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Lettera del prigioniero DAVIDE EMMANUELLO

Lettera del prigioniero DAVIDE EMMANUELLO

Davide è da venti anni in carcere; quindici dei quali li ha passati  al 41 bis. Per tre volte il 41 bis gli è stato revocato e per tre volte hanno fatto in modo di ristabilirglielo. In tutti questi anni lui non ha commesso alcun “fatto nuovo” che potesse giustificare la riproposizione del 41 bis.  E i fatti che racconta, su come si sarebbe svolta fin dall’inizio la sua tribolazione carceraria, rendono ancora più surreale, incomprensibile l’intera vicenda.  L’ultima destinazione, dopo l’ultima revoca, era stata Catanzaro. Non per molto però.. presto dopo l’ennesima sentenza di annullamento della revoca, il 41 bis gli è stato nuovamente inflitto, e adesso si trova nella sezione corrispondente del carcere di Ascoli Piceno.

 

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Le vestali di Nemesi, cieche mute e sorde, in ossequiosa riverenza del ministero orwelliano, hanno rigettato ogni evidente prova dell’insostenibilità del provvedimento del 41 bis di tortura, e accolto la richiesta manifestamente infondata del ripristino del decreto che mi era stato revocato già per tre volte…

Obbedienti al tribunale politico della Prima sezione di Cassazione, territorio occupato dalla DNA (Direzione Nazionale Antimafia), ritiene legittima l’illazione che alla morte di mio fratello il clan si è indebolito, rafforzandosi al suo interno il mio ruolo di comando.

Questo è il paradosso che il TdS romano è arrivato a sostenere, compiendo un disastro logico, con un argomento così contraddittorio, da rendere palese la scelta repressiva.

Pensate che nel 1992 la Corte di Cassazione dovette piegarsi alle cosiddette “procure in trincea”, come amano definirsi quanti continuano ad utilizzare la legge a fini esclusivamente “militari”, che i procedimenti di natura mafiosa dovevano essere sottoposti ad una turnazione tra le diverse sezioni della Cassazione per evitare che una sezione e giudici ben individuati potessero favorire qualcuno con sentenze addomesticate.

E guarda caso, oggi la DNA è riuscita a realizzare un sistema giudiziario parallelo in materia di regime speciale, così che ogni decreto ministeriale è “controllato” attraverso l’unico tribunale di sorveglianza di Roma e la Prima sezione di Cassazione, laddove si dovrebbe discutere il ricorso avverso la decisione del primo tribunale. E non è finita.

Questa stessa sezione della Cassazione, piegata ai voleri della DNA, che eufemisticamente chiamo tribunale politico, produce quella stessa giurisprudenza che la DNA propone, in barba all’autonomia  e imparzialità del giudice terzo, così gli echi di mussoliniana memoria inondano e si fissano con segni d’inchiostro sulle pagine delle varie decisioni che condannano uomini come me a trascinarsi nei sepolcri imbiancati, ad ammuffire in sezioni mortori.

Questo vi farà comprendere il perché nei casi di reclami al tribunale e dei ricorsi in Cassazione le regole possono essere violate impunemente, senza lasciarti possibilità di difesa alcuna, lasciandoti senza la possibilità di vedere valutata la tua posizione da un organo di controllo terzo e indipendente.

Nel mio caso al TdS ho prodotto le dichiarazioni di numerosi collaboratori di giustizia, le stesse di cui è in possesso anche la DNA e non le ha mai prodotte, con le quali è provata la mia estraneità al gruppo, oltre  a smentire che sia divenuto il capo dopo la morte di mio fratello. D’altra parte se ero a regime di 41 bis? Gli stessi che si autoaccusano di essere i responsabili ed i nuovi capi del gruppo escludono quei postulati investigativi che, se fossero supportati da un minimo elemento logico, avrebbero comportato come conseguenza diretta l’emissione di un mandato d’arresto o un’indagine nei miei confronti. Sono questi fatti che pongono la parola fine a qualunque deduzione che il tribunale politico della Cassazione ha potuto fare.

Quest’illazione, perché di questo si tratta, che quegli gnomi del diritto hanno tentato di trasformare alchemicamente in un fatto penale preziosissimo, l’ho smentita documentalmente. Ciononostante il tribunale, divenuto presidio di illegalità, senza nemmeno considerare la rilevanza “morale” dell’innocenza, evitando un errore alla giustizia, conclude a favore di tale illazione, commettendo però un falso ideologico, così come ha fatto la DNA con le stesse omissioni e alterazioni.

Se prendono atto che da venti anni, cioè da quando sono in carcere, non sono raggiunto da ordinanze di custodia cautelare, perché sottoposto al 41 bis, come possono affermare allo stesso tempo che sono a capo di un sodalizio votato al delitto? Se loro stessi confermano che l’isolamento relativo al regime speciale è efficace, come posso diventare capo di un sodalizio che è all’esterno? Un sodalizio che per ammissione degli stessi componenti, poi collaboratori di giustizia, si è sfaldato?

Dunque cosa sono? Un capo posto in isolamento che guida un gruppo dissolto?

Come potete osservare siamo di fronte ad un ginepraio logico che si sarebbe potuto evitare, semplicemente se ci si fosse attenuti alla documentazione prodotta da me e celata dalla DNA, invece di emettere una decisione degna di una nuova colonna manzoniana.

All’udienza-farsa tenutasi presso il TdS dell’illegalità si sostiene che essendo uno scopo del regime del 41 bis impedire a chi vi è sottoposto la continuità con il delitto, l’assenza di provvedimenti in tal senso nei miei confronti non è un elemento valido a mia discolpa.

Proprio perché appare plausibile quest’argomento dimostra la mala fede di chi lo adopera. A mia difesa produssi le revoche del regime di tortura, dimostrando che, in quei periodi di libertà dalle attenzioni orwelliane, l’assenza di provvedimenti dipendevano dalla volontà del sottoscritto a vivere condotte ineccepibili.

Fatto questo integrato dalle dichiarazioni di quanti autoaccusandosi, mi escludono totalmente dal contesto.

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Invece, ricorrendo al concetto di possibilità, ed evitando gli elementi di certezza, i servi della repressione aggiungono un mattone della vergogna a quella colonna infame manzoniana che già hanno innalzato con l’ultima decisione, arrivando a quella verticalmente superiore storica e  meritevole di Traiano che di Roma ne celebra i fasti anziché le infamie.

Il TdS romano, divenuto presidio di illegalità, non si pone  il problema etico-deontologico dell’utilizzo delle fonti investigative soprattutto quando queste sono superate da sentenze penali d’assoluzione.

Una verità che sostengo, producendo a mio favore un’assoluzione, dichiarazioni auto-accusatorie di collaboratori di quelle stesse procure che li utilizzano per incarcerare altre persone.

E dimostro che, non essendo chiamato tra la “rosa degli accusati”, di fatto non sono né indagato né sospettato, sia penalmente che moralmente, per reati che si sono consumati fuori delle mura del carcere. I cui “officianti”, confortati dall’immunità a posteriori della legge dei pentiti, compiono prima e confessano poi, smentendo qualunque partecipazione del sottoscritto.

Si riduce  così l’ipotesi  investigativa a mera spazzatura, fortemente inquinante sul piano ecologico, ma soprattutto su quello probatorio.

Ciononostante il TdS dell’illegalità continua a trarne utilità.

Scriveva 23 secoli fa Aristotele nei suoi studi di retorica che, tra la verità e l’errore c’è uno spazio intermedio dominato dal verosimile, dall’incerto, dall’opinabile.

E sicuramente la concretezza dei fatti sono una realtà che dà la misura del vero, e questo, nelle deduzioni logiche di certi “gnomi del diritto”, non dovrebbe essere opinabile.

Ad esempio, il tribunale dell’illegalità romano, scrive nella sua deplorevole ordinanza che tramite familiari pregiudicati in libertà potrei inviare ordini… Non tenendo in nessuna considerazione che non ho famigliari pregiudicati e gli stessi famigliari, nel senso stretto del termine, non hanno la disponibilità di raggiungermi nei luoghi della mia reclusione. Mia madre è un’ottantenne sulla sedia a rotelle, fatti incontrovertibili, documentati e confermati dal riscontro istruttorio penitenziario. Ma continuano gli acrobati, nel vuoto logico del loro argomentare, arrivando a sostenere che l’assenza dei colloqui potrebbe essere una strategia, così come la scelta di non presentarmi nei processi per non incontrare i coimputati, tacendo sul piccolo dettaglio che così facendo resto isolato da coloro con i quali mi vorrebbero in combutta.

Seguendo il ragionamento di questi acrobati della logica, che resta uno strumento d’indagine razionale, ci siamo ritrovati nel paradosso che della logica è il contrario.

Infatti non incontrare nessuno, significa non parlare con nessuno. Non parlare con nessuno significa che nessuno riceve le mie parole. Non parlare per 20 anni  con nessuno a quale conseguenza logica porta? Solo a quella di uno stato d’isolamento.

Uno stato d’isolamento che non può conciliarsi con la logica di un capo al comando.

Dunque, quale significato logico può darsi alla mia “strategia” d’isolamento, riconosciutami anche dal Tribunale dell’illegalità, se non quella che non sono a capo di nulla? E perché lo stesso tribunale da tali premesse giunge poi ad altre paradossali conclusioni?

Chi è quello scemo che si erge a capo senza comandare?

Stante i fatti, chi è più vicino alla verità io o gli gnomi del diritto?

Cos’è preferibile? La verità o la retorica, la scienza o l’opinione, la pedagogia o l’adulazione, domandava Platone. Ma noi la risposta la conosciamo.

Questi sono i dilemmi che popolano i miei pensieri, mentre la mente giace dove il mio corpo  riposa, perché cari miei, niente evade dal buio della cella, niente a parte l’immaginazione, vola oltre il perimetro delle mura di cinta del carcere. Ed in questo riflettersi, della memoria, gli orrori subiti assumono quelle fisionomie mostruose, come lo sono quelle esperienze oniriche che si vivono negli incubi.

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Quando nel 1993 ancora incensurato, fui sottoposto, come altre centinaia di persone, ai rigori del regime di tortura, vennero sospese nei miei confronti tutte le regole trattamentali previste dall’ordinamento penitenziario a garanzia dei diritti fondamentali.

Concretamente significò che il primo lodevole graduato che incontrai, pretendeva che quando entravo nel suo ufficio, avrei dovuto rivolgermi a lui, solo dopo essermi messo con la faccia girata verso il muro, cioè di schiena.

Le stesse modalità dovevano essere rispettate all’interno della cella durante le operazioni d’ispezione, la conta. Operazioni che venivano effettuate giorno e notte, con la pretesa notturna che avrei dovuto farmi trovare alzato, con il letto in ordine, quando al richiamo urlato conta sarebbero da lì a pochi minuti iniziate le operazioni ispettive.

La luce rimaneva rigorosamente accesa giorno e notte. La cella era stata privata della finestra originaria e sostituita da un pannello-gelosia opacizzato, che saldato ermeticamente assicurava che l’estraneo sole e l’intruso vento non accedessero dove gli era stato proibito.

La cella veniva chiusa da un cancello interno e sigillata da un portoncino blindato. Potevo uscire solo per un’ora allo scadere delle 24 ore. Il passeggio non conosceva il cielo, non sapeva cosa significasse il sole; era all’ombra, umido. C’era un freddo che penetrava le ossa .

Si contavano cinque passi a Nord e cinque a Sud. Quest’unica ora d’aria comprendeva due perquisizioni corporali, delle quali taccio le modalità, e un’ispezione, anche della bocca, prima di uscire dalla cella e un’altra al rientro. Non si parlava; l’obbligo era di stare in silenzio; al televisore veniva tarato il volume. Il “braccetto” era isolato dalle altre sezioni e la distanza da queste, impedivano anche ai rumori di farti compagnia.

Naturalmente il tribunale dell’illegalità, per costruire le proprie ordinanze infami deve avvalersi della retorica delle penne armate della propaganda cioè di quei manovali della repressione che sono le avanguardie degli uomini in trincea. Così e senza nessuna vergogna, l’ideologia repressiva si arricchisce di strumenti sempre più sofisticati di annientamento costruiti ad arte sul consenso che deriva dal panico sociale urlato dai pennivendoli del regime.

Adesso con la legge del 2009, voluta trasversalmente da tutte le forze politiche che “civilmente” siedono in parlamento, questo regime di tortura può essere rinnovato all’infinito senza una reale e attuale motivazione. Cioè la repressione legittimata dal parlamento, recuperata dall’esperienza manicomiale dell’internato senza fine, quella metodologia fallimentare che si fondava sul preteso sapere medico della diagnosi di pericolosità. Sapere medico sconfessato dalla scienza e che tuttavia nei decenni scorsi ha causato l’annientamento di tanti uomini. Utilizzando tale metodo, nell’analisi della personalità, non collegata ad elementi di fatto, succede che un nano del diritto possa decidere sul destino di un recluso, segregandolo a vita in un regime di tortura finalizzato all’esclusivo annientamento fisico e morale.

Questo cari amici, vivo dal 1993, cioè da 20 anni, di cui 15 trascorsi nelle sezioni di tortura del 41 bis.

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La pena di morte è stata abolita in Italia, ma la pena fino alla morte che sto scontando con l’ergastolo ostativo mi espropria della possibilità di vivere la vita e questo non è certo un progresso per la civiltà. Ancor peggio se si pensa alle condizioni disumane studiate a tavolino per rendere terribili i giorni dei reclusi all’ergastolo da certi maestri dell’afflizione che si spendono in questo disegno. Nemmeno i sentimenti più intimi sfuggono alla crudeltà che  pianifica il controllo delle emozioni.

Essere sottoposto per venti anni alla censura significa  subire una perquisizione interiore che  profana lo spazio dell’anima che dovrebbe rimanere un angolo segreto nel quale potersi rifugiare.

Nel regime di tortura, pensate, anche la scelta culturale è organizzata dall’Area educativa che decide quali testi e autori mettere all’indice. Uomini di cultura, laureati, che al servizio della repressione, con metodi medievali gestiscono il sapere del recluso, trattando le biblioteche non più come granai per le riserve materiali dello spirito, ma come laboratori scientifici per la manipolazione delle coscienze.

All’interno di queste sezioni è inibito anche l’acquisto dei quotidiani locali, pur essendo intervenuta la Corte suprema censurando tale comportamento. Cosi come è vietato ricevere libri dall’esterno, mentre quelli che scelgono e ti permetto di acquistare devono poi essere lasciati al patrimonio del carcere. Scandalo  che nemmeno il pessimo Mussolini ha immaginato contro il nemico, non solo politico, Gramsci.

Ad Antonio Gramsci la storia ha concesso l’opportunità di regalare al pensiero occidentale quegli scritti dal carcere che neanche l’infamia mussoliniana, che pure lo aveva privato ingiustamente della libertà fino a cagionarne la morte, gli ha impedito di realizzare per i posteri, lasciando quell’eredità intellettuale di cui tutti senza distinzione ci possiamo pregiare.

E’ un crimine contro la civiltà sottrarre le migliaia di testi conservati nelle biblioteche alle tante intelligenze che invece sono obbligate ad oziare. E tuttavia nessuno ne è informato, tutti tacciono, tutti applaudono, mentre le segrete medievali traboccano di martiri che guardano se stessi nel grigio invecchiato del cemento della vergogna che li tiene sepolti.

Il presidio sanitario preposto alla salute psico-affettiva che opera dentro queste sezioni di tortura, realizza protocolli diagnostici-terapeutici finalizzati a mantenere compatibile la salute del recluso con il regime afflittivo a cui è sottoposto.

Nessuna cura ha per scopo il benessere psico-fisico del paziente. Dottori in medicina al servizio della legge e non del malato, il cui razzismo scientifico nei confronti dei pazienti reclusi si manifesta nel pregiudizio delle diagnosi di simulazione a priori e a posteriori dell’indagine clinica.

Quindi, come semplice deduzione, anche il medico umanamente e professionalmente migliore indossa non il camice ma la divisa. Alla sua penna è proibito l’inchiostro deontologico, poiché gli imploderebbe tra le mani nella stesura di relazioni condite di gratuite stigmatizzazioni che calpestano la sofferenza.

Nessuna meraviglia. Quando studiavo ero ancora aodelescente, si raccontava che i campi di concentramento nazisti furono ispirati al forte di Fenestrelle, situato sulle Alpi, con la differenza che qui si utilizzava la calce viva per eliminare i prigionieri, , mentre i tedeschi, per i loro deportati utilizzarono i “forni crematori”.

sterminio di massa

Annoiato sui banchi di scuola chiedevo all’insegnante che cosa potesse riguardarci di un carcere sepolto da decenni di storia. Lui rispose che era stata fatta l’Italia politica colonizzando militarmente le terre del Sud, mentre a “Fenestrelle” morivano torturati gli italiani meridionali che si erano opposti a tale conquista. Uomini che arrivarono a conoscere l’inferno savoiardo, istituito con la legge Pica che avrebbe inaugurato i genocidi nel successivo secolo dell’orrore.

Quell’insegnante, che oggi ricordo con ammirazione, profetava sul destino che ancora dovevo sperimentare, rivolgendo quella lezione a noi figli del profondo Sud che a “Fenestrelle” avevamo perso la Patria. Figli di un dio minore, di fatto “colonizzati”, siamo trattati ancora come un problema di ordine pubblico.

Così come i nostri patrioti meridionali conobbero gli stati di assedio e le deportazioni, noi subiamo retate e incarcerazioni di massa. Come loro conobbero la “Fenestrelle” savoiarda, noi conosciamo le sezioni di tortura di stato; loro la legge Pica, noi quelle emergenziali del 41 bis.

Spesso si sente ripetere che l’unica industria al Sud che non conosce pressione è quella della repressione. Questa, per auto-legittimarsi e mantenere inalterati i privilegi, necessita che la tensione sia sempre alta, la pericolosità sempre attuale e la criminalità sempre più forte.

E solo il carcere è la soluzione, ma solo gli atti vili come le erbe velenose fioriscono nel carcere, tutto quanto di buono vi è nell’uomo  qui  va in rovina e avvizzisce per sempre… scriveva Oscar Wilde.

Il vostro amico Davide Emmanuello

 

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