che rimanda alla realtà del corpo.
Il superamento dell'ambiguità è un problema più ampio di quello dell'abolizione del termine che nella sua imprecisione é in realtà quanto di più preciso ci sia. Il superamento dell'ambiguità può avvenire in opposte direzioni: l'assorbimento del secondo termine nei primo (del corpo nel ciclo: tentativo estremamente trasparente per esempio attraverso la cosidetta "pomografia" cioé sessualità-lavoro, ripetitività-efficienza-produttività-scomposizione dell'atto sessuale), o l'assorbimento del primo nel secondo che é poi il problema stesso della rivoluzione: la negazione della classe, della società delle classi (capovolgimento del valore in uso, emergenza del soggetto di contro all'oggetto, della diversità-individualità concreta rispetto all'omogeneità-universalità astratta).
Ma dentro questa seconda prospettiva il problema è la ricerca, l'allargamento dell'area della coscienza, la comunicazione (per usare un termine vecchio, la cultura), non é l'organizzazione, l'allargamento dell'area dell'autonomia organizzata, la istituzionalità specularmente opposta quanto uguale (cioé la politica). Il che non vuoi dire negare la dialettica tra i due estremi della questione, ma vuol dire riconoscere che si tratta d'una dialettica delle opposizioni, d'una dialettica scontro, e non può trattarsi d'una dialettica della ricomposizione, dell'unità degli opposti. Questa seconda dialettica é proprio quella della perpetuazione (con il sogno/delirio dell'organizzazione) delle ambiguità non solo terminologiche.

b) Felicità
Altra questione rimbalzata da Parco Lambro: il vero obiettivo sarebbe la felicità, il problema giovanile starebbe tutto qui: Felicità. La suddetta felicità sarebbe poi divisa in due rami: a) occupazione; b) stare bene insieme ("creatività"). In termini antichi: panem et circenses. E' uno dei casi non rari in cui la sinistra é destra: tra "panem et circenses" e "ora et labora" c'é solo una piccola differenza di ottica. Tant'é vero che Comunione e Liberazione ha avuto parole di grande comprensione per l'esigenza di "felicità" che emergeva ("certo in forme paradossali") da Parco Lambro. E Comunione e Liberazione (C.L.) é l'immagine specularmente opposta di Lotta Continua (L.C.).
Questa della Felicità é la colomba o la cornacchia estratta dal cappello a cilindro di chi pensa si debba continuare sulla strada dell'ambiguità, l'unica strada che conservi qualche aiuola di parcheggio alle "organizzazioni rivoluzionarie". La Felicità infatti, nonostante per origine sia un termine proprio del "personale" é qui assimilata al "politico" e diventa quindi felicità ideologica che si esprime in riti collettivi (felicità per il governo delle sinistre, girotondi nudi, "potere a chi lavora" gridato tutti assieme per non far piovere, grandi raduni allietati da tarantelle e chiavi inglesi nascoste sotto le camicie nel caso che qualche sconsiderato non fosse felice e si bucasse). Questa Felicità, che è anche divertente per chi vi partecipa, é l'ultima mascherata della religione: é infatti più vicina al corpo che non la politica, proprio perché vuol essere la mediazione tra il corpo e la politica, la custode dell'ambiguità. Con l'inevitabilità dell'evasione dal personale. Se infatti si rimanesse nell'ambito della persona, la felicità non potrebbe mai essere un obiettivo, dato che non si tratta d'altro che d'uno stato particolare e temporaneo che esiste solo in quanto ne esistono degli altri che hanno lo stesso identico valore euristico, ivi compreso il dolore. Sul piano generale invece, la felicità richiede una sua definizione: non é più una condizione emotiva, é il rivestimento di un contenuto preciso di cui tracciare i confini. E i confini li traccia l'organizzazione: è l'organizzazione (previa assemblea) che decide se é giusto essere felici spiando una donna che piscia (no, non é giusto, non é femminista, non si deve fare), se é giusto essere felici battendo le mani all together (sì, è giusto perché così "si partecipa").
Si tracciano le condizioni della felicità, il si può fare e il non si può fare. Ma il problema che si dovrebbe porre é: "perché sono felice a fare questo o quest'altro", il che significa: "sentirsi", dove le considerazioni oggettive avvengono dentro un piano di conoscenza-ricerca dei limiti e delle possibilità d'espansione del personale. Porre invece, al contrario, la felicità come obiettivo e "soluzione" del personale (invece che come oggetto d'indagine) porta all'individuazione delle "condizioni medie possibili e augurabili di felicità ora e in questo luogo" stante che la felicità é un dovere perché sei lì per quello: ecco che allora la "felicità collettiva" si manifesta come assoluta impotenza personale e totale paranoia quando si è fuori dal rito collettivo. Il rito collettivo con il suo universo chiuso di regole, valide per chi vi partecipa, é la Felicità: é il reciproco riconoscersi come identici, uguali agli altri. La diversità-individualità, la non partecipazione o il non gradimento del rito collettivo, diventa così tout court emarginazione, solitudine, impotenza.
"Nessuna salvezza fuori della Chiesa". Invece d'essere la "soluzione" all'emarginazione, la Felicità come obiettivo generale, "politico", la rafforza e la ricrea.

I RITI

I riti, manco a dirlo, sono riti di merce. E lo dico senza scandalizzarmi. Chi si scandalizza di solito é proprio chi prepara il rito perché la merce vi sia presente, ma sfuggente, vi sia esorcizzata.
Ma per chi ha presente che la merce esiste, non è la merce a costituire fonte d'irritazione, é casomai il rito che vorrebbe all'apparenza cancellarla mentre la consacra. La merce del caso non é infatti il pacchetto di Muratti o la presenza del divo x, o il mero "prezzo" del panino. La merce é il "rapporto di merce": é merce-ideologia (la politica), é merce-cultura (la musica), é merce-soggetto (il palco). Vediamola attraverso alcuni suoi momenti simbolici al Lambro.

a) la merce-politica anzitutto: si presenta all'ingresso del prato come striscione-stand, libri riviste panini, tutti rigorosamente di sinistra e "rossi" ma perlopiù divisi per gruppo. Fenomenicamente uniti nell'immagine: uno stand vale l'altro. La gente accetta il rapporto, compra il panino. Ma é troppo caro. Il divario tra valore di mercato e prezzo imposto é troppo. Esplode la contraddizione del "prezzo politico": il "prezzo politico" di solito tende a smussare il carattere di merce perché la presenta come "servizio", come oggetto d'uso e non di "lucro". Poi tutti sanno che dentro v'é ugualmente contenuto quello che metaforicamente si chiama il "giusto profitto" (c'é un profitto "giusto"?), però psicologicamente si preferisce prescinderne. Qui invece il "prezzo politico" mostra la politica con un volto diverso: quello parassitario, quello che si paga sul mangiare, anzi sull'avanzo del mangiare. Per di più la cosa è aggravata dalla gestione clientelare degli stand: chi é del gruppo o simpatizza col gruppo viene gratificato col panino migliore, chi é esterno si prende la merda. Qualcuno di fronte a tanta realtà si incazza: "Compagni se voglio sottoscrivere, sottoscrivo, ma se voglio un panino non potete aggiungerci il prezzo della sottoscrizione". Rivendicazione giusta. Rivoluzionaria? No. Siamo sempre dentro il giusto prezzo, il giusto profitto, la giusta merce. Meno clientele, insomma, e poi non é il motivo per cui siamo tutti uniti contro la D.C.? Qui con "giusto profitto" molti intendono nient'altro che il mascheramento politico della merce, lo Stato Operaio che sul valore continua a vivere, però lo chiama "servizio". Viene il dubbio che i più lucidi siano gli altri, i parassiti. Ecco infatti uno che dice testualmente: "ce la prendiamo perché i prezzi degli stand sono troppo alti, ma compagni non dimentichiamo che questi soldi diventano volantini, manifesti, organizzazione, lotta di classe". Applausi. Mai frase fu più ben detta: i soldi diventano volantini, manifesti, lotta di classe.
Potenza dell'equivalente generale! x sterline = 20 libbre di tela= 1 Bibbia (diceva Marx) = 400 volantini = Xn lotta di classe, si può aggiungere). Insomma: la "politica" é dentro il ciclo. La politica é merce di scambio. La politica si paga sul lavoro. Chi vorrebbe nascondere il fatto e fare "lo stand benefico", pagato con le sottoscrizioni di qualche miliardario "democratico consegunte" (cioè: uno che paga per nascondere a sé e agli altri la natura di merce dei rapporti sociali), non é rivoluzionario: é un nostalgico d'un rito laburista che s'é rotto, d'un travestimento della merce che é caduto. La merce c'é, e si vede. E questa merce é la politica.
L'ultima maschera della politica é quella dell'Autonomia Operaia. La politica qui si presenta come antagonista alla merce, si presenta come esproprio, negazione apparente del rapporto di merce: "non ti pago". Ma questa negazione in quanto prescinde dal carattere specifico della merce (questa o quella, buona o cattiva) cioè dal suo reale godimento, nega proprio il suo lato concreto, d'uso, per affermarne il lato formale, l'astratto valore. La loro "festa" é sempre rito di merce. Assalto ai polli e polli in terra o gettati "alle masse" da qualche palchetto. I pirati amano il doblone perché sotto il doblone amano il rapporto di pirateria, il loro ruolo di espropriati-espropriatori, la loro immagine allo specchio (di subalternità rovesciata): di qui filibustiere, di là governatore. Si riappropriano con la merce, del rapporto di merce. Non sfuggono al ciclo, ci si divertono dentro. La politica qui raggiunge allora il massimo terreno di mistificazione, trasferisce la persona totalmente dentro il rito della merce (la persona, se un panino fa schifo o più semplicemente se non gli va, non lo tocca anche se é gratis, mentre il militante se ne appropria anche quando non ha fame perché ciò che serve, di cui ha fame, non é il panino, ma é il rapporto di merce amato-odiato che il panino esprime). Se bisogna contrattare il prezzo della merce oppure appropriarsene, é un problema della classe, é una variante dentro il ciclo (non é in sé più rivoluzionaria o più cosciente l'una cosa o l'altra). Il problema della persona e della coscienza rivoluzionaria, quella cioé che capovolge l'ordine di cose esistente, é la ricezione dell'oggetto, cioé la sua e la mia "qualità" che entrano in rapporto e come in questo rapporto posso far diventare la merce-cibo semplicemente cibo (gusto, nutrimento, piacere, non rapporto di classe) e la merce-politica semplicemente "liberi rapporti umani" (non pantomima speculare del rapporto di sfruttamento). La merce é là, non bisogna averne paura, né esorcizzarla anche perché ci conviviamo: bisogna frequentarla, amarla e assumerla ma non come valore bensì come uso, ricezione, stimolo, godimento, come insomma "qualità", cioè oggetto che si fa soggetto, "natura" che si fa "coscienza". La merce (l'ha detto Marx) esce dal ciclo quando uno la mangia, la consuma, la usa, quando ridiventa "cosa" buona o cattiva. Il rito-politica non può più permettersi di nascondere questa realtà, anche questa ambiguità al Lambro é stata rivelata.

b) la "merce-cultura" in un Festival-pop vive principalmente come musica. La polemica contro la "musica commerciale" é vecchia come il movimento giovanile e anch'essa manifesta lo stesso pavido tentativo di occultare la realtà (in ciò é stata maestra Stampa Alternativa). La musica, qualsiasi musica, in quanto dentro un rapporto di scambio. é merce, é quindi "musica commerciale". Il problema vero é: questa musica o quella musica? Di nuovo, il problema é la sua ricezione, il suo uso. Di solito invece si contrappone alla "musica commerciale" la "musica collettiva", quella che cioé ricrea il rito. Musica collettiva spontanea (tamburi battuti in cerchio fino alla noia) o musica cosidetta " di partecipazione". Questa seconda é una delle mistificazioni più grosse che il "movimento" abbia partorito. Quando Elvis Presley a Las Vegas durante l'esecuzione di "Love me tender" scendeva dal palco a baciare le giovani e a farsi baciare, questa era partecipazione. Partecipazione a un rito, a un'identificazione col divo. Il trucco di far battere le mani alla gente o di farli cantare in coro è noto alle suore quanto, sempre in campo musicale, a Bing Crosby. In gergo si dice che é una maniera per "risolvere": molti cantanti e gruppi tengono come pezzo finale il pezzo dalla ritmica più elementare così la gente batte le mani, il pezzo finisce in un crescendo di applausi, la gente applaude il divo, il divo applaude la gente, abbiamo fatto una bella festa in famiglia e vi regalo pure il bis. La musica del Lambro io l'ho sentita fino alla noia, l'ho ascoltata e riascoltata dal vivo e sui nastri registrati: ore e ore di musica. Un'analisi particolareggiata richiederebbe un discorso a parte. Sintetizzo e vengo al nocciolo del suo contenuto "rituale". Alla musica si chiedeva di rappresentare l'unità della gente del Lambro. Questo già costituiva una preclusione rispetto all'ascolto: la musica come espressione e comunicazione del gruppo x, come ricerca personale, partiva già compressa. Impossibile che neppure si presentasse "alla ribalta" quella che si prestava alla scomposizione del pubblico, a "ribaltare" una contraddizione tra la gente. E' interessante notare in alcune prestazioni musicali di livello, quelle per esempio della Taberna Mylaensis, del Canzoniere del Lazio, di Don Cherry, di Toni Esposito, come in genere i momenti di maggior "successo", individuati dalla quantità e dal calore degli applausi e dei consensi, siano inversamente proporzionali alla qualità musicale espressa.
Ci sono degli ambiti d'ascolto dove si crea quella "giusta" tensione psichica e corporale, quella "comunicazione" in cui la persona che trasmette qualcosa di sé dal palco riesce non solo a esprimersi pienamente, ma a "inventare", a comunicare oltre i confini previsti e prefissati, a scoprire se stesso, nuove parti prima all'oscuro della propria "musica interiore". Ci sono altre atmosfere, e questo era il Lambro, dove chiarissimo a tutti i musicisti era il fatto che ogni liberazione del personale sarebbe stata confusa con egotismo e quindi s'aveva da ricorrere ai trucchi del mestiere, al pezzo facile e di sicuro effetto, al gioco di bottega, cioé alle risorse del lavoro. Di nuovo: la merce. Ogni tentativo di sortita verso dimensioni sonore più godibili in un rapporto di persone, rilassate, emotive, aperte, era bollato da indifferenza o da caduta di tensione; mentre ogni ripiegamento sulla "partecipazione" furba, sulla presentazione "politica", sulla ritmica semplice, sull'effettismo, sulla "meccanica" professionale, sul rito collettivo suscitato dal solito atto magico sempre uguale a se stesso, era invece coronato dall'applauso, dal successo e quindi a sua volta ripagato in merce (dischi).
Ma c'è un livello anche più profondo: da un paio d'anni a questa parte c'é stata in Italia a livello musicale, pilotata dai festival pop, una grossa ripresa della ritmica: ritmica chiama corpo, corpo chiama sesso. La cosa dovrebbe essere positiva. Senonché la matrice originale di tutto ciò nasconde un'ambivalenza: c'é ritmica e ritmica, c'é quella del corpo e c'é quella del lavoro. La musica primitiva dove il lavoro é creativo ed é legato al ciclo della sessualità, nasconde questa ambiguità. Ma la musica del nostro tempo non può più celarla. Nella stessa ritmica africana e orientale d'altronde, il ritmo non è mero battimento, pulsione, ma é un vero e proprio linguaggio, esprime significati, comportamenti, contenuti umani. La nostra musica, soprattutto quella italiana di ascendenza contadina, esprime talvolta attraverso suoni onomatopeici questi significati (soprattutto allusioni erotiche), ma più spesso rimanda a una significazione di fondo che é appunto il lavoro, la scansione del ritmo di lavoro. Il rituale collettivo é in questo caso scandito da un gesto ripetitivo e uguale trasmesso da lavoratore a lavoratore. Ci si identifica in quanto "lavoratori".
Questa "musica del lavoro" é inutile nascondere che é stata la matrice della musica della sinistra italiana. L'altra matrice anch'essa d'origine "popolare" é la marcia, anch'essa a ritmo costante, deciso e scandito, gesti ripetitivi e uguali, cioé la musica marziale, che non é solo musica dell'esercito, ma anche musica "di lotta". Infine la musica da chiesa, corale, rituale, impostata anch'essa su un ritmo costante, su fasi semplici e ripetitive, slogan. Appare già una differenza sostanziale dalla ritmica africana, orientale e, in parte, afro-americana: qui proprio per un richiamo corporeo e/o "colto" più marcato, le varianti ritmiche si sovrappongono e/o trasmutano le une nelle altre. Invece nella nostra ritmica, le varianti tendono ad appiattirsi su un unico disegno battente sempre uguale a se stesso e perciò tanto più coinvolgente. Ma si tratta di coinvolgimento da "lavoro", da "milizia" (anche in servizio d'ordine), o da "religione-ideologia" (slogan ritmato, domanda-risposta, rito simbolico).
Se la musica deve esprimere l'unità politica del proletariato giovanile, é ovvio che essa deve negarsi come musica e ridursi a "suono del ciclo": lavoro, militanza e fede. Nello stesso tempo la musica esprime in termini astratti, mediati, ma più vicini al corpo, questi tre capisaldi della "coscienza di classe" e quindi a differenza della politica si presta meno alla rilevazione della contraddizione. E infatti al Lambro se la contraddizione della politica si é espressa, quella della cultura-musica non si é espressa o si é espressa in termini vecchi identificando cioé come merce solo la musica che non tracciava legame esplicito con lavoro-militanza-fede, l'altra invece era "musica nostra", era "partecipazione": eppure si trattava spesso d'una partecipazione allo stesso rito politico di merce che s'era in qualche modo smascherato. Qui, nella musica, l'ambivalenza é ancora da mostrare, può ancora trattarsi d'un terreno d'apparente unità. Il che per chi fa musica e per chi ama la musica costituisce un impegno a lottare in direzione della scissione, dello scioglimento dell'ambiguità, contro il "rito del lavoro" verso la "comunicazione tra persone". E anche al Lambro qualcuno c'é riuscito. E non é poco.

c) la "merce soggetto". Se già passando dalla "politica" alla "cultura" la contraddizione s'ammorbidiva e si celava, qui giunta alle soglie dell'io, la contraddizione si nascondeva proprio. La pulce nell'orecchio m'é venuta dalla solita banalità fenomenica: la gente aveva preso il palco e si alternava a parlare al microfono.
"Parlo io, parlo io", "No tocca a me" e via a strapparselo. Vabbé, mi dicevo, é il solito problema delle code. Poi ognuno si presentava:"Sono un compagno di ... ", oppure "sono un operaio...": che noia 'sti biglietti da visita. Poi "compagni" di qui, "compagni" di là. Ma che bisogno c'é... Infine il flash, l'ultima sconcertante osservazione. C'era il microfono, ben due enormi altoparlanti accesi, da supergruppo, la gente tutta sotto il palco praticamente a portata di voce naturale. Eppure chi parlava al microfono urlava. La mia stupida domanda interiore era dunque questa: il microfono é un raffinato strumento tecnologico atto ad amplificare le onde sonore: la sua specificità sta insomma nel fatto che permette di parlare a voce normale e di farsi intendere ugualmente a grandi distanze. "Ma allora perché urlano?" Urlare al microfono é un po' come mettersi l'apparecchio acustico quando si ha un ottimo udito, o anche come guardare un elefante con la lente d'ingrandimento. Eppure no, non é cosi.
A livello di espressività corporale nell'urlo al microfono s'esprime l'istinto di potenza, il potere sugli altri. Tutti piccoli Charlot che fanno Hitler. Allora: avevano preso il palco o erano stati presi dal palco? Cos'é il palco, se non qualcosa che ti mette sulla testa degli altri, e perché l'ossessione di prenderlo se non per mettersi sulla testa degli altri?
Questo é il gioco del palco. Che é anche il gioco del Soggetto. II Soggetto é colui che ha potere, e il potere é un palco. Ma i soggetti mutano e cambiano, si alternano a urlare al microfono, il palco resta perché il potere è lui. Il Soggetto é una "Cosa": il palco, e i soggetti che si definiscono tali solo in virtù della dimensione del palco sono soggetti fantasmatici, sono personaggi in cerca d'autore. E' il palco il vero Soggetto, é l'Autore, quello che ti presta voce e atteggiamento e ti trasmette gestualità. Anche qui: il palco, nonostante tutto, unisce. E' l'unità rituale che permette l'assemblea perché parlare in crocchio o a due, a tre, a quattro, pare non sia comunicazione interpersonale "verace": la comunicazione é assemblea e il palco ne é il Soggetto, e il soggetto singolo si pensa tale solo quando si toglie dalla sua soggettività reale di persona e si mostra come "figura del palco", perché la comunicazione non é da persone a persone ma da "soggetto politico" "coagulo di potere" "io urlante al microfono", a "masse" "classe" "compagni", unità indistinta di altri "soggetti politici" che anch'essa non s'esprime in sguardi, sensazioni tattili, parole chiare o sottintese, ma in urla applausi e fischi (o lattine). Ciclo del potere: la polvere e l'altare, con la polvere che da un momento all'altro ti può anche finire negli occhi. Altri non urlavano: erano lì a usare un microfono, una struttura casuale perché in quel momento era lì che si comunicava e comunicavano magari raccontando di sé, com'erano arrivati al parco, cosa gli era successo. Quelli sono scesi dal palco come ci sono saliti: hanno parlato lì come altrove. Anche qui, qualcuno c'é riuscito. E non é poco. Che siano sempre più soggetti a parlare e sempre meno "soggetti politici", sempre più "persone", e sempre meno "compagni".
Da «L'erba voglio» n. 27 - settembre/ottobre 1976

L'OFFENSIVA DEGLI OPERAI FIAT INDICA AL MOVIMENTO UN NUOVO TERRENO DI LOTTA E DI ORGANIZZAZIONE


Ancora una volta, lotta a oltranza alla Fiat. Come sempre, la lotta degli operai Fiat è, per la classe operaia in Italia, il segnale dell'attacco. E infatti, appena iniziata la oltranza e il blocco di Mirafiori, il movimento si è esteso rapidamente all'Alfa Romeo di Arese e di Pomigliano, all'Italsider di Taranto, Trieste, Genova, Bagnoli; all'Olivetti di Ivrea, alla Zoppas, alla Fiat di Cento. Un meccanismo generale di ripresa dell'offensiva operaia - che già si era da parecchie settimane rimessa in moto a partire dalla Fiat, dalla Pirelli, dall'Alfa Romeo - ha ricevuto la sua decisiva accelerazione.
Una cosa è certa: è fallito il tentativo dei padroni di assicurarsi la tregua sociale e su questa base di avviare un processo di generale ristrutturazione della fabbrica e della società, per ribadire il loro dominio sugli operai, per distruggere l'unità e la forza che la classe operaia ha accumulato in questi anni di lotte. Una cosa è chiara: non è passata la manovra dei padroni, che tendeva a rovesciare contro gli operai gli effetti della crisi economica e politica a cui in primo luogo le lotte, in secondo luogo le loro contraddizioni interne hanno inchiodato il sistema capitalistico. Lo scorso autunno doveva essere l'autunno dei padroni, l'occasione buona per sconfiggere lo straordinario movimento nato nel '68-69 nelle fabbriche italiane. A questo, a mettere in ginocchio gli operai, doveva servire la crisi energetica, e l'inflazione. Dovevano servire a dire agli operai: «Se volete mantenere le vostre attuali condizioni di vita, dovete lavorare di più, tornare a farvi sfruttare al limite delle vostre possibilità. La "festa" è finita». Ma gli operai non hanno nessuna voglia di aiutare il padrone per farsi mettere i piedi sulla testa. E così la risposta è arrivata, l'iniziativa è tornata in mano agli operai. È possibile parlare di apertura di un nuovo ciclo di lotte operaie.
Ma la lotta operaia nella crisi ha un carattere particolare: è necessariamente lotta politica, non semplicemente rivendicativa. Si gioca sul terreno del potere, non della trattativa. Da che esiste il capitalismo, quando il padrone non ha margini riformistici (cioè non può e non vuole concedere nulla), o gli operai piegano la testa e accettano la sconfitta, o devono organizzarsi sul terreno dello scontro violento. In altre parole: nella crisi, o la lotta è generale, politica, organizzata e armata, o non è. Gli operai si trovano di fronte tutta la struttura di comando dei padroni, dalla fabbrica allo Stato: e allora è il terreno del potere, dei rapporti di forza generali, è il problema della guerra di classe che viene in primo piano.
Questa è la situazione attuale dello scontro di classe in Italia. I padroni e i loro rappresentanti politici, da un lato, hanno continuato a provocare la collera operaia con una serie continua di manovre di aperta violenza anti-operaia: il razionamento, la austerity, l'attacco forsennato al potere d'acquisto dei salari, i licenziamenti, l'intensifìcazione dello sfruttamento in fabbrica. Gli operai, dal canto loro, hanno ricominciato con gli scioperi, con le fermate selvagge, i cortei che spazzano le fabbriche; i pestaggi dei capi, dei crumiri, dei dirigenti, i picchetti duri, i cortei «armati», dentro e fuori la fabbrica.
Tutto questo esprime la volontà degli operai di rompere la camicia di forza della tregua, del cedimento, che il sindacato e i partiti riformisti vogliono stringere attorno alle lotte. Gli operai hanno ben chiaro in testa che il «compromesso storico» con il padrone rappresenterebbe la loro sconfitta generale, la liquidazione di tutto quanto in questi anni si sono conquistati come potere di organizzazione e di lotta. Per questo hanno cominciato a preparare lo sciopero del 27, rilanciando la massiccia offensiva di questi giorni. Il 27 doveva essere l'occasione - passaggio iniziale ma essenziale - di un rilancio della contrattazione della tregua fra sindacati, padroni, governo; gli operai vogliono farne un'occasione di scontro che indichi quale dovrà essere la qualità, il percorso, il tipo di lotta nella fase che si apre.
Questo foglio d'agitazione, che Potere operaio propone come strumento di organizzazione a tutte le avanguardie comuniste, vuole essere un frammento di iniziativa in questa direzione. Questo strumento ha un senso, se viene sottratto a una dimensione di gruppo e diventa voce di un processo, ben più ampio e significativo, di organizzazione operaia.
Questo strumento ha un senso, se si lega alla costruzione di momenti organizzati: di unità delle avanguardie, di elementi di organizzazione operaia di attacco.
È di qui che si comincia a costruire il partito della guerra al lavoro, il partito armato degli operai comunisti. A un nuovo ciclo di lotte deve oggi corrispondere un nuovo ciclo di organizzazione. Vogliamo raccogliere e rilanciare il segnale d'attacco delle avanguardie operaie della Fiat, che preparano per il 27 una grande giornata di lotta, un momento di scontro politico che mandi all'aria il piano padronale di sconfitta operaia, il piano sindacale di tregua e di cedimento.
In questa settimana, prima e dopo lo sciopero generale del 27, questo giornale uscirà ogni giorno, per costruire dentro il movimento delle lotte una scadenza significativa, che sposti, ancora una volta in avanti il terreno dello scontro.

da «Fuori dalle linee» n. 1, Torino, Febbraio 1974

RECENSIONE A STORMING HEAVEN


di Sergio Bologna
(Storming Heaven. Class composition and struggle in Italian Autonomist Marxism, by Steve Wright, Pluto Press, London 2002)

È il risultato della ricerca condotta per una tesi di laurea e come tale è il primo lavoro che affronta una ricostruzione storica del pensiero e della pratica militante dell'operaismo italiano secondo i criteri di analisi critica delle fonti, con il necessario distacco dalle vicende ma anche con una capacità di comprensione, che deriva da un forte sentimento di partecipazione personale e di condivisione delle ragioni dei movimenti rivoluzionari.
È il primo libro di storia sull'operaismo italiano, che interrompe la linea memorialistico-autobiografica dei materiali finora disponibili e la diffusa produzione di giudizi sommari e generalmente liquidatori. Dovendo scegliere un filo conduttore attraverso questa singolare vicenda intellettuale e politica, Wright ha optato per il concetto di "composizione di classe", riconoscendone in tal modo quel valore che una parte degli operaisti stessi ha avuto difficoltà a riconoscergli, perché lo mettevano in secondo piano, come criterio di pura ricerca empirica, rispetto alla "grande teoria politica" (sullo stato, sul partito, sulla rivoluzione, sulla classe, sul general intellect e così via).
Giustamente Wright sottolinea che il concetto di "composizione di classe" ha uno stretto legame con l'approccio della "conricerca" ed ambedue rimandano ad un modo, caratteristico degli operaisti italiani, di instaurare una collaborazione tra intellettuali e operai o tra intellettuali e proletari in senso lato, fondata su delle ragioni diverse da quelle che hanno caratterizzato il rapporto tra partito e classe nella II, III e IV Internazionale. Gli operaisti italiani non hanno voluto essere "la guida" della classe, non hanno voluto essere ceto politico, non hanno voluto essere un "partitino", vivendo fino in fondo la contraddizione tra chi esercita teoria politica ed al tempo stesso rifiuta i modelli organizzativi tradizionali.
Chiedendosi perché l'operaismo italiano è rimasto a lungo ignoto nel mondo anglosassone, Wright nota che solo grazie all'opera di alcuni volontari, come Ed Emery, sono state create le condizioni linguistiche perché gli scritti di Negri, di Tronti, di Alquati, di Virno abbiano potuto circolare. A questo probabilmente dobbiamo aggiungere oggi lo straordinario successo di pubblico di "Empire" di Toni Negri e Michael Hardt.
Il primo capitolo del libro è dedicato ad una breve ricostruzione delle correnti e delle personalità politiche che nel primo dopoguerra, anni '40 e '50, in Italia hanno cercato un'alternativa "di sinistra" alla politica del PCI e di Togliatti in particolare. Vengono in luce subito le figure di Morandi e di Raniero Panzieri, fondatore e animatore della rivista "Quaderni Rossi", nella cui redazione si sono ritrovati per la prima volta tutti i protagonisti della vicenda dell'operaismo italiano.
Il capitolo successivo è di notevole rilievo, perché espone con molta chiarezza il quadro teorico fondamentale dell'operaismo italiano attraverso una lettura intelligente degli scritti di Mario Tronti su fabbrica e società, pubblicati nei "Quaderni Rossi". Sono scritti che innovano il marxismo del Novecento, attraverso una rilettura/reinterpretazione del II libro de "Il Capitale" di Marx, riuscendo a introdurre elementi di grande originalità (Tronti's discoveries). Tronti pone i "fondamentali" dell'operaismo. Lo stesso concetto di "composizione di classe" non è che un tentativo di tradurre in pratica alcuni concetti che Tronti per primo ha esplicitato. Aver capito appieno l'importanza e il significato degli scritti di Tronti in quel periodo dà a Steve Wright la chiave di lettura giusta per ricostruire la storia dell'operaismo italiano. Al tempo stesso Wright coglie la "novità" dei "Quaderni rossi" e la "scossa" che questa pubblicazione impone al movimento operaio italiano per risvegliarlo dalla crisi che lo aveva colpito, anche sul piano intellettuale, dopo le sconfitte dei primi Anni 50. Questa "novità" è rappresentata dall'"inchiesta operaia". Da dove bisogna ripartire? Dalla conoscenza della classe operaia, della "nuova" classe operaia, anzi dalla comprensione delle mentalità delle nuove generazioni, di quelle che avevano difeso la democrazia dai rigurgiti neo-fascisti, scontrandosi in piazza con la polizia nel luglio del 1960. La figura centrale dell'"inchiesta operaia" (cioé dell'approccio marxiano, anche in questo caso) è Romano Alquati, che mette a punto la metodologia della "conricerca" assieme a Romolo Gobbi e Gianfranco Faina (un nome che non compare nel libro di Wright ma che ha avuto un'enorme importanza in questa primissima fase dell'operaismo italiano). Faina era un docente di storia dell'Università di Genova, (la città epicentro dei moti di piazza del luglio 60 che hanno bloccato l'esperimento neo-autoritario del Governo Tambroni), prenderà parte all'esperienza di "classe operaia" ma non a quella di Potere Operaio, negli Anni 70 avrà dei rapporti anche con gruppi di origine anarchica che praticavano forme di lotta armata, verrà rinchiuso in carcere e morirà di cancro in carcere nel 1981 (v. il ricordo pubblicato su "Primo Maggio", n. 19/20, inverno 1983/84 da Rinaldo Manstretta e Pierpaolo Poggio). Al contributo di Alquati, in questa fase che precede la nascita dell'operaismo vero e proprio, Wright dedica le pp. 46-58 del suo volume, mentre le pagine precedenti (41-46) sono dedicate al contributo di Panzieri. Il quale aveva aperto nuovi orizzonti teorici con la rilettura del I Libro del Capitale e quindi aveva focalizzato il suo ragionamento sul rapporto tra classe operaia e innovazione tecnologica ("il problema delle macchine"), traendone conclusioni di forte critica alla cultura sindacale della CGIL per la sua subalterna accettazione dello sviluppo capitalistico. Panzieri pone un problema che avrà importanti sviluppi nei "Quaderni rossi" e dopo: è possibile una sociologia del lavoro e dell'industria che non sia al servizio dell'innovazione tecnologica ma al servizio delle lotte operaie? Com'è noto, da questa sollecitazione di Panzieri nasce un modo di fare sociologia diverso, che sarà di riferimento ad alcuni dei maggiori sociologi italiani (Rieser, Mottura, Paci ed altri) presenti allora nella redazione dei "Quaderni rossi".
Perché Panzieri rompe con tutti quelli che successivamente daranno vita a "classe operaia", la rivista con cui nasce l'operaismo italiano? Perchè Tronti, Negri, Alquati escono da "Quaderni rossi"? Steve Wright dà una risposta sfumata a questo interrogativo ma quel poco che dice corrisponde alla realtà: il progetto politico di Panzieri era quello di produrre una svolta "all'interno" del movimento operaio, della CGIL, del PSI (dove era stato membro del Comitato Centrale) e del PCI. Il progetto degli altri era quello di sperimentare un nuovo modo di fare politica con la classe operaia, di creare un nuovo movimento che aprisse l'èra post-comunista. Qui la figura ed il ruolo di Toni Negri diventano centrali, decisive. Nessuno come lui aveva la "volontà" di buttarsi in un'impresa del genere, anche se egli in tutti i modi cercò di convincere Panzieri e Rieser che la sua era la strada giusta (la rottura definitiva, nei primi di settembre del 1963, si consumò a casa mia a Milano, anzi, più che una casa era una stanza dell'appartamento che dividevo con altri due compagni del gruppo dei "Quaderni rossi"). Scegliere o meno di collocarsi dentro la tradizione del movimento operaio significava anche condividere o meno certe forme di lotta selvaggia in fabbrica o violente di piazza, come quelle che scossero Torino nell'estate del 1962, conosciute come gli "scontri di Piazza Statuto", dove gli operai diedero anche l'assalto alla sede di un sindacato accusato di schierarsi dalla parte del padronato.
Il terzo capitolo è dedicato interamente all'analisi degli scritti di Tronti e Alquati nella rivista "classe operaia" ed alle discussioni, alle polemiche che questi scritti hanno suscitato. Manca invece una storia della rivista in tutte le sue sfaccettature, manca in maniera evidente un'analisi del ruolo e del contributo di Toni Negri, manca una messa in rilievo dell'internazionalismo degli operaisti italiani, quindi della formazione dell'idea dell'operaio multinazionale, manca l'intensificazione dei rapporti con la sinistra di classe americana, dove Ferruccio Gambino svolse un ruolo fondamentale. Tutti aspetti che in seguito caratterizzeranno fortemente l'azione e soprattutto la presa della metodologia operaista presso il movimento studentesco del '68, i comitati di base del '68/'69 e i movimenti degli Anni 70. Ne viene fuori un operaismo ridotto a poche tematiche, sia pure essenziali.
Essenziale indubbiamente fu la svolta che Tronti impresse al suo stesso pensiero con l'articolo di fondo del n. 1 di "classe operaia" intitolato "Lenin in Inghilterra". Questo articolo apriva la fase "forte" dell'operaismo e al tempo stesso poneva le premesse per la sua prima crisi, che si concluse con una nuova rottura, la chiusura della rivista due anni dopo e l'ingresso (o il ritorno) di personalità di rilievo, come Tronti stesso, Asor Rosa e Rita Di Leo nel PCI. Quell'articolo riportava in campo la tematica del partito (chiamata allora la tematica della "tattica") e richiamava i militanti a misurarsi con la politica istituzionale. D'altro lato si arricchiva lo strumentario teorico con il paradigma della "società-fabbrica". Romano Alquati e altri, in particolare i compagni che agivano nelle città con forte presenza operaia (Milano, Torino, Porto Marghera), cercavano di capire le dinamiche dei movimenti della classe operaia, per anticipare i momenti di rivolta, di sciopero, e poterli collegare tra loro. Gli operaisti si sentivano al servizio della "ricomposizione di classe". "classe operaia" non solo fu uno straordinario laboratorio di idee ma mise in moto nelle città in cui c'erano dei militanti attivi una serie di esperienze politiche di avanguardia che si diffusero in molti ambienti. A Milano nel 1964 i volantini di "classe operaia" nelle fabbriche (si coprivano con azioni di intervento politico al primo turno anche 15 grandi fabbriche simultaneamente, tra Milano, Sesto San Giovanni ed altre zone dell'Hinterland!) contribuivano a far partire lotte improvvise all'Innocenti, fabbrica di motoleggere e di automobili, con cortei operai che invadevano la città. Il movimento studentesco di Trento, l'Università fondata nel 1965 che sarà uno degli epicentri della lotta degli studenti nel 1968, conoscerà Jimmy Boggs grazie a "classe operaia" in un'assemblea-dibattito entusiasmante (ricordo la faccia felice di Jimmy che mi abbracciava dopo l'entusiastica accoglienza che riservarono a lui ed a Grace Lee gli studenti), il gruppo di giovani filosofi dell'Università di Milano, allievi di Enzo Paci (Nanni Filippini, Giairo Daghini, Paolo Gambazzi, Guido Neri, Paolo Caruso) e di psicologi allievi di Cesare Musatti (Renato Rozzi) avranno stretti rapporti con "classe operaia". L'operaismo esercitava per le sue posizioni innovative un forte fascino su tanti giovani intellettuali già prima del '68. Oppure gli architetti, gli urbanisti e gli studiosi del territorio che introdurranno nella loro disciplina le tematiche dell'operaismo, come Alberto Magnaghi, di Torino, che sarà segretario generale di Potere operaio nel 1971, e tanti altri. Quando chiude, nel 1966, "classe operaia" ha già formato un nucleo di "nuovi" militanti della generazione più giovane che svolgeranno un ruolo decisivo nel '68 e per tutti gli Anni 70. Molti di essi sono ancora sulla breccia. Quando il gruppo della redazione di "classe operaia" si scioglie, iniziano, per così dire, i preparativi per il '68. Steve Wright mette in evidenza due aspetti importanti, l'introduzione della tematica dei "tecnici" (che avrà molta presa nelle facoltà scientifiche e nei Politecnici) e la partecipazione di alcuni operaisti italiani al maggio francese, seguita dalla pubblicazione di articoli che offrivano una lettura complessiva della rivolta degli studenti e degli operai di Parigi. L'esperienza francese viene trasmessa e "filtrata" in Italia dagli operaisti. Altre lacune nel libro di Wright riguardano la dinamica che portò all'intervento alla Fiat di Torino nella primavera del 1969. Probabilmente, per ricostruire con precisione questo, che fu un passaggio fondamentale per l'operaismo italiano, anzi, senza dubbio, la sua maggiore vittoria, sarebbe stato necessario avere a disposizione materiali d'archivio difficilmente reperibili, in particolare i volantini che si distribuivano allora nelle fabbriche (questi materiali si trovavano nelle collezioni private dei singoli militanti, ma per la maggior parte sono stati sequestrati e distrutti durante e dopo l'ondata di arresti del 1979). Un ruolo fondamentale ebbero anche i due opuscoli di Linea di massa. Il primo, "Lotte alle Pirelli", fu scritto sulla base della testimonianza di uno dei fondatori del Comitato di Base della Pirelli di Milano, il compagno Raffaello De Mori, il secondo "Lotte dei tecnici alla Snam Progetti", il laboratorio di ricerche dell'Ente Nazionale Idrocarburi (ENI) di San Donato Milanese, fu scritto sulla base delle testimonianze dei tecnici del Comitato di Base (l'ENI è l'industria petrolifera di Stato), che hanno mantenuto una presenza militante sul territorio fino ai nostri giorni. Questi due opuscoli insieme al giornale "La Classe", il cui primo numero fu diffuso il 1 maggio 1969, un mese prima dello scoppio delle lotte spontanee alla Fiat di Torino (giugno-luglio 1969), rappresentano l'apice della parabola dell'operaismo italiano. Negli anni cruciali per il destino del movimento rivoluzionario in Italia, 1967, 1968, primavera 1969, Milano e il suo Hinterland sono i luoghi dove si incrociano e convivono tutte le esperienze più avanzate, dai gruppi che si ricollegano alla rivoluzione cinese (Edizioni Oriente), alle reti di sostegno alla guerriglia latino-americana in Venezuela, Bolivia, Perù (Centro Frantz Fanon), dalle case editrici e dai centri di ricerca storica (Feltrinelli Editore, Biblioteca G.G. Feltrinelli, Edizioni Avanti!) alle redazioni di riviste d'avanguardia come "Quaderni Piacentini", dai centri di studio delle culture contadine (Istituto Ernesto de Martino) ai centri di raccolta dei canti popolari (Nuovo Canzoniere Italiano), dalle concentrazioni operaie del ciclo dell'auto (Alfa Romeo, Innocenti, O.M., Pirelli, Magneti Marelli), alle fabbriche chimiche e farmaceutiche (Snia Viscosa, Montecatini, Farmitalia, Carlo Erba), dalle fabbriche della meccanica pesante e della meccanica fine (Siemens, Breda, Falck, T.I.B.B.) ai laboratori dell'industria petrolifera dell'ENI e agli uffici di design industriale e di grafica pubblicitaria dell'Olivetti. Tutti questi luoghi sono stati attraversati o sono stati contaminati dall'operaismo negli Anni 60. Dopo lo scoppio delle lotte Fiat e del ciclo di scioperi del cosiddetto "Autunno Caldo" (giugno-dicembre 1969), non è un caso che proprio a Milano inizino le stragi del terrorismo di stato (12 dicembre 1969, bomba di Piazza Fontana). Qualche settimana prima era stato arrestato Francesco Tolin, direttore responsabile di "Potere Operaio".
La storia degli operaisti negli Anni 70 - quando pochi tra loro si definivano ancora "operaisti" - è la storia di un paradosso. Sul piano dell'organizzazione dei movimenti il loro ruolo fu decisamente minoritario. Ma proprio la demonizzazione di "Potere Operaio" e poi dell'Autonomia Operaia da parte dei media permise all'operaismo di sopravvivere a se stesso. Steve Wright coglie giustamente l'intrinseca debolezza teorica e politica di "Potere Operaio". Il gruppo di militanti, ormai emarginato dalle lotte di fabbrica, gira a vuoto, cercando nuovi punti di riferimento (le lotte dei neri afroamericani, dei disoccupati meridionali) e, non trovandoli, accentua il carattere volontaristico, tardoleninista, della sua azione militante. La rivolta delle donne, che parte dall'interno di "Potere Operaio" e porta alla formazione del primo gruppo femminista italiano, comincia a rendere evidente la crisi dell'organizzazione. A molti anni di distanza si può dire veramente che la fondazione del gruppo politico "Potere Operaio" fu una forzatura (di cui io stesso sono stato responsabile). Essa appare tanto più grave se mettiamo a confronto la povertà di "Potere Operaio" con la ricchezza inesauribile delle esperienze diffuse degli Anni 70, con la creatività e l'ottimismo con cui si cercò di "rovesciare il mondo", cioè di cambiare il segno delle cose, nelle professioni, nella vita quotidiana. L'organizzazione di base nelle fabbriche, riconosciuta dai sindacati, coinvolse decine di migliaia di operai e impiegati. Le lotte nell'istituzione ospedaliera, nella scuola, nel mondo dei trasporti determinarono un ciclo decennale. Cos'era di fronte a questo l'azione di un piccolo gruppo, che aveva avuto il merito di fecondare lo spirito di rivolta ma che non aveva l'umiltà di riconoscerlo e di sciogliersi dentro questa realtà infinitamente più ricca dei suoi asfittici proclami? A parti alcuni, come me ed altri, che uscirono dopo pochi mesi, fu Toni Negri ad accorgersene per primo, quando riuscì a costruire quel notevole laboratorio di formazione e di trasmissione di idee che si raccolse attorno alla collana "Materiali marxisti" dell'Editore Feltrinelli. Testi come Operai e Stato, Crisi e organizzazione operaia, L'operaio multinazionale ed altri lasciarono il segno. Eppure va riconosciuto anche che "Potere Operaio" marchiò i compagni che ne fecero parte, segnò la loro vita per sempre, lasciò l'impronta di un radicalismo delle idee che nessun'altra esperienza in nessun altro gruppo ha potuto o voluto eguagliare. Fu però un fatto "privato", il movimento andava avanti per conto suo, senza bisogno degli operaisti. S'instaura quindi una dinamica, che Wright non ha difficoltà a individuare, di formazione di un "ceto politico" come corpo separato. La tematica dell'"insurrezione all'ordine del giorno" riporta "Potere Operaio" indietro di 50 anni, con la riproposizione di atteggiamenti "bolscevichi", che sono la negazione delle premesse stesse dell'operaismo. Se avesse potuto restare il più "a sinistra" dei gruppi extraparlamentari, forse "Potere Operaio" avrebbe saputo ritagliarsi un suo spazio, ma da quando cominciano ad agire i gruppi della cosiddetta "lotta armata", le Brigate Rosse ed altri, per "Potere Operaio" è finita. "The most valuable lesson on 1960s - the attentive study of working-class behaviour - was to be sacrificed in a greater or lesser degree to political impatience and an increasingly rigid conceptual apparatus" (p. 151).
I due capitoli successivi del libro sono dedicati rispettivamente a Toni Negri ed alle sue teorie dell'operaio sociale ed al lavoro della rivista "Primo Maggio". E' una scelta curiosa e interessante quella di mettere insieme in un unico percorso politico l'azione militante di un gruppo, quello che faceva capo a Toni Negri ed alla rivista Rosso, che concepiva la propria missione ancora in termini di organizzazione politica (per quanto non separata dal movimento ma intrinseca al movimento stesso) e l'azione di un gruppo che concepiva se stesso come semplice redazione di una rivista. Si tratta di due piani completamente diversi perché all'origine ci sono impostazioni politiche differenti e divergenti. Quanto il lettore riesca a percepirlo leggendo la ricostruzione di Steve Wright, rimane dubbio. Perciò è una scelta che a prima vista sconcerta. Il capitolo su Toni Negri soddisfa bene il bisogno di comprendere cos'era questa "Autonomia Operaia", sia come forma della politica sia come teoria della rivoluzione. Ma occorre separare bene la fase di incubazione di questa nuova tendenza (1973-75) dalla fase in cui essa si incontra con un movimento "nuovo", con il primo movimento post-68, con una generazione diversa da quella che si era formata dieci anni prima. La rivista Rosso sta al movimento del '77 (fu chiamato così dall'anno in cui esplose in Italia per breve durata) quanto "classe operaia" stava al movimento del '68. A Padova e nel suo Hinterland si forma una nuova struttura organizzativa, in parte dalle ceneri di "Potere Operaio", in parte da questa nuova generazione di militanti cresciuta dopo il '68, che si definisce "Autonomia Operaia" ma è formata in gran parte da studenti e proletariato giovanile. Anche se analoghe strutture nascono in altre città, in parte dalle ceneri dei gruppi extraparlamentari, in parte dalle nuove generazioni, quella di Padova (e poi di Mestre-Venezia), malgrado l'incarcerazione di quasi tutti i suoi partecipanti negli anni 1979, 1980 e 1981 (chi non fu arrestato si rifugiò all'estero) rimase la più forte e la più duratura, creando quel tessuto che a tutt'oggi rappresenta una delle realtà più forti del movimento italiano, un movimento che negli anni ha cambiato radicalmente la sua natura, in particolare nel rifiuto della violenza e delle azioni di lotta violenta.
"Primo Maggio" è tutta un'altra storia. E' vero che fu fondato da alcuni compagni di "Potere Operaio" (Lapo Berti, Franco Gori, Andrea Battinelli, Guido de Masi, io stesso) ma la sua caratteristica fu quella di impiantarsi su una rete di iniziative di autogestione della cultura politica e della formazione "a servizio del movimento". La libreria Calusca di Primo Moroni a Milano fu la più originale e importante di queste iniziative. Se "Primo Maggio" non si fosse innestato in questa rete, non avrebbe mai esercitato l'influenza che solo oggi le viene riconosciuta. Da questo punto di vista, Steve Wright ha ragione a inserirlo nella tradizione dell'operaismo italiano, anzi, mentre "Primo Maggio" si riconosceva esplicitamente in quella esperienza e ne rivendicava apertamente la continuità, per Negri già nel 1973 l'operaismo era morto, per Negri la storia dell'operaismo si era conclusa con la fine di "classe operaia". La seconda ragione per la quale "Primo Maggio" fu una rivista che seppe produrre qualcosa di nuovo e di interessante per il futuro, sul piano dell'analisi del capitale finanziario, del welfare state, della storiografia, della composizione di classe, va individuata nella presenza, all'interno della sua redazione, di compagni che provenivano (anche per ragioni di età) da esperienze diverse da quelle dell'operaismo "classico", come Cesare Bermani, Bruno Cartosio, Marco Revelli, Christian Marazzi, Marcello Messori. Ma quale era la fondamentale differenza tra "Primo Maggio" e l'Autonomia Operaia, tanto che mi sembra scorretto e fuorviante metterli nello stesso calderone? La differenza di fondo stava nella concezione del proprio ruolo di intellettuali. A noi di "Primo Maggio" interessava cambiare le regole dello statuto delle discipline, interessava innovare il metodo della storiografia, della sociologia, dell'economia, della politologia. Ci sentivamo molto vicini a riviste come "Sapere", che svolgeva analogo ruolo nei confronti delle discipline scientifiche (la fisica, la medicina ecc.) ma poiché nessuno di noi pensava di essere un nuovo Braudel o un nuovo Einstein o un nuovo Weber, ritenevamo, come i compagni di "Sapere", che alla fine l'obbiettivo più importante fosse quello di cambiare il "ruolo sociale" del docente universitario, del medico, del fisico, del sociologo, dell'avvocato, dell'architetto. In tal senso andava cambiato anche il ruolo sociale dell'"intellettuale politico", che non doveva essere un nuovo Lenin o un nuovo Robespierre, ma un "prestatore di servizi" al movimento diffuso, in grado di offrire al movimento una migliore comprensione di se stesso, di aprirgli nuovi orizzonti. Nacque così la precoce percezione che il modo di produzione fordista stava esaurendosi per lasciare il posto a un nuovo modo di produzione, per convenzione ormai chiamato "postfordista", che conteneva in sé sia elementi di liberazione dal lavoro sia elementi di maggiore sfruttamento capitalistico.

Steve Wright di questa complessa parabola ("Primo Maggio" apre nel 1973 e chiude nel 1986) coglie alcuni aspetti essenziali, in particolare sottolinea il modo caratteristico e originale in cui "Primo Maggio" affrontò il problema della storia e della memoria, anticipando la battaglia su un tema che alcuni anni dopo diventerà esplosivo in seguito all'offensiva del revisionismo storico.
Nell'ultimo capitolo, "The collape of workerism", Wright prende in considerazione l'atteggiamento verso il movimento del '77 dei gruppi politici dell'Autonomia Operaia e delle forze intellettuali attorno a "Primo Maggio". Sembra l'ultimo sforzo di una generazione politica nata negli Anni 60 di tenere il passo degli eventi, con fatica ma, a rileggere quanto scrivemmo allora, con dignità. Gli eventi però correvano troppo e ci travolsero. Nel 1978 il rapimento di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse cambia completamente il clima all'interno dei gruppi dell'Autonomia Operaia, che si sentono schiacciati tra lo Stato che si riorganizza per rispondere all'attacco terroristico e i gruppi armati che "alzano il tiro". Nel 1979 Toni Negri e tutti i compagni che avevano fatto parte di "Potere Operaio" fino al 1973 vengono arrestati, altri fuggono all'estero (alcuni si trovano ancora in esilio). Nel 1980, in autunno, la Fiat decide di licenziare in massa, nasce una lotta che ormai è perduta in partenza, uno sciopero che dura 35 giorni e che si conclude con la più cruda e profonda sconfitta operaia in Italia dal 1950. Per capire con quale drammaticità gli operai Fiat vissero umanamente questa sconfitta, basterà dire che nei mesi successivi si registrarono più di un centinaio di casi di suicidio. I militanti dei movimenti arrestati o costretti a fuggire all'estero furono circa 5.000, circa 1.000 quelli che subirono ai processi condanne superiori ai 10 anni di carcere. Invece di soffermarsi su questi eventi, che sono noti e sui quali esiste un'ampia letteratura, Wright preferisce soffermarsi in dettaglio sulla dinamica che ha portato all'ultimo scontro di classe alla Fiat (1978-80), nel paragrafo intitolato "The family Gasparazzo goes to Fiat". E' stata anche l'ultima "inchiesta" dell'operaismo condotta alla Fiat.
Nelle sue brevi conclusioni Wright enumera i lati deboli dell'operaismo, che sono forse alla base della sua estinzione come teoria politica del presente: "The first of these consists in its penchant for all-embracing categories that, in seeking to explain everything, too often would clarify very little (...) another of the more obvious weaknessess of Italian workerism ...would be a too narrow focus upon what Marx termed the immediate process of production as the essential source of working-class experience and struggle" (p. 225) E il terzo lato debole sarebbe la "political impatience". Non si può che essere d'accordo con lui, ciononostante è anche vero, come aggiunge in seguito, citando un compagno inglese che "the questions that it posed then, as two decades before, stubbornly refuse to go away" e che, citando un compagno italiano, "the best way to defend workerism today is to go beyond it" (p. 227).
Per concludere questa recensione che, forzatamente, oltre che una recensione è una testimonianza, diremo che il merito maggiore del libro è l'aver capito lo spirito (e la lettera) degli scritti dell'operaismo, compito non facile per uno straniero. Non minore è il merito di aver saputo collocare questi scritti in rapporto con gli eventi che li avevano determinati, ed infine - cosa per cui tutti gli operaisti dovrebbero essere grati a Wright - di aver riconosciuto lo spessore, la complessità dei ragionamenti, spezzando in tal modo una tradizione dove l'operaismo o era preso a calci o era idealizzato, senza entrare nel merito delle sue ragioni. Ovviamente le lacune sono molte, riguardano soprattutto il contesto sociale e politico, ma ciò è giustificabile perché di quella ricchissima articolazione di esperienze del movimento in Italia, negli Anni 70, ben poco è rimasto come testimonianza scritta e quel che è rimasto o pecca di eccessivo soggettivismo o di eccessivo schematismo. I libri di storia sugli Anni 70 in Italia mancano, mentre abbondano le deformazioni e su tutto incombe la versione ufficiale che sono stati solo "anni di piombo". Né Steve Wright ha potuto utilizzare le circa 50 testimonianze che gli operaisti degli Anni 60 hanno rilasciato a dei giovani studiosi, militanti dei movimenti del nuovo millennio, allievi di Romano Alquati. Un fatto curioso e singolare, che ha stupito gli stessi, se si pensa che ci sono tra noi persone che da decenni non si parlavano o non avevano più alcun rapporto personale, nemmeno sul piano umano, tanto divergenti sono stati i percorsi individuali. Ed un bel giorno del 2000 accettano di riconoscersi in una comune tradizione, senza rinnegare il passato, pur criticando le proprie esperienze. Questo volume, "Futuro Anteriore. Dai '"Quaderni rossi"' ai movimenti globali: ricchezze e limiti dell'operaismo italiano", a cura di Guido Borio, Francesca Pozzi, Gigi Roggero, pubblicato dalle edizioni DeriveApprodi nel febbraio 2002, con allegato CD Rom delle interviste, meriterebbe una recensione, se lo spazio- di cui già troppo ho abusato - lo permettesse. E' un caso se gli stessi autori di questo volume sono oggi tra quelli che maggiormente contribuiscono alla formazione dei giovani dei "nuovi movimenti" partiti da Seattle e da Genova (v. il sito www.conricerca.it)? Il seme dell'operaismo quindi può essere ancora fecondo, proprio nel momento in cui - vendetta della storia! - collassa la Fiat, distrutta da un management incapace e irresponsabile, inaridita da una forza-lavoro passiva e subalterna, complice una Sinistra politica e sindacale che ha condiviso le scelte strategiche del padronato italiano, limitandosi a ricavarne qualche utile per sé, complici i governi di centro-sinistra che hanno spinto al massimo la finanziarizzazione dell'economia. La Fiat uscì piena di energie innovative dopo dieci anni di conflittualità operaia (1969-1980), dopo ventidue anni di pace sociale (1980-2002) ne esce a pezzi. (Non erano stati gli operaisti a dire che la lotta operaia accelera lo sviluppo capitalistico?)
Concludo con un interrogativo, che interessa coloro, se ci saranno, che in futuro riprenderanno in mano la storia dell'operaismo. E' possibile applicare la categoria della continuità a questo movimento? La categoria della continuità non fa parte del modo tradizionale di fare storia? Non è propria della storia delle dinastie, dei partiti? Ma chi si è messo fuori sin dall'inizio da una prospettiva di partito, chi ha considerato la rivoluzione come una linfa piuttosto che un evento, ha diritto alla continuità, deve subirla? Forse l'esplorazione sui metodi della storiografia, sul mestiere dello storico, iniziata con "Primo Maggio", ripresa negli Anni 90 con "Altre Ragioni" e poi con LUMHI (Libera Università di Milano e del suo Hinterland) - progetto soffocato sul nascere ma oggi forse destinato a risorgere nel nuovo clima politico italiano - non è ancora conclusa.

DA STORIA DEL SESSANTOTTO

di Michele Brambilla

"Quando il cielo si svuota di Dio, la terra si popola di idoli"
Karl Barth

XIII - VERSO LA FINE

Il 1976 è l'anno in cui il Sessantotto entra in agonia. Certo, gran parte delle battaglie cominciate otto anni prima erano state vinte: il divorzio era diventato legge dello Stato, già dal 1970 era stato varato lo Statuto dei lavoratori, nel 1975 era stato riformato il diritto di famiglia, la scuola e l'università erano state sensibilmente modificate. E certo molti degli stili di vita e delle idee dei sessantottini si erano ormai radicati nella mentalità comune: dai comportamenti sessuali al linguaggio all'atteggiamento verso l'autorità. Persino il cosiddetto apparato era stato intaccato dalla «rivoluzione» sessantottina, e di questo l'esempio forse più rilevante è costituito dalla forte influenza, nel sistema giudiziario, della corrente di sinistra dei giudici, Magistratura democratica, e del fenomeno dei «pretori d'assalto». Di tutti questi cambiamenti nei costumi, del resto, è rimasta fino ai giorni nostri una traccia che appare indelebile. Ma per quanto riguarda il suo obiettivo principale, il Sessantotto è stato innegabilmente sconfitto. Il fine dichiarato dei contestatori, soprattutto dopo l'incanalamento ideologico della protesta, era una radicale trasformazione del sistema politico ed economico; un rinnegamento del capitalismo, l'instaurazione di una democrazia «dal basso». Molti sessantottini il potere l'hanno pure preso, come si può oggi facilmente constatare dando uno sguardo a molti organigrammi: ma per farlo hanno dovuto abiurare l'antica fede, e accettare di essere strumenti di quel capitalismo che volevano distruggere.

LA CRISI DEI GRUPPI

Di questa sconfitta, nel 1976 c'era già molto più di qualche semplice segno premonitore. L'avvisaglia principale fu la crisi dei gruppi rivoluzionari organizzati, che cominciarono allora la propria dissoluzione. I gruppi avevano fallito su tutti i fronti: non erano riusciti a sottrarre la classe operaia alla fedeltà al Partito comunista e al sindacato tradizionale; e, sul versante opposto, non erano stati in grado di interpretare fino in fondo lo spirito «movimentista» dell'ultima generazione. «I gruppi» ha scritto Paul Ginsborg «erano settari, dominati da modelli rivoluzionari terzomondisti, incapaci di trarre conclusioni realistiche dai segnali che venivano dalla società italiana.»
Dicevano di combattere l'autoritarismo, ma cercarono di imporre a tutti le loro forme di lotta, i loro stili di vita e le loro idee politiche: «Il lavoratore» era scritto su un documento programmatico del Cub della Pirelli nel 1972, «deve concepire se stesso come produttore ed acquisire coscienza della sua funzione, deve aver coscienza di classe e diventare comunista, deve rendersi conto che la proprietà privata è un peso morto, è un ingombro che bisogna eliminare».
Dicevano di detestare la forma-partito, ma caddero quasi tutti nella tentazione di riprodurre in fotocopia l'organizzazione di quei partiti che volevano spazzare via. Uno degli esempi più eclatanti fu, nel 1973, la nomina di Adriano Sofri a segretario della «movimentista» Lotta continua. E fu proprio nel 1976 che Lotta continua, forse il più importante dei gruppi del Sessantotto, si sciolse.
Il 20 giugno c'erano state le elezioni politiche, e i risultati erano stati, per l'estrema sinistra, disastrosi. Democrazia proletaria, l'unica lista che avrebbe dovuto rappresentare gli eredi della contestazione del Sessantotto, aveva preso solo 557.000 voti, l'1,5 per cento, meno della metà di quanti sperava. E i radicali, pur entrando per la prima volta in Parlamento, non erano andati oltre l'1,1 per cento. Ma più che la constatazione della modestia della propria forza, a deprimere l'area della sinistra rivoluzionaria fu lo straordinario consenso elettorale -e quindi popolare- ancora una volta riscosso dalla Democrazia cristiana, che aveva ottenuto il 38,7 per cento, cioè il 3,7 per cento in più rispetto alle elezioni amministrative dell'anno precedente. Un risultato che smentiva la previsione, più volte espressa, di un ormai imminente crollo della Dc, e che costringeva a un rinvio sine die della rivoluzione. Certo: aveva guadagnato anche il Pci, in continua crescita, passando dal già rilevantissimo 33 per cento del 15 giugno 1975 al 34,4 per cento del 20 giugno 1976. Ma questo non era, per l'estrema sinistra, una consolazione. Anzi: come ricorda l'ex di Lotta continua Luigi Bobbio, «l'ulteriore rafforzamento del Pci non apre la strada a un'alternativa di potere alla Democrazia cristiana, ma prefigura piuttosto un processo di stabilizzazione giocato su due grossi poli convergenti. Il quadro che esce dal 20 giugno non è quello del "governo delle sinistre"; se mai, è quello del "compromesso storico"» (Storia di Lotta Continua). Lo smacco fu tale che Adriano Sofri parlò, al Comitato nazionale, di «sconfitta politica» e definì le previsioni elettorali di Lc «l'errore più clamoroso della nostra storia». Ancor più drastico fu Marco Boato, che lasciò intravedere l'ormai prossimo autoscioglimento: «Siamo a una svolta storica in cui si decide della vita e della morte di Lotta continua. Abbiamo sbagliato tutto. Un partito rivoluzionario che sbaglia tutto nella fase che ha definito storica e decisiva della lotta di classe nel nostro Paese non può permettersi di uscirne con qualche aggiustamento di tiro».

EUTANASIA DI LOTTA CONTINUA

La batosta elettorale di Democrazia proletaria non era l'unico grattacapo di Sofri e compagni. All'interno del movimento il dissenso cresceva, anche e soprattutto perché mal si tollerava la scimmiottatura dei partiti tradizionali, che come detto aveva snaturato l'originale spirito movimentista. E' ancora Luigi Bobbio a ricordare: «Il partito... diviene il principale bersaglio dei militanti, non tanto per le scelte compiute, quanto per essersi costituito come autorità superiore e averli quindi trascinati in quell'avventurosa separazione. Il termine "espropriazione" è quello che ricorre di più nelle requisitorie, spesso cariche di recriminazioni, formulate dai compagni della base». E ad aggravare la situazione interna si aggiunse la questione delle donne e degli operai. Le prime -si era ormai in pieno clima femminista- da un anno avevano preso a riunirsi da sole e a praticare l'«autocoscienza». I secondi rimproveravano al nucleo dirigente di aver smarrito la «centralità operaia». Donne e operai si erano così posti alla testa della rivolta contro la linea dei vertici di Lc.
Fu in questo clima che si aprì a Rimini, il 31 ottobre 1976, il secondo congresso nazionale di Lotta continua, a cui parteciparono un migliaio di militanti. Invano Sofri cercò di ricompattare le forze. Donne e operai continuarono a riunirsi, anche durante il congresso, in assemblee separate. Sul banco degli imputati, la dirigenza di Lc. La compagna Vichi di Torino intervenne invitando gli operai «a mettersi in discussione a partire dal loro rapporto sessuale e dalla loro vita», e la compagna Laura, anche lei di Torino, dichiarò che «non è possibile nessuna alleanza in questo momento fra operai e donne». Il congresso finì senza alcun ricompattamento. Il giornale «Lotta continua» lo definì, il giorno dopo la chiusura, una «straordinaria esperienza politica e umana». Il titolo del giornale del 6 novembre 1976 fu: Apriamo ovunque le nostre contraddizioni. Portiamo ovunque la ricchezza del nostro congresso. Ma il destino di Lotta continua era segnato. Pur senza alcun atto ufficiale, il movimento si sciolse. Il comitato nazionale smise di riunirsi, gli organi dirigenti non vennero rinnovati, le federazioni furono abbandonate a se stesse. Rimase in vita il giornale, che continuò a uscire fino al 1982; si videro ancora, nei cortei, gli striscioni con la scritta «Lotta continua». Molti giovani continuarono a rivendicare la propria appartenenza a quel movimento. Ma il movimento, inteso come organizzazione, non c'era più. Molto si è discusso sul perché della fine di Lotta continua. Certo la struttura, da partito, era rifiutata da gran parte della base. Certo la questione femminista ebbe un peso rilevante. Ma il fatto che i vertici di Lc non fecero, dopo Rimini, alcun tentativo di salvare il movimento, e anzi lo lasciarono deliberatamente morire, dà credito alla versione secondo cui il vero motivo dell'autoscioglimento di Lotta continua sta nell'inquietudine di molti militanti che «spingevano» affinché si passasse decisamente alla lotta armata. Sofri, già da tempo drasticamente risoluto nel condannare la scelta delle Brigate rosse, cercò di frenare queste pulsioni, tentò di isolare coloro che chiedevano di trasformare Lc in un gruppo clandestino terroristico. Ma non ci riuscì. E allora sciolse il movimento. E' una versione, questa, mai ufficializzata, e anzi smentita dai capi di Lc, che associano sempre la fine dei movimento alla «questione femminista». A dimostrare però che la spinta verso la lotta armata c'era, sta il fatto che gran parte dei componenti della nascente Prima linea veniva da Lotta continua.

PROLIFERA IL PARTITO ARMATO

Non era un problema solo di Lotta continua. Il partito armato stava facendo proseliti un po' dappertutto, ed ebbe la sua parte nello sfaldamento dei vari movimenti. Pareva non avesse più senso, infatti, chiamarsi «gruppi rivoluzionari», distinguendosi dai partiti della sinistra tradizionale, e non fare la rivoluzione. Sembrava più logica una scelta netta: o di qua, con il Pci, o di là, con le Brigate rosse. E infatti, in quello stesso 1976 in cui i gruppi si sciolsero, crebbero sia il Pci che le azioni dei terroristi di sinistra.
Costoro avevano subito un duro colpo, all'inizio dell'anno, con la cattura (a Milano) di Renato Curcio e Nadia Mantovani. Ma avevano in quegli stessi mesi ingrossato le file, proprio attingendo nel grande mare dei «delusi» dai gruppi tipo Lotta continua. Fra le azioni più importanti compiute nel '76, una serie di attentati alle fabbriche (il più grave fu forse l'incendio alla Fiat Mirafiori, 3 aprile, un miliardo di danni di allora), che indussero gli operai di molte aziende a trascorrere la Pasqua negli stabilimenti per organizzare dei «presidi volontari». E poi l'uccisione, ad opera di militanti dell'Autonomia che stavano per costituire Prima linea, del consigliere provinciale del Msi milanese Enrico Pedenovi (29 aprile); l'omicidio del procuratore generale di Genova Francesco Coco e dei due carabinieri della scorta, compiuto dalle Brigate rosse a Genova l'8 giugno; l'omicidio, il 1° settembre a Biella, del vicequestore Francesco Cusano, anche lui vittima delle Br; l'agguato dei Nap al capo del nucleo antiterrorismo del Lazio Alfonso Noce (a Roma, il 14 dicembre) che finì in una sparatoria in cui rimasero uccisi l'agente Prisco Palumbo e il terrorista Martino Zichitella; l'altra tragica sparatoria, il giorno dopo a Sesto San Giovanni, in cui il brigatista Walter Alasia uccise il vicequestore Vittorio Padovani e il maresciallo Sergio Bazzega, prima di rimanere a sua volta fulminato dai poliziotti. Il partito armato -e in particolare le Br, decisamente passate sotto la guida di Mario Moretti- stava preparando il «salto di qualità» che lo avrebbe più volte portato, negli anni successivi, a mettere in ginocchio lo Stato.

BERLINGUER E IL COMUNISMO MODERATO

Proprio mentre i gruppi rivoluzionari dichiaravano la bancarotta e le Br diventavano sempre più efficienti, il Partito comunista si trovò vicino alla presa del potere come mai era stato in precedenza, e come mai più accadde in seguito. Le elezioni del 1975, oltre a far compiere al Pci un balzo di 6 punti e mezzo in percentuale (rispetto alle amministrative del 1970), avevano portato i comunisti al governo di Lombardia, Piemonte e Liguria, oltre che a quello di regioni già «rosse» come l'Emilia Romagna, la Toscana e l'Umbria. Non solo: tutte le grandi città italiane, ad eccezione di Palermo e Bari, erano passate sotto la guida di giunte di sinistra. A favorire questo grande balzo del Pci aveva contribuito in modo sensibile la linea politica del suo segretario, Enrico Berlinguer, che si era conquistato la benevolenza di una discreta parte dei ceti borghesi, rinnegando esplicitamente il socialismo reale e dichiarandosi disponibile a una collaborazione con i cattolici. Già nell'ottobre del 1973, con un articolo su «Rinascita», Berlinguer aveva proposto il «compromesso storico» fra le due forze popolari del Paese, quella della sinistra e quella appunto cattolica. Un'idea maturata dopo il colpo di Stato che in Cile aveva spazzato via il governo socialista di Salvador Allende: Berlinguer era convinto che il golpe era stato favorito dalla mancata unità dei partiti democratici. L'articolo su «Rinascita» si intitolava appunto Riflessioni sull'Italia dopo i fatti del Cile. E a questa proposta di abbraccio con la Dc, Berlinguer fece seguire, insieme con i segretari dei partiti comunisti francese e spagnolo, la creazione dell'«eurocomunismo», ossia di una via occidentale al socialismo, nettamente diversa dalle spietate dittature dell'Est. Il documento che i segretari comunisti italiano e spagnolo firmarono insieme il 12 luglio 1975 era un'autentica apostasia del marxismo-leninismo.
Ma se in Italia parte della borghesia smise di associare il Pci allo spauracchio dell'Armata Rossa, negli Stati Uniti l'eurocomunismo non venne accolto bene. Anzi, fu ritenuto pericolosissimo e destabilizzante. Il 14 giugno 1976, a pochi giorni dalle elezioni politiche, il prestigioso settimanale americano «Time» pubblicò in copertina una foto di Berlinguer e il significativo titolo: Italia: la minaccia rossa. Berlinguer si diede subito da fare per tranquillizzare gli italiani, e il giorno dopo rilasciò a Giampaolo Pansa, sul «Corriere della Sera», un'intervista in cui si impegnava, in caso di vittoria elettorale, a mantenere l'Italia all'interno della Nato. «Mi sento più sicuro stando di qua» disse. Un'affermazione storica per il segretario di un partito comunista.
La tradizionale avversione degli italiani al comunismo rimaneva tuttavia molto forte, e se è vero che da un lato una certa parte della borghesia credette che il Pci fosse ormai un partito socialdemocratico, dall'altra si fece muro contro il «pericolo rosso». La Dc fu ritenuta da tutti la barriera più efficace, anzi la sola barriera possibile: e anche grazie alla campagna promossa dal laico Indro Montanelli («Queste non sono elezioni, sono un referendum: turiamoci il naso e votiamo Dc» scrisse sul «Giornale»), alla mobilitazione dei cattolici di Comunione e liberazione e al travaso di voti dall'estrema destra (il Msi perse un 3 per cento che affluì, evidentemente, alle liste democristiane), la Dc riuscì a contenere l'avanzata del Pci e a restare saldamente il partito di maggioranza relativa. Nonostante la sfida elettorale, subito dopo si aprì la stagione della collaborazione fra democristiani e comunisti, che culminò nei vari governi della «non sfiducia» e della «solidarietà nazionale»: esecutivi a guida Dc a cui il Pci diede un appoggio esterno.

ARRIVA L'AUTONOMIA

Dopo la fine dei gruppi organizzati la sinistra, come abbiamo visto, si era divisa in due: da una parte il Pci, ormai ben inserito nel potere grazie alla conquista di gran parte delle amministrazioni locali e alla collaborazione di governo con la Dc; dall'altra il partito armato. Ma la distanza fra Pci e Br era troppo grande, e in mezzo restava comunque un vuoto. Un vuoto in cui si infilò la cosiddetta autonomia, un'area molto complessa e in realtà spesso contigua alle formazioni terroristiche vere e proprie. Rispetto alle Br, l'autonomia non faceva un'esplicita scelta di lotta armata, non era costretta alla clandestinità e poteva agire alla luce del sole. Era però, come si diceva allora, «l'acqua dove nuotano i pesci»: l'ambiente, insomma, dove il partito armato poteva reclutare i suoi militanti e ottenere importanti appoggi e coperture. Secondo alcuni osservatori, l'incubatrice dell'autonomia fu l'occupazione della Fiat Mirafiori del 1973: sia perché sfuggì totalmente alla guida del sindacato e del Pci, sia perché a gestirla furono, più che i tradizionali operai Fiat emigrati dal Sud, giovani della «cintura» torinese protagonisti, cinque anni prima, del Sessantotto nelle scuole. «Le urla senza senso, senza più slogan, senza più minacce né promesse dei giovani operai con il fazzoletto rosso legato intorno alla fronte, i primi indiani metropolitani, quelle urla annunciavano che una nuova stagione si apriva per il movimento rivoluzionario in Italia. Una fase senza ideologie progressiste né fiducia nel socialismo, senza alcuna affezione per il sistema democratico, ma anche senza rispetto per i miti della rivoluzione proletaria, mostrava le sue prospettive. Fu in questo mutamento di scenario che prese forma il nuovo fenomeno politico-culturale dell'autonomia operaia» hanno scritto Nanni Balestrini e Primo Moroni. Un altro sintomo premonitore dello stile dell'autonomia furono forme di protesta tipo l'«autoriduzione» e gli «espropri proletari». L'autoriduzione nacque nell'agosto del 1974 su iniziativa di alcuni operai della Fiat Rivalta che, rifiutandosi di pagare le nuove tariffe degli autobus, spedirono alla società dei trasporti pubblici l'equivalente dei vecchi abbonamenti, e continuarono a usare i mezzi pubblici senza fare il biglietto. Dai pullman si passò all'autoriduzione delle bollette della luce e del telefono. Questa pratica si estese poi alle altre città, diventando spesso un puro pretesto per non pagare il biglietto: non solo sugli autobus, ma anche, ad esempio, al cinema, dove gruppi di estremisti assistevano alle prime visioni pagando 500 lire, e i gestori delle sale lasciavano correre temendo ritorsioni dai danni ben più gravi. Così come gli «espropri proletari» ai danni dei negozianti (qualcuno arrivò a chiamarli «riappropriazioni») furono in realtà autentici furti, o addirittura rapine quando compiuti con minacce e violenze.
Fare una mappa dell'area autonoma è ben più difficile che non fare quella dei gruppi nati dopo il 1968. Anzi, è un'impresa impossibile, essendo gli autonomi per loro stessa definizione sganciati da qualsiasi organizzazione. Si possono tuttavia, schematizzando, ricordare tre filoni. Il primo è quello cosiddetto «creativo», «spontaneo», alieno da ogni forma di gerarchia. Di questo filone, gli elementi più rappresentativi furono gli «indiani metropolitani», giovani che si dipingevano il viso, appunto, come i pellerossa, e che rifiutavano, fra le tante etichette, anche quella di essere «di sinistra». Il secondo filone è quello delle teste d'uovo: intellettuali che teorizzarono il nuovo messaggio, e che erano concentrati soprattutto all'Università di Padova e in una serie di librerie nelle maggiori città. Il terzo filone è quello che fa capo all'Autonomia operaia organizzata (con la A maiuscola; quando scriviamo autonomia con l'iniziale minuscola intendiamo invece tutta l'area che stava in mezzo fra Pci e Br; l'area, insomma, che comprende tutti e tre i filoni di cui stiamo parlando). L'Autonomia operaia organizzata conservò una linea leninista e militarista, esplicitamente favorevole alla cultura della violenza e all'organizzazione della «battaglia contro lo Stato». Questo terzo filone, strettamente legato al secondo, aveva come leader ex esponenti di Potere operaio, quali il docente universitario Toni Negri e Oreste Scalzone. A sua volta, l'Autonomia operaia organizzata aveva varie sfumature al suo interno, che si esprimevano in un'incontrollabile quantità di correnti, fra le quali ricordiamo i Comitati autonomi romani; i Comitati comunisti rivoluzionari; le Assemblee autonome operaie; i Cps, Collettivi politici studenteschi; i Collettivi autonomi, presenti nelle grandi città (famoso quello di via dei Volsci a Roma).
L'area dell'autonomia produsse anche una miriade di giornali: alcuni di fabbrica come «Senza Padroni» all'Alfa Romeo, «Lavoro Zero» a Porto Marghera, «Mirafiori Rossa» a Torino; e altri di maggiore diffusione come «Aut Aut», «Primo Maggio», «Rosso» e «Senza Tregua» a Milano, «Potere Operaio per il Comunismo» (poi trasformato in «Autonomia») in Veneto, «Rivolta di Classe» (poi diventato «I Volsci»), «Metropoli» e «Pre-print» a Roma. Quello che ebbe maggiore fortuna fu «A/traverso», fatto a Bologna dal gruppo di Francesco Berardi detto «Bifo», che nel '77 arriverà alle 20.000 copie. Questa nascente area dell'autonomia si poneva in forte contrasto con il Pci, cui rimproverava di essere ormai «sistema». La sinistra si spaccò fra «garantiti» e «non garantiti», cioè fra coloro che nelle fabbriche potevano contare sull'«ombrello» del Pci e i giovani che, viceversa, non trovavano lavoro o perdevano quello che avevano appena trovato. Arrivato ormai nel «palazzo», il Pci non volle, o non poté, cavalcare la protesta dei «non garantiti», e anzi passò al pugno di ferro contro questi nuovi contestatori: ad esempio, schierandosi a favore del rinnovo di quella legge Reale sull'ordine pubblico contro la quale aveva invece nel 1975 votato «no».
Lo scontro fra autonomi e Pci esploderà drammaticamente nel 1977, e risulterà, alla fine, ancora più grave e più violento di quello fra lo stesso Partito comunista e i sessantottini.

XIV - IL SETTANTASETTE

Mentre sono ormai consuete, alle ricorrenze canoniche, le rievocazioni del Sessantotto, quasi mai si ricorda il movimento del 1977.
Eppure, quello fu l'anno più burrascoso del decennio. Le occupazioni delle scuole e delle università tornarono a un ritmo molto vicino a quello del 1968; e, rispetto al 1968, le manifestazioni di piazza furono molto più violente: basti pensare che, alla fine dell'anno, ci furono quarantamila denunciati, quindicimila arrestati, quattromila condannati e decine di morti e feriti. Autonomi e indiani metropolitani si sentivano tagliati fuori da tutto e da tutti. Non solo dal Pci, che aveva coniato lo slogan «la classe operaia si fa Stato» e che poteva offrire ai suoi iscritti la tutela del posto di lavoro; ma anche dai sessantottini, visti come patetici reduci che s'appuntavano sul petto medaglie di una rivoluzione mai fatta, e che ormai beneficiavano a loro volta del nuovo sistema. All'Università Statale di Milano il Movimento lavoratori per il socialismo, nato dalle ceneri del Movimento studentesco, aveva acquisito posizioni importanti in termini di potere ma anche di posti di lavoro, essendosi assicurata la gestione della libreria e della cooperativa universitaria. E' solo un esempio, per far capire come i «settantasettini» si sentissero dimenticati e traditi non solo dallo Stato, ma anche da quella sinistra -Pci e gruppi del '68- che aveva promesso il cambiamento e che si era invece limitata, ai loro occhi, a guadagnare posizioni all'interno dell'odiato «regime». Per questo la loro rabbia esplose violentissima.

LA CACCIATA DI LAMA

La recrudescenza degli scontri di piazza del '77 aveva avuto un prologo il 7 dicembre del '76 a Milano, quando i Circoli proletari giovanili e i Circoli giovanili (il lettore non pensi a un errore: erano proprio due formazioni diverse) avevano boicottato la tradizionale «prima» della Scala. Come otto anni prima, si voleva contestare lo spreco di denaro dell'alta borghesia milanese, che in piena crisi occupazionale si permetteva centomila lire -di allora- per un biglietto dello spettacolo di inizio stagione (questa volta era di scena l'Otello), e chissà quant'altro denaro per le spese di sartoria. Questa volta, però, i contestatori di Sant'Ambrogio non si limitarono al tutto sommato innocuo lancio di uova di Capanna e compagni; questa volta fu una guerriglia, che impegnò cinquemila fra poliziotti e carabinieri, e che si concluse con 250 fermati, 30 arrestati, 21 feriti e decine di tram e di automobili incendiate.
Nel '77 la tensione si spostò però soprattutto a Roma e a Bologna. A Roma, il primo febbraio era stata occupata l'Università. Il pretesto era una circolare del ministro della Pubblica Istruzione Franco Maria Malfatti, democristiano, che vietava agli studenti universitari di sostenere più esami nella stessa materia. Che di un pretesto si trattasse, lo dimostra il fatto che l'occupazione continuò anche dopo il ritiro della circolare da parte dello stesso Malfatti. Gli occupanti non erano però uniti. Pci, Democrazia proletaria e Avanguardia operaia contestavano la linea dell'Autonomia, protagonista di scontri in città con estremisti di destra e polizia. Ma era proprio l'Autonomia ad avere in pugno la gestione dell'occupazione. Il 9 febbraio, il movimento del '77 fece il suo esordio con un corteo, per le strade di Roma, di trentamila studenti. «Il Manifesto» criticò («Gli autonomi sono la faccia più negativa, e vecchia, della nuova sinistra»), la Cgil e il Pci organizzarono un comizio di Luciano Lama, per il giorno 17, all'interno dell'Università, nel tentativo di riprendere in mano la situazione. Ma Lama, il 17, non riuscì praticamente a parlare. Gli autonomi glielo impedirono, ingaggiando una furiosa battaglia con il servizio d'ordine del Pci, al grido «Via, via, la nuova polizia». Alla fine di scontri violentissimi, con decine e decine di feriti, i comunisti dovettero abbandonare l'Università. La manovra del Pci era fallita, gli autonomi si erano rivelati «ingestibili»: per i vertici di Botteghe Oscure, erano «i nuovi squadristi». La cacciata di Lama dall'Università aveva così dato vigore al movimento degli autonomi, che alla fine di febbraio si era già diffuso in molte città italiane, in particolare a Padova, dove l'Università era stata occupata. Il 5 marzo il movimento diede una prova di forza scatenando per le strade di Roma quattro ore di guerriglia, per protesta contro la condanna di Fabrizio Panzieri per l'omicidio dello studente missino Mikis Mantakas. I raid degli estremisti furono coordinati da un'emittente privata, Radio Città Futura, che inaugurò così una strategia destinata a più d'una replica nel corso dell'anno. Grazie alla radio, gli autonomi sapevano dov'era la polizia, dove potevano raggiungere i compagni, dove conveniva organizzare barricate e mettere fuori uso i semafori.

GUERRIGLIA A BOLOGNA


E guerriglia ancora più grave fu quella scoppiata l'11 marzo a Bologna. All'istituto di anatomia dell'Università era in programma un'assemblea dei cattolici di Comunione e liberazione. Fatto assolutamente intollerabile, per un movimento che si riempiva la bocca con la parola «democrazia» ma che non ammetteva altre manifestazioni di pensiero al di fuori della propria. E infatti i ciellini furono assediati e costretti a barricarsi all'interno dell'istituto. Ancora oggi circola la versione secondo cui gli incidenti sarebbero scoppiati perché i ciellini avrebbero malmenato alcuni studenti del movimento che si erano semplicemente presentati all'ingresso dell'aula dov'era in corso l'assemblea. Ma per male che si possa o si voglia dire dei ciellini, non s'è mai sentito di pestaggi da loro compiuti. Valga il volantino diffuso lo stesso pomeriggio dal Pci e dalla Fgci, che parlava di «un'inammissibile decisione di un gruppo della cosiddetta Autonomia di impedire l'assemblea di CL». E comunque la realtà fu quella: i ciellini barricati in un'aula, e fuori gli studenti del movimento, armati e ben più numerosi, a sferrare l'attacco. Inevitabile l'intervento dei carabinieri, contro i quali gli autonomi lanciarono parecchie molotov, a dimostrazione del fatto che all'Università non erano giunti impreparati. La battaglia si allargò, e alla fine negli scontri rimase ucciso il giovane di Lotta continua Francesco Lorusso. Cominciò così il «sacco» del centro di Bologna. Gli autonomi, che oltre alle molotov avevano già le famigerate pistole «P38», ingaggiarono sparatorie ovunque; distrussero decine di negozi, innalzarono barricate, appiccarono incendi. Fu occupata la stazione ferroviaria; furono assaltati due commissariati di polizia, la redazione del «Resto del Carlino» e la sede provinciale della Dc; fu devastata la libreria di CL «Terra Promessa». I guerriglieri si sfamarono, ed evidentemente non male, al «Cantunzein», uno dei più noti ristoranti della città, le cui riserve furono ripulite con un «esproprio» proletario. Anche qui gli incidenti furono coordinati via etere: e la magistratura ordinò l'arresto di Francesco Berardi detto «Bifo», il ventottenne insegnante di lettere animatore di Radio Alice. Era stato lui, attraverso i microfoni, a guidare assalti e distruzioni, sosteneva la procura della Repubblica. Radio Alice venne chiusa, ma Bifo riuscì a sfuggire all'arresto e a rifugiarsi a Parigi.
Il saccheggio di Bologna durò tre giorni, e per ristabilire l'ordine dovettero intervenire -cosa mai successa neppure nel '68- i mezzi blindati, con tremila uomini a presidiare il centro. Alla fine di quei tre giorni di guerra si contarono 131 arresti. Fu uno smacco storico per il Pci, che vantava la «sua» Bologna come fiore all'occhiello, come dimostrazione di città comunista, efficiente, ordinata e felice. Il 12 marzo, giorno successivo alla morte di Lorusso, anche Roma divenne un campo di battaglia: gli autonomi saccheggiarono due armerie e partirono all'assalto della città. Attaccarono l'ambasciata cilena in Vaticano, la sede del quotidiano democristiano «Il Popolo», la caserma dei carabinieri di piazza del Popolo, la sede della Gulf, una concessionaria della Fiat, alcune banche. Centinaia di vetrine di negozi vennero abbattute. Sparatorie e incendi si protrassero fino a notte. E, nello stesso 12 marzo, incidenti gravi scoppiarono anche a Napoli, Padova, Firenze, Palermo e Milano, dove a colpi di P38 furono mandate in frantumi le vetrate dell'Assolombarda, la sede regionale degli industriali.

UN PROBLEMA PER LA SINISTRA

Il clima era tale che il 16 marzo l'Università di Roma, quando riaprì, restò presidiata dalla polizia. L'attività poteva comunque riprendere regolarmente. Ma gli studenti del movimento vollero imporre le loro condizioni: immediato allontanamento degli agenti, università aperta dalle 8 alle 22, libera scelta dell'argomento da portare all'esame e 27 trentesimi come voto minimo garantito. Di fronte allo scontato «no» che fu opposto a queste richieste, gli autonomi rioccuparono l'Università. Il 21 aprile la polizia intervenne e riuscì a sgomberarla, in mattinata, senza particolari incidenti. Nel pomeriggio, però, gli autonomi passarono al contrattacco. Assaltarono l'Università armati di molotov e di P38, uccisero un agente di polizia -Settimio Passamonti, ventitré anni- e ne ferirono gravemente altri due. Il giorno dopo, vista l'eccezionale gravità della situazione dell'ordine pubblico, il governo proibì ogni manifestazione pubblica, a Roma, per un mese. Incuranti del divieto, i radicali organizzarono proprio a Roma, per il 12 maggio, una manifestazione pubblica per il terzo anniversario della vittoria nel referendum sul divorzio. La polizia intervenne e furono altri scontri, fino a tarda sera: e a cadere, uccisa da un colpo di pistola sparato da un agente, questa volta fu una dimostrante, Giorgiana Masi, vent'anni, simpatizzante radicale.
Due giorni dopo a Milano, durante un corteo di protesta per l'arresto di due avvocati di Soccorso rosso, gli autonomi uccisero in via De Amicis il brigadiere di polizia Antonino Custrà. Fu in quell'occasione che un dilettante scattò la fotografia divenuta l'immagine-simbolo degli anni di piombo: un giovane autonomo, con il volto coperto, sparava impugnando la pistola con entrambe le mani. L'Autonomia era ormai un problema grave anche per i gruppi alla sinistra del Pci. «Di Autonomia operaia e non solo delle sue violenze ultime occorre liberarsi» scrisse Rossana Rossanda sul «Manifesto» del 17 maggio. E Luca Cafiero, segretario nazionale del Mls: «Noi toglieremo le pistole agli autonomi e gliele faremo ingoiare».

AL BAR SI MUORE

Che il 1977 sia stato un anno di guerra lo testimoniano, oltre al numero degli scontri di piazza, anche le azioni delle Brigate rosse e delle altre formazioni clandestine, che in quell'anno si erano fatte ancor più efficienti e spietate. Il 28 aprile, a Torino, le Br uccisero il presidente dell'Ordine degli avvocati Fulvio Croce: un omicidio-avvertimento nel più classico stile mafioso, perché Croce avrebbe dovuto designare i difensori d'ufficio al processo contro Curcio e altri terroristi; si volle in questo modo intimidire avvocati e giudici popolari, e infatti questi ultimi, il 31 maggio, rifiutarono l'incarico, provocando il rinvio del processo. Anche i giornalisti finirono nel mirino delle Br. Nel mese di giugno ne furono feriti alle gambe dodici, fra cui Indro Montanelli, il direttore del Tg 1 Emilio Rossi e il vicedirettore del «Secolo XIX» di Genova Vittorio Bruno. E il 16 novembre, a Torino, ancora le Br uccisero il vicedirettore della «Stampa» Carlo Casalegno, definito un «servo dello Stato». Quanto alle fabbriche, i dirigenti e i capireparto «gambizzati» in quell'anno furono decine. Ma per dare un'idea di quanto questa guerra fosse una minaccia costante per tutti, si pensi che il pericolo poteva raggiungere chiunque e ovunque. Come dimostrano la morte di Roberto Crescenzio e i sette feriti del bar di largo Porto di Classe.
L'assalto al bar di largo Porto di Classe a Milano, zona Città Studi, fu opera di commando di Avanguardia operaia e dei Caf, i comitati antifascisti. Scattò il 31 marzo 1976, alle sei di sera. Il bar era ritenuto un covo di «neri». Quella sera, però, di fascisti all'interno del locale non ce n'era neanche uno. Gli estremisti -in buona parte erano gli stessi che un anno prima avevano ucciso Ramelli- incendiarono il bar lanciando bottiglie molotov, e sprangarono gli avventori in fuga. In sette rimasero feriti in modo grave, e tre di loro portano ancora oggi i segni del pestaggio. Un atto tanto vile da provocare, nei giorni seguenti, una discussione interna che fu uno dei primi sintomi della crisi di Avanguardia operaia. Massimo Bogni, uno dei responsabili dell'assalto, in seguito convertitosi al cattolicesimo e sinceramente pentito (si presentò spontaneamente al giudice istruttore), ha raccontato al processo, celebrato nell'87: «Emulavamo gli eroi, Garibaldi e Guevara, e poi eravamo vigliacchi».
Anche Roberto Crescenzio non era un fascista. Aveva ventidue anni, ed era un perito chimico disoccupato. Ebbe la tragica sfortuna di trovarsi, il l° ottobre 1977, al bar l'«Angelo azzurro» di Torino. Quel giorno Torino, come Roma e altre città italiane, fu sconvolta da nuovi, furibondi scontri fra la polizia e i giovani di estrema sinistra, inferociti per l'uccisione avvenuta il giorno prima a Roma, ad opera di neofascisti, del militante di Lotta continua Walter Rossi. A un certo punto il corteo passò vicino all'«Angelo azzurro» e qualcuno riferì di aver visto, al liceo Gioberti, una scritta secondo cui quel bar era un punto di ritrovo dei fascisti. Tanto bastò per scatenare l'attacco.
Il locale fu incendiato e gli avventori costretti a fuggire all'esterno. Un bimbo di tre anni e la sua baby-sitter sedicenne rimasero semiasfissiati e furono portati in ospedale. Roberto Crescenzio restò intrappolato nella toilette. Quando, con le ultime energie, riuscì a spalancare l'uscio, ad attraversare la sala del bar, a sfondare una vetrata e a gettarsi sull'asfalto, all'aperto, il suo corpo era ormai devastato dal fuoco. Ed era troppo tardi.
Anche in questo caso la morte di un innocente (ammesso che altri possano essere considerati colpevoli) provocò una crisi all'interno del movimento. Proprio pochi giorni dopo il rogo dell'«Angelo azzurro» in corso Valdocco qualcuno tracciò su un muro una grande scritta: «E' un momentaccio». Un piccolo, ma non insignificante indizio di un travaglio che i più sensibili cominciavano ad avvertire, e che avrebbe portato, di lì a poco, a un ripensamento da parte di tutti. In fondo non solo la gente comune, ma anche la maggioranza dei giovani che andavano in corteo cominciava a essere stanca di tanto sangue e di tanti lutti.

GLI INTELLETTUALI E LA REPRESSIONE

Ma, contrariamente alla gente comune, gli intellettuali -o almeno certi intellettuali- rimanevano convinti che tutta quella violenza fosse frutto della repressione organizzata da un sistema che andava sempre più assumendo la sostanza di una nuova dittatura. Così pensavano, ad esempio, Nanni Balestrini ed Elvio Facchinelli, i quali chiesero, polemicamente, che un padiglione della Biennale di Venezia venisse riservato al dissenso in Italia. E altri uomini di cultura, fra cui Leonardo Sciascia, si mantennero in una posizione che il comunista Giorgio Amendola, con un duro articolo sull'«Unità», definì ambigua. Ma fu da Parigi, dove l'intellighenzia italiana cerca solitamente la propria consacrazione, che venne l'attacco più duro contro il nuovo «regime» Dc-Pci.
L'8 luglio, proprio a Parigi, era stato arrestato Bifo, l'animatore di Radio Alice e delle riviste «A/traverso» e «Zut», accusato, come abbiamo visto, di avere incitato e promosso, via radio, gli incidenti dell'11 marzo a Bologna («Ammazzate, ammazzate, abbiamo bisogno di cadaveri», una delle frasi che gli furono contestate). A Parigi, dov'era scappato per sottrarsi al mandato di cattura firmato dal tribunale di Bologna, Bifo aveva trovato alloggio nientemeno che a casa del professor Felix Guattari, lo psicanalista direttore della rivista «Recherches» e autore, con il filosofo Gilles Deleuze, dell'Anti-Edipo.
L'8 luglio, come detto, fu arrestato. Poco importava che solo tre giorni dopo le autorità francesi l'avessero rimesso in libertà, negando l'estradizione alla giustizia italiana e imponendo all'imputato l'unico vincolo della firma da apporre, ogni quindici giorni, su un registro al palazzo della prefettura di polizia di Parigi. Il mandato di cattura contro Bifo convinse un gruppo di intellettuali francesi a inviare a Belgrado, dov'era in corso una conferenza Est-Ovest, un «appello contro la repressione in Italia». «Noi vogliamo attirare l'attenzione» era scritto nell'appello «sui gravi avvenimenti che si svolgono attualmente in Italia e, più particolarmente, sulla repressione che si sta abbattendo sui militanti operai e sui dissidenti intellettuali in lotta contro il compromesso storico. «In queste condizioni» proseguiva l'appello «che vuol dire oggi, in Italia, "compromesso storico"? Il "socialismo dal volto umano" ha, negli ultimi mesi, svelato il suo vero aspetto: da un lato sviluppo di un sistema di controllo repressivo su una classe operaia e un proletariato giovanile che rifiutano di pagare il prezzo della crisi; dall'altro, progetto di spartizione dello Stato con la Dc (banche ed esercito alla Dc; polizia, controllo sociale e territoriale al Pci) per mezzo di un reale partito "unico"; è contro questo stato di fatto che si sono ribellati in questi ultimi mesi i giovani proletari e i dissidenti intellettuali. (...)
«I sottoscritti» terminava poi l'appello «esigono la liberazione immediata di tutti i militanti arrestati, la fine della persecuzione e della campagna di diffamazione contro il movimento e la sua attività culturale proclamando la loro solidarietà con tutti i dissidenti attualmente sotto inchiesta.» Seguivano le firme di Jean-Paul Sartre, Michel Foucault, Felix Guattari, Gilles Deleuze, Roland Barthes, Philippe Sollers, François Chatelet, Claude Mauriac, Pierre Clementi, Maria Antonietta Macciocchi e in seguito anche Dario Fo e altre personalità della cultura e dello spettacolo. L'appello fu commentato molto duramente in Italia. Il «Corriere della Sera» osservò: «Immaginare [alla Biennale di Venezia, n.d.a.] un padiglione del dissenso italiano, magari a due passi da quello sovietico, è assurdo. Mandar petizioni alla conferenza di Belgrado, dove il problema maggiore è quello di ridurre il numero degli internati negli asili psichiatrici e di impedire che l'Urss metta a tacere una volta per sempre la voce di Sacharov, rivela una miopia libresca che non giova a chi se ne fa promotore». Ma anche i giornali comunisti, «l'Unità» e «Paese Sera», furono durissimi; e pure «il Manifesto» ebbe parole severe. Il fatto è che il Pci, entrando nella gestione dello Stato, aveva dovuto per forza di cose abbassare la voce della protesta, moderarne i toni, distinguere fra ciò che era possibile conquistare subito e ciò che andava rinviato e atteso con pazienza. E alla sua sinistra s'era creato lo spazio per rivendicazioni libertarie e utopistiche.

IL CONVEGNO DI BOLOGNA

Proprio Guattari e gli altri intellettuali, comunque, erano riusciti a dare il la a quello che si rivelò poi l'ultimo grande avvenimento della stagione della contestazione: il convegno di Bologna sulla repressione. Il 23, 24 e 25 settembre nel capoluogo emiliano calarono chi dice cento, chi dice cinquanta, chi dice venticinquemila giovani provenienti da tutta Italia e in piccola parte anche dall'estero. C'erano ovviamente gli autonomi e gli indiani metropolitani; ma anche ciò che restava dei gruppi organizzati. E non mancavano -lo accerteranno poi diverse inchieste giudiziarie- «osservatori» delle Br e di altre formazioni, venuti a caccia di nuove reclute. Il Pci accettò la sfida: «Bologna è la città più libera del mondo» disse il sindaco comunista Renato Zangheri. Ma è ovvio che la paura di una replica della guerriglia di marzo era enorme. Proprio in quei giorni, fra l'altro, Berlinguer gettò benzina sul fuoco definendo gli autonomi «poveri untorelli».
Bologna fu invasa anche da polizia e carabinieri. Ma non ci fu, contrariamente ai timori, alcun incidente. I tre giorni trascorsero fra bivacchi e spettacoli nelle piazze e le assemblee al Palazzetto dello Sport. Ecco, le uniche violenze furono proprio lì dentro, al Palazzetto dello Sport, dove si trovarono a convivere decine di posizioni diverse, a volte radicalmente diverse: dall'ideologia ancora impregnata di marxismo-leninismo dei vecchi gruppi alla tematica del «rifiuto del lavoro» degli autonomi e degli indiani metropolitani. Divergenze che si manifestarono spesso con botte da orbi, a colpi di sedia in testa, per strapparsi il microfono. Alla fine, l'Autonomia operaia organizzata riuscì a prendere in mano il controllo dell'assemblea, dalla quale furono espulsi, nell'ordine, prima il Mls, poi Avanguardia operaia e infine Lotta continua.
Tutti quanti, poi, si ritrovarono insieme nel grande corteo (trentacinquemila persone, secondo la stima della questura) che il giorno 25 concluse il convegno. C'erano tutti, e quelli dei gruppi tentarono, in realtà senza riuscirci troppo, di tenere gli autonomi al centro del corteo, per controllarli meglio. Comunque, non ci furono incidenti. E gli stessi slogan urlati in quell'occasione mostrarono l'eterogeneità del corteo. C'erano quelli che agitavano le mani con le dita a pistola e gridavano «Con la P38 / ti spunta un foro in bocca», «Lotta armata / per la rivoluzione», «Per il comunismo / per la rivoluzione», «Carabiniere, basco nero / il tuo posto è al cimitero». Quelli che cercavano la satira: «Carabiniere levati il cappello / e fumati con noi uno spinello». Le femministe che pensavano soprattutto alle proprie rivendicazioni: «Nelle case e nelle galere / siamo sempre prigioniere». Gli omosessuali che avevano trovato la formula per vincere la rivoluzione: «Coito anale / abbatte il capitale».
Nonostante la straordinaria massa numerica, il convegno di Bologna non rappresentò una vittoria del movimento, ma una sconfitta. L'ultima sconfitta, quella decisiva. Il movimento aveva radunato centinaia di voci di rifiuto, di dissenso, di rivolta, ma non era riuscito a coagularle. Era emersa, in modo ancor più netto che in passato, l'impossibilità di un'azione unitaria. I nouveaux philosophes francesi che erano venuti a cavalcare la rivolta fecero la misera figura degli opportunisti, e non trovarono alcun seguito fra quei giovani che avevano cercato di blandire. Anche l'intervento che Bifo aveva inviato dalla sua latitanza di Parigi, e che fu letto durante l'assemblea al Palasport, venne sonoramente fischiato. Privo di una guida, privo di unità ma ancor più privo di fondamenta veramente solide, il movimento si sciolse. E il Sessantotto finì veramente lì, quel 25 settembre 1977.

EPILOGO

S'è detto che, contrariamente ai moti del 1968, quelli del 1977 raramente hanno diritto di cittadinanza nelle rievocazioni e negli stessi libri di storia. Forse, la differenza di attenzione è motivata dal fatto che il primo fu un fenomeno mondiale, e il secondo quasi esclusivamente italiano, e come tale meno importante. Ma forse c'è anche, da parte di molti, una sorta di tentativo di rimozione. Il movimento del 1977 non ha goduto -a parte le snobistiche prese di posizione di certi intellettuali- della benevolenza e degli ammiccamenti che erano stati elargiti, nove anni prima, ai sessantottini; i suoi protagonisti erano dei «veri» proletari, e non figli della borghesia come furono, nella stragrande maggioranza, gli universitari del '68; per certi versi la protesta del '77 era, come vedremo, più giustificata; e a cavalcarla non c'era più, non poteva più esserci quel Pci ormai entrato nel Palazzo, e ben più risoluto nel chiedere le maniere forti contro i «sediziosi» di quanto non fossero stati, in precedenza, i vari presidenti del Consiglio e ministri democristiani.
Gli autonomi e gli indiani metropolitani del 1977 vengono rimossi anche perché la loro devastante violenza, in molti casi palesemente complice del peggiore brigatismo, è un fantasma ingombrante per una sinistra che prima ha predicato la lotta di classe e la rivoluzione (chi stando nel partito, chi stando nei salotti) e poi ha detto che la rivoluzione non andava fatta più (chi perché ormai arrivato dentro il sistema, chi perché ancora ben inserito nei salotti). Per buona parte della sinistra, gli autonomi e gli indiani metropolitani sono quindi figli, o nipoti, con cui non si vuole avere nulla a che fare, e che è meglio disconoscere. E non è un caso che si tenti sempre di scindere i due fenomeni, e dire che il Sessantotto è una cosa, il Settantasette un'altra. Pur nelle loro differenze, le due proteste sono invece strettamente legate fra loro, anzi sono l'inizio e la fine del medesimo avvenimento. Come ha scritto Toni Negri: "In Italia il '77 è la seconda fase del '68. (...). Il '77 è l'ultima data dentro la quale questo processo [quello iniziato nel '68, n.d.a.] viene complendosi, un processo perciò di rottura ma soprattutto di continuità, work in progress".
Del Sessantotto, i «settantasettini» hanno pagato gli errori più evidenti: se Capanna e soci avevano trovato una scuola vecchia e imbalsamata, loro ne hanno trovata una inesistente, trasformata grazie alla logica tutta sessantottina del «sei politico» e degli esami di gruppo in una fabbrica di disoccupati. Posti di fronte a una crisi economica più grave di quella di nove anni prima, i giovani proletari del 1977 faticavano a trovare lavoro, e si accorgevano che nemmeno impegnandosi a fondo in un'università ormai a pezzi potevano sperare di emanciparsi. Ma c'è un altro motivo -più profondo, anche se forse meno evidente- per cui i giovani del 1977, ne siano o no consapevoli, sono stati i veri «fregati» dal Sessantotto. Del Sessantotto hanno infatti ereditato la sconfitta più grave, e cioè il nulla con cui si cercò di colmare un vuoto esistanziale. A una generazione che non si accontentava degli idoli offerti dal mondo borghese -una «posizione», una bella macchina, un'amante- il Sessantotto ha offerto altri idoli, non meno fallaci.
Il movimento del 1977 cercò, pateticamente, di accreditarsi come gioioso, ironico, creativo, traboccante di allegria, e si inventò la retorica delle «feste» quale arma contro l'alienazione. In realtà il giovane del '77 -nonostante la regia delle solite teste d'uovo marxiste-leniniste- nei cortei non urlava contro lo Stato o contro il capitalismo, e neanche contro il compromesso storico, ma, più tragicamente, contro la sua noia e la sua disperazione. Si leggano le molte lettere giunte in quell'anno a quella specie di confessionale pubblico che era diventato il quotidiano «Lotta continua». In una di queste lettere, pubblicata il 29 ottobre 1977 e firmata «Antonella, una quattordicenne stanca di vivere», è scritto: «Sono arrivata al punto di non poter più uscire da questa tremenda sensazione quale è la solitudine. Questo mi ha fatto pensare al suicidio, ma forse ho paura di aver paura di morire. Personalmente lotterò finché questa mia lunga vita non si fermerà. Saluti rivoluzionari».
Ha scritto allora Mino Monicelli (L'ultrasinistra in Italia): «La nuova etica purtroppo non è nata; e poiché quella vecchia, dello studio, del lavoro, della famiglia, della militanza è sempre più rifiutata, passa solo l'etica della morte. Siccome 'la vita non ha alcun valore e non me ne frega niente' si è disposti anche a rischiarla. Questa è l'elaborazione teorica che oggi esprimono settori importanti del movimento: una specie di etica del negativo che coinvolge, in modo più o meno serio, molti giovani, dalla base della Fgci all'Autonomia». Non è un caso se i giovani eroinomani siano passati, in Italia, dai diecimila del 1976 ai settantamila del 1978. Non è un caso se fu proprio in quel 1977 che nacquero, prima in Inghilterra e poi un pò ovunque, quei movimenti dei «punk», dei «dark», degli «skin» che (fra l'altro con una singolare liturgia funerea, evidentissima già nell'abbigliamento e nei simboli) incarnano il disagio sprofondando nel più totale nichilismo.
Passato il convegno sulla repressione di Bologna, il movimento del '77 si dissolverà. Dopo di che, resterà solo la lotta armata di un manipolo di uomini che continueranno a credere nella rivoluzione. Ma nelle strade e nelle piazze, più niente. E i ventenni del 1968 saranno i quarantenni che gestiranno, negli anni Ottanta, la più spietatamente egoistica ed edonistica delle società, quella del «reaganismo» e dello «yuppismo» rampante. Una contraddizione? Del resto, l'eredità del Sessantotto pare tutta contraddire le attese di chi fu protagonista di quella protesta. Il Sessantotto -parliamo del nocciolo, dell'essenza dell'ideologia del Sessantotto- voleva spazzare via il capitalismo ed edificare un uomo nuovo e una società giusta ed egualitaria. Voleva, con la rivoluzione sessuale, mettere finalmente sullo stesso piano i rapporti fra uomo e donna. Voleva, rivendicando il diritto di ciascuno di fare ciò che vuole purché non danneggi gli altri, portare finalmente alla felicità una gioventù che si sentiva sgomenta di fronte alla prospettiva di una vita borghese. Ma per ottenere tutto questo ha sbaraccato quei residui valori tradizionali che, forse, erano proprio l'ultimo freno allo scatenamento della parte peggiore del capitalismo.
La messa in liquidazione di una certa religiosità, di un prevalere del trascendente sul materiale e, non ultimo, di un certo senso della parsimonia e della rinuncia, hanno consentito l'esplosione del consumismo più sfrenato. Il crollo di quelli che venivano chiamati «tabù sessuali» ha portato a un'espansione senza precedenti del mercato della pornografia e a un'impennata dei reati di stupro, cioè a quanto di meno rispettoso della dignità della donna. La caduta di quel saggio senso di autodifesa che veniva considerato una barriera contro il proprio piacere, ha indotto una generazione disperatamente alla ricerca della felicità a cadere nella schiavitù della droga.
Sembra insomma che ogni speranza del Sessantotto si sia rovesciata nel suo contrario. Ma questo, a ben pensarci, è stato il destino di tutti i tentativi dell'uomo di stabilire lui cosa sia il bene e cosa sia il male, e di costruire in terra il suo paradiso. Tentativi di cui la storia è piena, e che sono sempre, misteriosamente ma implacabilmente, falliti.

Da Storia del Sessantotto, Rizzoli, Milano 1994