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Vite indegne di essere vissute

Vite indegne di essere vissute

Nel 1920 fu pubblicato in Germania un libretto intitolato “il permesso di annientare vite indegne di essere vissute”. Lo scrisse uno psichiatra, Alfred Hoche e un giurista, Karl Binding. Sono un medico e un giudice. Badate bene: un medico e un giudice. Uno scrive diagnosi, l’altro somministra la cura. In questo libretto si trovano affermazioni sconvolgenti come ad esempio la soppressione dei deboli, dei parassiti del popolo, dei nemici dello stato e poi ancora dei mangiatori inutili, delle vite senza valore, dell’esistenza-zavorra.

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Dovranno trascorrere 19 anni prima che questo libretto incominci a seminare morte e sterminio. Nel 1939 prende il via il programma segretissimo voluto dallo stesso Hitler denominato Aktion T4 cioè l’eliminazione sistematica, industriale dei disabili psichici e fisici. La chiamavano morte terapeutica. Furono sterminati oltre 300 mila disabili, vite indegne di essere vissute. Per loro non c’è mai stata nessuna shoah. Ma come si arrivò a tale aberrazione?

Alla fine dell’ottocento un tale Cesare Lombroso, medico e antropologo, si dedica alla misurazione dei crani ed è dallo studio anatomico del cranio che Lombroso scopre la cosiddetta “fossetta occipitale mediana” cioè una anomalia della struttura cranica che sarebbe causa, a suo dire, dei comportamenti devianti del tipo criminale. Giunse quindi alla conclusione che alcuni criminali nascono tali e sono diversi da noi, sono riconoscibili ma non possono essere puniti, perchè è inutile punirli. Sono irrecuperabili, ragion per cui l’umanità ha il diritto-dovere di difendersi per estirpare il male da se stessa.

Nella stessa epoca anche Francis Galton, come Lombroso si interessa dei criminali: non ai loro crani ma alle loro mani. È anche grazie ai suoi studi che l’analisi delle impronte digitali diventa strumento d’indagine riconosciuto come scientificamente attendibile in tribunale. Galton studia l’ereditarietà dei caratteri, si guarda attorno e si chiede: perchè nascono i criminali? e quelli sbagliati, gli inferiori?; perché certi nascono belli e certi brutti? Ma soprattutto perchè nascono le brutte? Se fossero tutte belle sarebbe meglio. Come si può migliorare la specie? si interrogava Galton. Per lui l’ideale era una gnocca per ogni secchione. Ma se non si possono obbligare le belle ad accoppiarsi con gli intelligenti, si può almeno fare in modo che i criminali e gli inferiori non si riproducano. È da qui che muove i primi passi l’eugenetica, quella scienza che ha come scopo migliorare l’umanità nei suoi caratteri fisici e psichici. Una scienza che fu cara al dittatore Hitler ma che neanche le democrazie disprezzarono. Non dimentichiamoci che in Europa il paese pioniere delle sterilizzazioni forzate è la Svizzera. Tale pratica era diretta sia verso i malati di mente che verso le minoranze insofferenti alle regole sociali. In nord Europa i paesi scandinavi si distinguono per l’applicazione di programmi di sterilizzazione massiva che cominciano negli anni trenta e continuano ininterrottamente fino agli anni settanta mentre sono quasi centomila le persone sterilizzate negli Stati Uniti tra gli anni Venti e gli anni Quaranta.

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Ci siamo domandati se nel fondo il divieto per i detenuti di mantenere dei rapporti sessuali con le proprie compagne o compagni non risponda alla stessa logica. Del resto il delinquente non è un nemico dello stato, non rappresenta il male che deve essere estirpato, non è una vita, agli occhi dei benpensanti, indegna di essere vissuta? Sì e vero, non si usa più sterilizzare gli anormali, lo sterminio di massa non è più consentito nelle democrazie occidentali, meglio che si gettino il cappio al collo da soli esasperati dalle inumane condizioni di sopravvivenza in carcere. Oppure se ne occupa l’ergastolo ostativo, si entra giovani e si esce vecchi, per qualcuno non è neanche poi così sicuro di uscire vivo. La castrazione è affidata al fine pena mai.

Esiste un gravissimo problema sessuale in carcere di fronte al quale si osserva indifferenza, si preferisce schivare l’argomento, si preferisce non parlare. Il carcere demolisce, anno dopo anno, quella che si potrebbe definire l’identità sociale del detenuto. Tutti sono concordi nel riconoscere che l’attività sessuale nell’uomo rappresenta un ciclo organico che non è possibile interrompere senza determinare nel soggetto, in ogni caso, dei traumi sia fisici che psichici. In carcere il tempo si dilata, gli spazi si restringono. Prevaricano la solitudine, l’emarginazione. La realtà viene allucinata, è piena di desolazione. Si sente il bisogno di amare e di essere amato. Però intorno o vicino non c’è nulla a cui dedicare i propri sentimenti.

Il carcere è un momento di vertigine. Tutto si proietta lontano: le persone, i volti, le aspirazioni, le abitudini; i sentimenti schizzano all’improvviso da un passato che appare subito remoto, lontanissimo, quasi estraneo. Il carcere diventa così un inferno dove prevaricano le inibizioni e le repressioni. Viene rinchiuso il corpo ma anche la volontà, i desideri stessi. Tutto viene deciso e gestito dagli altri. Lo stato rivendica la sua proprietà; esso sembra dire: mi appartenete, siete miei prigionieri e fin tanto rimarrete sotto la mia custodia non solo sarete privati della libertà, sarete costretti a sopravvivere in condizioni infraumane, sarete ispezionati, controllati, vessati nel vostro onore e nella vostra dignità, umiliati dalla prepotenza dei miei cani da guardia. Le vostre lettere censurate, i vostri colloqui registrati, le vostre pulsioni interdette ma vi sarà anche proibito di prolungare la vostra stirpe, del resto non ne potrebbe nascere nulla di buono.

Nell’ambiente carcerario la sessualità inibita erotizza tutta la vita del recluso e ne accentua il richiamo biologico con un ritmo intensamente dinamico.

solaNei primi giorni, nei primi mesi il sesso non esiste. Lentamente avviene il risveglio. La lunga astinenza sessuale inizialmente determina eccitazione permanente, macerazione del pensiero, costruzione ideativa di situazioni scabrose, stati allucinanti. Ci si deve riabituare alla passata giovane età con la masturbazione, che però, un po’ alla volta, lascia sempre più insoddisfatti, e lo sforzo continuo di richiamare alla mente immagini eccitanti dato il lento trascorrere dei mesi e degli anni incomincia a indebolirsi, si fa incerto, confuso e i ricordi con il tempo sfumano sempre di più. Incomincia allora il periodo delle fotografie pornografiche. Per alcuni i cui freni inibitori agiscono con forza l’appagamento è ricavato esclusivamente dalla masturbazione, altri, invece, sentono il bisogno della carne per completare l’eccitamento.

La natura, con la sua intrinseca, paurosa potenza, dopo essere stata imprigionata, umiliata, ridotta a monologhi solitari ha cominciato a muovere i suoi passi lavorando contro ogni volontà, disintegrando e neutralizzando le diverse barriere ed ambientando la sessualità sul terreno che è costretta a vivere. I diversivi alla solitudine sessuale non sono molti in carcere, nè originali; televisione e gioco per distrarsi, religione e scuola per sublimarsi, lo sport per stancarsi.

Permettere ai detenuti di vivere i propri affetti, aprire le carceri alla sessualità non è tanto un tentativo concreto di umanizzare la detenzione quanto un segnale di continuità importante per i detenuti e per i familiari, perchè negare, impedire ad un detenuto la sessualità comporta sul piano sostanziale privarne anche la moglie o la fidanzata o la compagna che, in definitiva, non hanno alcuna colpa da espiare. Interrompere il flusso dei rapporti umani ad un singolo individuo significa separarlo dalla sua stessa storia personale, significa amputarlo di quelle dimensioni sociali che lo hanno generato, nutrito e sostenuto. Il problema dell’affettività in carcere merita attenzione e rispetto perché vi confluiscono e l’animano gli istinti, le sensazioni, le emozioni, i sentimenti radicati in ogni uomo. L’affettività è insopprimibile bisogno di vita un po’ come respirare, nutrirsi, dormire.

Sarebbe allora il caso di chiedersi se anche qui da noi il diritto di amare e di essere amati debba trovare delle soluzioni come quelle adottate da paesi come la Danimarca, la Spagna o la Norvegia.

Ma ci sono degli ostacoli di ordine diverso che impediscono di fatto l’implementarsi di prassi che riconoscano l’esercizio del diritto al sesso. Innanzitutto gli ostacoli ambientali sono forse quelli più evidenti e sono da riferirsi alla mancanza di strutture logistiche per ospitare le celle dell’amore. Il piano carceri annunciato e strombazzato fin dal 2009 dall’allora ministro della Giustizia Angelino Alfano è naufragato miseramente, delle 25 carceri promesse ne sono state inaugurate soltanto 5 e non contemplano di certo spazi da dedicare agli affetti tra i detenuti e i loro rispettivi partners. A questo però bisogna aggiungere anche la decisa opposizione delle guardie carcerarie non disposte ad essere adibiti anche a custodia e controllo degli amori tra le sbarre. D’altronde, si sa, in carcere si va per penare e non per vedersi riconosciuti i propri diritti. Ad una vita indegna di essere vissuta il sesso va proibito ad ogni costo.

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Basti pensare che attualmente sono in vigore 4 ore di colloquio al mese e 12 minuti di telefonata mensile, un periodo di tempo troppo breve che non può nutrire e sostenere alcun tipo di rapporto affettivo.

In verità in Italia ci sono stati dei timidi tentativi per riparare il vulnus come ad esempio la legge 653/86 che tentava di dare la possibilità alla persona detenuta di incontrare la propria moglie o marito, fuori dal carcere, con un permesso premio che però è stata abrogata. Eppure l’articolo 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo stabilisce: “il diritto di stabilire relazioni diverse con altre persone, comprese le relazioni sessuali”.

Particolarmente significativo è a questo riguardo l’articolo 28 dell’Ordinamento penitenziario dove si afferma che particolare cura deve essere profusa per tentare di mantenere, migliorare o ristabilire le relazioni dei detenuti con le proprie famiglie. Ed è sempre l’Ordinamento penitenziario che all’art. 30 ter sancisce infatti la possibilità di usufruire, sia pure in particolari condizioni di scorta e di sorveglianza, di permessi premio, ed indica nelle sue motivazioni il riconoscimento al recluso di poter coltivare interessi affettivi, culturali o di lavoro all’esterno della struttura carceraria. Insomma, secondo la legge italiana tutti i detenuti, dico tutti, avrebbero diritto a usufruire periodicamente di permessi premio, da trascorrere con le proprie famiglie negli originari luoghi di dimora. Al detenuto va riconosciuto il diritto alla sessualità libera e consapevole attraverso visite periodiche ai coniugi e ai conviventi. Dovrebbe perchè in realtà la concessione di un permesso è affidata alla discrezione di un giudice che senza aver mai visto in faccia il detenuto, sulla base di quattro scartoffie che parlano del reato invece che della persona, decide chi è degno di affetto e chi no. Del resto, si sa, la legge in ogni parte è strumento di potere non di giustizia.coppia di sabbia

 

Allora diciamocela tutta. Il carcere è malattia. Il carcere è esso stesso una sindrome, una sindrome sociale. Il carcere è un luogo indegno di esistere e di essere vissuto.

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