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Disordini nel carcere di Pisa dopo il suicidio di un detenuto

Apprendiamo la notizia di disordini avvenuti nel carcere Don Bosco di Pisa la notte del 30 agosto, a seguito del suicidio di un detenuto tunisino di 21 anni. La rabbia dei reclusi, che lamentano oltre il ritardo nei soccorsi anche la difficile situazione carceraria, si è sfogata su suppellettili lanciati nei corridoi e lenzuola e materassi a cui è stato appiccato il fuoco. E’ il drammatico rituale a cui siamo soliti ad assistere, dove all’esigenza di più giustizia sociale e libertà vengono opposte repressione e burocrazia ignorante e assassina.

“L’ordine delle cose” di Andrea Segre in concorso a Venezia: docu-film realistico e attualissimo sui rapporti tra Libia e Italia in materia di Immigrazione e diritti umani

Lettera di Carmelo Musumeci: “Corte dei Carcerieri”

Non è consentito avere in cella più di tre libri: è una regola che risale ad 80 anni fa, al tempo della detenzione di Antonio Gramsci che fu autorizzato a tenere solo tre libri in cella. (Voce dal regime di tortura del 41 bis).
Signori Giudici, ventisei anni di carcere mi hanno insegnato che prima di scrivere bisogna leggere.
E dopo bisogna tentare di riflettere con la mente e con il cuore. Subito dopo però bisogna avere il coraggio di scrivere quello che si pensa.
È quello che ho deciso di fare adesso: non sono assolutamente d’accordo con voi che avete deciso di ritenere corretta la norma che consente all’amministrazione penitenziaria di vietare ai detenuti sottoposti al regime di tortura del 41 bis di ricevere libri e riviste dall’esterno. In questo modo, il “fine giustifica i mezzi” e, secondo voi, questo divieto consente di prevenire contatti del detenuto con l’organizzazione criminale di provenienza. A mio parere però con questa decisione avete fatto un “favore” alla mafia perché non avere tenuto conto che i libri potrebbero aiutare a sconfiggere l’anti-cultura mafiosa.
Signori Giudici, credo che pensiate in questo modo perché leggete poco, forse perché non avete tempo. Io, invece, in questi 26 anni di carcere, ho letto moltissimo. Potrei affermare che sono sempre stato con un libro in mano. E sono convinto che senza libri non ce l’avrei potuta fare.
Mi sono fatto la convinzione che noi siamo anche quello che leggiamo e, soprattutto, quello che non leggiamo. Vi confido che nei libri ho vissuto la vita che non ho potuto vivere: ho sofferto, ho pianto, ho amato, sono stato amato, sono cresciuto, sono stato felice ed infelice nello stesso tempo. E sono morto e vissuto tante volte.
Una volta, una giornalista mi ha chiesto qual era il libro che mi era piaciuto più di tutti. Mi è stato difficile rispondere, perché i libri sono un po’ come i figli: si amano tutti, perché tutti ti danno qualcosa. Alla fine ho detto che mi è piaciuto molto il libro “Il Signore degli anelli” perché molti prigionieri sono un po’ come i bambini. E per vivere meglio si immaginano di vivere in mezzo a boschi e palazzi incantati, fra meraviglie o incantesimi. Mi ha entusiasmato anche il libro “Il rosso e nero” di Stendhal perché mi ha insegnato che l’amore è fatto di amore. Poi ho citato il libro “Delitto e castigo” di Fëdor Michailovic Dostoevskij perché mi ha insegnato come si sconta la propria pena e che la vita è fatta di errore, se no non sarebbe vita. Infine, ho elencato i libri di Hermann Hesse, fra cui “Siddharta” e “Il Lupo della steppa”, perché mi hanno insegnato che quello che penso io lo pensano anche gli altri… a parte forse voi.
Signori Giudici, permettetemi di affermare che nei libri non ci sono dei nemici. Anzi, essi aiutano a frugare meglio dentro se stessi. Solo gli sciocchi hanno paura dei libri. Per la prossima volta che dovrete prendere delle importanti decisioni, vi consiglio di leggere prima un buon libro, come facevano i padri della nostra Carta Costituzionale che il carcere lo conoscevano bene, perché sotto il regime fascista vi hanno trascorso molti anni della loro vita.
I libri sono stati la mia luce in tutti questi anni di buio, mi hanno anche aiutato a continuare a lottare e a stare al mondo perché, come scrive Elvio Fassone (ex magistrato e componente del Consiglio della magistratura, oltre che Senatore della Repubblica), nel suo libro “Fine pena: ora”: “Certe volte una pagina, una frase, una parola smuove delle pietre pesanti sul nostro scantinato”.
Fin dall’inizio della mia lunga carcerazione ho iniziato a leggere, all’inizio con la testa e alla fine con il cuore. L’ho fatto prima per rimanere umano, dopo per sopravvivere, alla fine per vivere.
Credetemi non è stato facile leggere in carcere quando ero sottoposto al regime di tortura del 41 bis o nei circuiti punitivi e d’isolamento, perché spesso, per ritorsione, mi impedivano persino di avere libri o una penna per scrivere. E in certi casi mi lasciavano il libro, ma mi levavano la copertina.
Penso che ci dovrebbe essere una buona legge per “condannare” i detenuti a tenere più libri in cella e, forse, anche una norma per obbligare i giudici della Corte Costituzionale a leggere di più.

Carmelo Musumeci
Marzo 2017
www.carmelomusumeci.com

 

Letture: “Per qualche metro e un po’ d’amore in più”

Per qualche metro e un po’ d’amore in più

Per qualche metro e un po’ d’amore in più
Raccolta disordinata di buone ragioni per aprire il carcere agli affetti

416 pagine, 207 testi provenienti da più di 60 Carceri italiane e da una ventina di Scuole superiori
a cura di Angelo Ferrarini, docente al laboratorio di lettura scrittura ascolto
introduzione di Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti e presidente della Conferenza nazionale Volontariato Giustizia
stampa a cura di Grafiche Turato, Rubano, Padova. Copertina di Antonio Boffa

Tema del volume sono gli affetti ristretti, cioè i sentimenti e i rapporti limitati, interrotti, chiusi, raccontati dalle esperienze di chi sta subendo la condanna e di chi ha cercato di tenere i legami nonostante gli spazi e i tempi dei colloqui o di una telefonata, con prime vittime proprio le famiglie e i figli. Il volume nasce dal tema di discussione e confronto proposto nell’Anno Scolastico 2013-14 a scuole, associazioni, istituti di pena con il titolo: “Per qualche metro e un po’ d’amore in più”. Nel corso del 2014 e all’inizio del 2015 sono arrivati alla redazione interna ed esterna di «Ristretti» centinaia di testi, rivisti poi e riuniti con un lavoro a più mani fino alla fine del 2016.
Arricchito di note e di appendice, stampato in mille copie, ha un costo di 15 €, che andranno a totale sostegno delle attività dell’Associazione Granello di Senape – Ristretti Orizzonti, essendo il costo di stampa già stato coperto dal crowfunding.
Il volume è corredato da un segnalibro con elenco dei 100 donatori del crowfunding.

PER INFO: redazione@ristretti.it

Lettera di Maurizio Alfieri

Carissime/i compagne/i, come vedete insieme a questo mio scritto ho allegato un articolo scritto da un “pennivendolo” che si chiama Paolo Cittadini del quotidiano “Il Giorno”. Mettono in risalto un semplice gesto di alcune agenti di custodia (donne) che si sono mobilitate in una colletta per l’acquisto del latte in polvere per una “puerpera” mamma e il suo bimbo di soli 2 mesi sbattuto in galera.

Già il fatto che un giudice e un governo (di infami) mettono in galera un cucciolo e la sua mamma, mi fa imbestialire … e i sindacati hanno scritto che: questo gesto mette in risalto “l’umanità e la sensibilità di lavora tra mille difficoltà”.

A questo giornalista, alla redazione del giornale voglio dire di finirla di scrivere solo articoli che occultano i crimini che quotidianamente avvengono in questi “lager e luoghi di tortura”. E adesso vi racconto io di cosa fanno qui a Opera ai bambini di soli 2 mesi e alle loro mamme.

Vi piacerebbe, a voi (pennivendoli) sapere che qui ai colloqui spogliano i bambini, le donne e anche anziani portatori di handicap?

Non ci sono scuse per questi vigliacchi perché ci sono mezzi meno invasivi e più dignitosi per perquisire i nostri familiari; ci sono i cani anti-droga e metaldetector, invece vogliono traumatizzare i bambini e umiliare i nostri familiari, per cui, quando un detenuto aggredisce qualcuno di costoro non scrivete per quale motivo accade. Voi ipocriti del “c….o” non scrivete mai dei pestaggi-umiliazioni e abusi a cui il detenuto e i suoi cari sono sottoposti.
Io insieme ad altri 49 compagni siamo ubicati in sezioni chiuse (4° piano 1° padiglione sez. A), perché ci ritengono “pericolosi”, dato che non accettiamo le loro regole, fatte di ricatti e umiliazioni; e la direzione di questo istituto pensa solo ad apparire in tv e sui vostri sporchi giornali con il teatro e altre iniziative che coprono le loro violenze.

E adesso vi dico una cosa che (noi) non abbiamo bisogno di pubblicare a differenza di voi “luridi servi del potere”. Più di un mese fa abbiamo raccolto fondi da destinare ai bambini colpiti dal terremoto. I soldi sono arrivati a destinazione, eppure la direzione e chi per lei, su questo gesto di solidarietà non hanno detto niente a nessuno. Non si sono degnati neanche di chiamare uno solo dei miei compagni, i ragazzi che hanno donato anche solo 5 euro, e che per questo non hanno potuto scrivere ai loro cari non avendo disponibilità economiche.

Noi non vogliamo compassione e ringraziamenti dalla direzione. L’anno scorso abbiamo partecipato alla colletta alimentare per i poveri, non perché c’era di mezzo la direzione, se no avremmo fatto a meno di aderire con dei criminali vestiti dell’autorità della direzione.

In sezione e in isolamento ci sono detenuti malati terminali, ragazzi con seri problemi psichici. L’altro imboccavo uno di loro, Umberto, ed erano 10 giorni che andavo dai dottori (veterinari), adesso sta morendo in ospedale, ecco quello di cui dovete dare notizie.

Voi non sapete che siamo noi a prenderci cura dei ragazzi malati che ogni sera in sezione ci impegniamo per far fare loro la doccia, per farli mangiare, e per tutto il resto, quello che la direzione di questo ignobile carcere non fa. Eppure voi giornalisti esaltate questi esseri indegni, non indagate su quanti si sono suicidati qui a Opera, non parlate più di quelle merde che l’anno scorso nei social network esultavano per la morte di un detenuto suicidatosi in isolamento … e (le merde) dopo una settimana di sospensione sono stati reintegrati – sempre qui a Opera. Siete solo dei “lecca culo” e farabutti.

Perché non ci sono altri “Corona” chiusi qui a Opera, vero? S no voi, Signorini, Barbara D’Urso e molti altri avreste dato spazio a trasmissioni e quotidiani, vero? Vaffanculo voi e Corona (merde) mentre i detenuti muoiono per incuria, per mancanza di cure mediche, per istigazioni, per disperazione, e mentre altri vengono pestati, umiliati, derisi e trasferiti a 1000 km lontano dai loro cari e dai propri figli. Ecco che ci sono giornalisti più infami di chi commette tutti questi crimini.

Dovete fare il vostro lavoro con la vera onestà che la deontologia vi avrebbe dovuto insegnare. Venite qui fuori ad intervistare i nostri familiari, che sono liberi cittadini, che pagano le tasse, e che qui trattano peggio dei cani.
Scrivete che non permetteremo più questi abusi; e se i detenuti pestano uno di questi parassiti che fanno abusi ai colloqui, tutti noi detenuti ne saremo fieri e orgogliosi. La stessa cosa e per i giornalisti indegni e di parte come voi.

Da una cella d’isolamento, a testa alta, Maurizio

Non ricevo più posta, avvisate; ho scritto parecchie volte lettere normali, in modo che arrivano a destinazione. Scrivete al direttore, alla direttrice, insulti. Parolacce e i miei saluti. Vi abbraccio con tanto bene. Abbraccio compagne/i sorelle e fratelli di tutti i centri sociali: Hasta la victoria siempre! W l’anarchia!

Fraternamente, Maurizio

Maurizio Alfieri picchiato nel carcere di Opera

APPELLO URGENTE ALLA SOLIDARIETÀ

Il detenuto in lotta Maurizio Alfieri è riuscito a farci sapere che dal 4 novembre si trova, per l’ennesima volta, in isolamento.

In seguito alle sue proteste per il trattamento riservato ad altri detenuti, un agente lo ha colpito a tradimento. Il compagno ha reagito; poi è stato immobilizzato e aggredito da una decina di secondini, che lo hanno portato in una cella liscia. Maurizio ha rotto la telecamera di sorveglianza, quindi è stato trasferito in isolamento per dieci giorni di punizione, a cui se ne aggiungerebbero altri 120 già bell’e pronti nel cassetto.

I suoi compagni di sezione hanno subito dato vita a una sorta di presidio interno. Convocati in una saletta dal comandante, questi ha detto loro che Maurizio salirà in sezione tra una settimana; mentre a Maurizio è stato minacciato il trasferimento con l’ennesimo 14 bis (isolamento punitivo).

Gonfio e pieno di lividi, Maurizio dice: “Piuttosto che piegarmi mi faccio ammazzare”.
Maurizio è uomo di parola.

Per lui e per tutti i detenuti in lotta, che la solidarietà non ci rimanga in tasca.

Maurizio Alfieri
Via Camporgnago 40
20090 Opera (Milano)

Doc: “Uno sguardo sulla privatizzazione delle carceri in Italia”

“Uno sguardo sulla privatizzazione delle carceri in Italia” è un documento dalla rete che analizza in modo esatto il tema della privatizzazione delle carceri.

 

Introduzione

 

La privatizzazione delle carceri è un fenomeno oramai diffuso su tutti i continenti. Si è scritto e indagato tanto sulle sue origini, la sua storia e sui mostruosi effetti che si verificano nei contesti in cui si sviluppa. In paesi come gli Stati Uniti, l’Australia o la Gran Bretagna le prigioni private rappresentano da più di trent’anni una triste normalità e le grandi corporation che vi operano, hanno modellato i penitenziari statali secondo l’ottica liberista, riuscendo a capitalizzare, con precisione e a fondo, ogni aspetto della vita carceraria. Un processo che, mettendo a profitto la funzione base del carcere, quella detentiva e repressiva e sfruttando il lavoro, coatto o meno, dei detenuti è andato insomma ben oltre la semplice esternalizzazione del servizio lavanderia.

In molti luoghi, infatti, le carceri, in questo caso sia pubbliche che private, riforniscono una fetta non indifferente del mercato del lavoro, attraverso la fornitura di migliaia di detenuti -lavoratori a salario ridotto, un esercito di uomini e donne impegnati nei diversi comparti della sottofiliera industriale e agricola; manodopera a bassissimo costo capace di produrre lauti profitti per le imprese coinvolte. Molte volte gli stessi impianti di lavorazione sono presenti addirittura all’interno dei penitenziari. Ciò che si va a creare è un arcipelago di carceri – fabbrica, disseminati sul territorio nazionale, connessi con i gangli commerciali principali di un territorio. La messa a valore dell’universo carcerario nel caso delle carceri private, però, non si riduce prettamente al profitto assorbito dal lavoro dei detenuti, infatti, l’elemento cardine di tale fenomeno è rappresentato proprio dalla reclusione stessa, dall’internamento come produttore di plusvalore.  In questo caso il carcere privato è definibile come una vera e propria  fabbrica della reclusione, dove la presenza effettiva del prigioniero è di per sé fonte di guadagno e dove, quindi, è interesse dell’impresa-  carceriere tenere costantemente piene le celle, assicurarsi, cioè, un flusso costante in entrata per  garantirsi tariffe giornaliere o rimborsi dei costi. E’ facile immaginare quali siano le conseguenze sociali di un sistema come questo, i cui principi animano, d’altronde, anche la gestione dei Centri d’identificazione ed espulsione in Italia.

L’intero processo di privatizzazione segue svariate vie, assume forme differenti e si sviluppa lungo fasi nello specifico anche molto diverse tra loro, il più delle volte però è sorretto da un discorso politico emergenziale simile,  correlato al secolare problema del sovraffollamento o giustificato dal sicuro risparmio per le casse dello Stato in un momento di recessione.

 

Cosa succede in Italia? Alla luce di quanto è in opera in altre parti del mondo, il sistema italiano, la cui privatizzazione è ancora agli albori, necessita di un approfondimento ulteriore, allo scopo di comprendere meglio le sue possibili evoluzioni ed essere in grado di sviluppare prospettive di lotta adatte a questo contesto in piena trasformazione.

Questo testo, cercherà di offrire un piccolo scorcio, breve e limitato al contesto nostrano, su alcuni aspetti particolari del fenomeno sopra citato.

 

Un processo lungo un ventennio

Negli anni ’90, sulla lunga scia delle politiche in atto in Gran Bretagna e Stati Uniti, venne avviato un programma generale di modernizzazione della pubblica amministrazione in un’ottica di razionalizzazione e trasformazione di tutti i suoi comparti e settori. Venne coniato così il termine di  “New public management”, dottrina imposta allo scopo di rendere più efficiente il sistema pubblico, riducendone i costi e aumentandone i profitti, utilizzando modalità e metodologie proprie del settore privato.

In quel momento presero il via le prime esternalizzazioni del settore pubblico italiano, carceri comprese, e si decretò il cosiddetto “arretramento dello Stato”, in linea con le richieste generali d’imponenti istituzioni sovranazionali come FM, BM e Ocse.

Tale processo si inserì per di più nella cornice dei vincoli dettati dal trattato di Maastricht. Sebbene già dalla fine degli anni ’80 alcune aziende fossero entrate nel settore pubblico, ivi compresi i penitenziari, offrendo alcuni servizi come la pulizia delle strutture, solo dagli anni ’90 il fenomeno iniziò a diventare una procedura regolare nella fornitura di prestazioni delle più svariate.

Nel 2001 l’allora guardasigilli Fassino, nell’intento di proseguire verso la direzione di privatizzazione oramai avviata, dispose la dismissione di 21 carceri e l’individuazione di un modello inedito di prigione di media sicurezza e a trattamento penitenziario qualificato. Vennero create imprese apposite con l’intento di riconvertire le carceri considerate vetuste e, attraverso il coinvolgimento dei privati, individuare nuove aree edificabili per nuovi e moderni penitenziari.  Benché i primi passi in tale direzione risultarono allora macchinosi e infine poco produttivi, le intenzioni rimasero comunque in piedi, addirittura rafforzandosi sotto la guida di Castelli.

Proprio in quegli anni, sotto la spinta di una politica repressiva senza precedenti nei confronti dell’utilizzo di sostanze stupefacenti, vide la luce quello che molti definirono il primo carcere privato in Italia.  Il 21 Marzo 2005, dopo quattro anni dalla presentazione del progetto, nacque, infatti, a Castelfranco Emilia in provincia di Modena, la cosiddetta “Comunità agricola”, un comunità terapeutica di stato per la reclusione e il recupero di 140 detenuti tossicodipendenti. La gestione della struttura andò in mano, senza gara d’appalto, alla famigerata Comunità di San Patrignano. Al di là delle proteste che scaturirono per la scelta dell’associazione di Muccioli, famosa per le pratiche terapeutiche a dir poco ributtanti e violente, e al di là delle critiche per le politiche repressive che l’allora governo stava attuando, l’attenzione si concentrò, in parte, sulle modalità gestionali stesse, che mai avevano visto dei precedenti in Italia. Un ente privato, nello specifico un’associazione, prese in gestione tutte le mansioni e prestazioni, salvo quelle più schiettamente repressive e custodiali, di un vero e proprio carcere per detenuti tossicodipendenti. In questo caso non si parlò, infatti, di semplice esternalizzazione di uno o più servizi nell’ottica di un protocollo d’intesa, ma di una perfetta partnership pubblico-privato.

 

A piccoli passi

Nel 2012 sotto il Governo Monti venne emanato il Decreto-Legge 24 gennaio 2012, n. 1,  meglio conosciuto con il nome di “Decreto Liberalizzazioni”.  Uno degli elementi più rilevanti di tale testo è contenuto nel Titolo II Capo 1, art. 43, in cui si affrontano importanti novità riguardanti l’edilizia carceraria.  Intese come disposizioni urgenti per “fronteggiare la grave situazione di emergenza conseguente all’eccessivo affollamento delle carceri” si introdusse, questa volta in modo più concreto di quanto avesse fatto il governo di Centro-sinistra nel 2001, lo strumento del Project financing applicato al business della reclusione.

Ebbene che cos’è questo strumento? Il Project Financing è un dispositivo economico, già in uso in Francia e Gran Bretagna da molto tempo, che permette la partecipazione di grosse aziende, imprese private o Banche (quest’ultime solo se finanziano almeno il 20% del costo d’investimento) alla progettazione, costruzione e infine gestione di nuovi penitenziari. Infatti, lo Stato che partecipa con una percentuale al finanziamento, permette all’azienda che ha progettato e costruito il penitenziario di gestire la struttura in tutti i suoi servizi e mansioni, escluso quello custodiale, per 20 anni, ricavandone tutti gli utili e i profitti del caso. Allo scadere del ventennio la gestione ripassa, debiti compresi, allo Stato.

Una volta iniettata la riforma, il processo non tardò certo ad avviarsi.

Ai giorni nostri, qualcuno, come meravigliarsi d’altronde, ha colto la palla al balzo.

 

Il carcere di Bolzano

L’inaugurazione del nuovo carcere di Bolzano si sarebbe dovuta tenere nel giugno 2016, ma a causa di alcuni ritardi nei lavori, è slittata a giugno 2018. Questa struttura, voluta fortemente dalla provincia autonoma di Bolzano – Alto Adige, è definibile a tutti gli effetti come un vero e proprio penitenziario privato, il primo di questo genere in Italia. Il carcere – progettato per 220 detenuti e comprendente una sezione di 20 posti per semiliberi, una caserma per 30 agenti e moduli abitativi esterni per un centinaio di famiglie di secondini – è il primo esempio in Italia di partnership pubblico-privato applicata alla reclusione ed il primo caso di project financing riferito all’edilizia carceraria. Sarà una “rivoluzione trattamentale” secondo le parole dell’Avv. Massimo Ricchi, professore alla LUISS e consulente PPP per la provincia di Bolzano, in grado di andare incontro ad un sistema penitenziario che “come tutti i processi produttivi, (…) crea delle diseconomie e delle esternalità”. I punti forti del Project Financing sono la velocità nei tempi di attuazione, risparmi nella spesa per lo stato, possibilità di negoziazione con l’affidatario scelto per il progetto; elementi che creano un modello giuridico, tecnico ed economico- finanziario ripetibile.

È interessante notare come la possibilità di realizzazione di questa struttura sia stata permessa dapprincipio da una normativa emergenziale, decretata nel 2010 a causa del sovraffollamento carcerario, che ha consentito al Capo del DAP di ricoprire anche il ruolo di Commissario governativo per l’emergenza carceraria e quindi di essere al tempo stesso anche Commissario delegato con poteri emergenziali di protezione civile. Tale situazione, nel caso d’Intesa tra Governatore della regione o della provincia autonoma e il capo del Dap, ha permesso la concentrazione in un unico atto di tutti i punti della localizzazione, rendendo così il procedimento più veloce e derogando alle norme del codice civile e al codice dei Contratti.  Quindi un contesto emergenziale che una volta annunciato, come spesso accade, permette al legislatore stravolgimenti giuridici e burocratici difficili da far passare in una situazione normale.

In linea generale, l’appalto ideato prevede la concessione di lavori pubblici in primo luogo per la progettazione e la costruzione della nuova prigione che, secondo lo studio di fattibilità, ammontano a circa 72 ml di euro, e in seconda battuta riguarda la gestione dello stesso per i vent’anni successivi. Più precisamente, da un lato, all’impresa vincitrice del bando spetta una parte del finanziamento della struttura, della sua progettazione definitiva ed esecutiva, secondo le linee guida progettuali, della sua costruzione, della fornitura di arredi, apparecchiature, attrezzature e suppellettili, dall’altro lato, secondo un profilo prettamente gestionale, l’impresa privata si farà carico della manutenzione ordinaria e straordinaria dell’immobile e degli impianti, della gestione delle utenze, del servizio lavanderia, della mensa collettiva e dello spaccio alimentare, del bar interno, della pulizia dell’edificio e della gestione delle attività sportive e di quelle formativo- ricreative. Questo carcere si presenta come un esempio innovativo, un modello di carcerazione al passo coi tempi, moderno nei metodi e nelle strutture, nell’utilizzo della sorveglianza dinamica e nella creazione della prima mensa collettiva in un penitenziario italiano.

All’ente in questione spetta il 67% dei costi di progettazione e costruzione, mentre il restante 33% grava sulle casse dello Stato. Per la gestione di tutti i servizi sopracitati, invece, l’impresa scelta incasserà un canone annuo di 2,4 ml di euro nella cornice di un possibile canone di disponibilità annuo di 5,8 ml.  Quest’ultimo indica la somma stanziata dallo Stato al soggetto privato nel caso in cui tutto il procedimento gestionale vada a buon fine, ovvero senza intoppi, ritardi e vizi di forma che comportino il non effettivo funzionamento e la mancata disponibilità, anche temporanea e parziale, della struttura.

Ma che significato ha il termine “disponibilità” se traslato dal vocabolario dell’economia all’interno della semantica dell’universo carcerario? Innanzitutto significa certezza che i servizi offerti ai reclusi siano presenti e funzionino bene, che le strutture siano agibili, pulite e integre ma, cosa forse più importante e tremendamente banale, che all’interno del carcere ci siano costantemente uomini e donne internati. Insomma, l’utilizzo dello strumento della “tariffa giornaliera fissa”, attraverso la quale lo stato paga all’azienda una somma relativa al numero di detenuti effettivi all’interno della struttura,  utilizzato d’altronde nelle carceri private statunitensi o nei Cie italiani,  ha una sua origine, un suo modello evolutivo le cui prime fasi sono rintracciabili proprio nel concetto di “disponibilità” sopracitato.

L’appalto per la costruzione del carcere di Bolzano se l’è aggiudicato l’impresa INSO – sistemi per infrastrutture sociali, un’azienda multinazionale, con sede legale a Roma, presente in diverse zone d’Europa e del mondo. L’impresa si occupa soprattutto di progetti di costruzione e fornitura di tecnologie nei settori della sanità, dell’industria e del terziario. Essa è inserita in una rete di aziende e imprese subordinate a Ferfina spa, meglio conosciuta come Condotte per l’acqua spa, leader italiano e mondiale nel settore delle costruzioni civili, autore di diverse opere devastanti in giro per il mondo come la Centrale Elettronucleare Montalto di Castro e quella di Trino Vercellese, l’alta velocità Torino – Milano e Roma – Napoli, il progetto Mose a Venezia e quello del ponte sullo stretto di Messina, solo per citarne alcune delle tantissime presenti sul territorio italiano. I terreni su cui sorgerà il penitenziario, invece, 18 mila metri quadri d’estensione, sono stati acquistati, a scopo speculativo dal Gruppo Podini e Rauch di Bolzano, anche grazie ai compensi della Provincia Autonoma.

La costruzione di un nuovo carcere è sempre un evento molto grave, in questo caso, però, assume un significato ben più profondo. Esso è il precedente che spianerà la strada ad una privatizzazione più ampia del sistema carcerario italiano con le conseguenze e gli effetti che tutti conosciamo.

Il processo in atto, tuttavia, non si conclude certo con la costruzione di un solo carcere “modello” al nord Italia; esso è una piccola espressione di un movimento più ampio dove gravitano altri fattori e dinamiche. Il carcere di Bolzano, insomma, non è l’unico indicatore di tale evoluzione, elementi diversi possono essere scovati anche altrove.

 

Gepsa in Italia

Da qualche anno a questa parte si è inserito all’interno del mercato della gestione degli immigrati in Italia, un nuovo ente gestore, dinamico e intraprendente, dotato di una storia e di un profilo molto significativi, l’azienda francese Gepsa, branca di Cofely, parte a sua volta di Gdf-Suez (Engie). Essa ha pervaso diversi ambiti del business legato ai flussi migratori, proponendosi come gestore di strutture differenti tra loro, dalle carceri per immigrati senza documenti fino ai Centri per richiedenti asilo. Attualmente l’azienda, coadiuvata dall’associazione siciliana Acuarinto, gestisce due dei Cie più grandi d’Italia, quello di Torino e Roma, un Cara a Milano (nei pressi dell’ex Cie di via Corelli) ed è presente in quasi tutte le gare d’appalto per la gestione degli altri Cie o centri per richiedenti asilo sparsi sul territorio nazionale. L’azienda, insomma, in pochi anni è riuscita con successo a penetrare sul territorio nostrano, imponendosi, grazie alle sue qualità, come leader nella gestione di strutture concentrazionarie. La storia della multinazionale francese e le competenze che ha sviluppato negli anni la dicono lunga su quanto essa possa rappresentare un modello aziendale ripetibile e, soprattutto, su quali scenari possa aprire la sua entrata nel panorama italiano.

Gepsa, infatti, è un’azienda nata nel 1987, a seguito di un mastodontico piano carceri in Francia. Attualmente gestisce oltralpe ben 13 penitenziari e 8 Centri d’identificazione ed espulsione, ed è impegnata nel project financing di 4 nuove prigioni, oltre ad essere amministratrice del lavoro di migliaia di detenuti.

Una presenza, la sua, che, come spesso accade, non si limita al semplice intervento nei bandi di gara, ma si concretizza in una vera e propria attività di lobbying nei confronti delle diverse istituzioni, una prassi il cui fine non è esclusivamente l’accaparramento degli appalti, ma la concreta modifica della legislazione vigente. Per un’azienda come Gepsa il mercato italiano della carcerazione, ancora sottoposto ad un modello chiuso economicamente e in pratica ristretto dalle grinfie del controllo statale, necessita di una profonda rivoluzione giuridica, un cambiamento che lo avvicini ai modelli liberali anglosassoni o perlomeno al modello misto francese, in cui Gepsa opera da anni.

Si è scritto tanto sulle pressioni che alcuni colossi della carcerazione operano nei confronti di istituzioni e partiti ed, infatti, non fanno notizia i milioni di dollari elargiti durante le campagne elettorali inglesi, australiane o nordamericane. Tuttavia, in Italia, di tale prassi si sa ben poco. A tal proposito, le notizie in circolazione su queste aziende sono limitate e non si riesce a capire quasi nulla dei loro movimenti sotterranei. Attività che indubbiamente esiste e risulta fondamentale ai fini dell’investimento. Nel maggio 2013, ad esempio, si è svolto presso la Casa circondariale di Saluzzo un seminario di approfondimento sul tema del Partenariato Pubblico Privato nella gestione dei servizi ausiliari penitenziari. All’incontro erano presenti varie autorità, personalità del Dap affiancate da alti rappresentanti sia di Gepsa che di Cofely. Al di là delle spiegazioni su cosa è e come potrebbe essere gestito il PPP, risulta chiaro che lo scopo di un seminario come questo e di altri incontri, sicuramente organizzati, sia ben altro rispetto ad un banale confronto.

 

Conclusioni

Che peso e che significato ha la presenza di un colosso della carcerazione come Gepsa in Italia e la sua partecipazione all’affare immigrazione? E soprattutto come legare questa figura a quanto detto finora, cioè ai lenti cambiamenti giuridici, alla comunità di Muccioli e al carcere di Bolzano?

La penetrazione dei privati all’interno del sistema carcerario penale non avviene dall’oggi al domani. Come ampiamente documentato, perché verificatosi in altri contesti, tale fenomeno pervade dapprima settori subalterni alla carcerazione. Un esempio classico è, come visto, la banale fornitura di servizi ai detenuti, un canale d’accesso che si può definire privilegiato, diretto e semplice. Ma ciò che rappresenta un vero e proprio banco di prova per le aziende è la gestione di strutture totali diverse dalle carceri, ma in qualche modo ad esse prossime e somiglianti.

In alcuni contesti, infatti, queste strutture hanno preso la forma dei centri di recupero per tossicodipendenti o delle case di riabilitazione, in altri luoghi, si sono invece palesati soprattutto nel settore, ambiguo e complesso sotto il profilo giuridico e legislativo, della detenzione amministrativa per immigrati irregolari.

Così, le aziende private, attraverso la gestione di comunità terapeutiche e Cie, hanno accumulato esperienza in questi settori, captato consenso e accettazione sociale e, una volta assicuratasi un’aurea di normalità, se non di umanitarismo in alcuni casi, hanno permeato il mercato carcerario più ampio. Questo è probabilmente il cammino percorribile in Italia da cooperative, associazioni e aziende, vecchie o nuove, nostrane o transalpine, il cui passaggio da una struttura detentiva per immigrati ad un carcere penale diventerebbe all’oggi molto più agile. Al momento molti di questi enti non dispongono del capitale necessario per la gestione di un penitenziario, ma qualcosa indubbiamente si sta muovendo.

Per questo motivo la presenza di Gepsa nella gestione dei Cie dovrebbe destare una forte attenzione.

Essa rappresenta uno dei punti nevralgici di una mappatura più ampia, una topografia del “campo” che collega il Cie di Roma al carcere di Bolzano, il Cara di Milano alla Comunità di Castelfranco, un universo concentrazionario privato in piena ed energica espansione.

Lettera-denuncia dal carcere di Opera (MI)

 

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“Ciao,

di operatori in questa sezione ce ne sono quattro, ma sono qui solo per guidarci nel progetto, per tutto il resto non hanno voce in capitolo; però c’è da dire che per tutte le nostre lamentele loro ci sono e fanno da portavoce, purtroppo inutilmente.

Il ragazzo marocchino, salvato da uno di noi dalla morte, dopo il suo gesto estremo è stato portato in isolamento a cella liscia, senza tv, lenzuola e tutto il resto, praticamente 14bis. Il paradosso è che dopo il suo gesto hanno iniziato a dargli le giuste cure per il suo dolore ai testicoli ed ora sta bene. Mi domando, uno che sta male per essere curato deve arrivare a tanto? Boh. Secondo le guardie, soprattutto i loro capi, è tutta simulazione. Ma, mi domando, se non gli veniva tolto il cappio dal ragazzo che l’ha trovato impiccato, sarebbe morto: chi morirebbe par una simulazione? Non c’è dubbio che il suo male, dolore è stato trascurato da medici e guardie, come spesso accade qui. Al ragazzo che l’ha salvato non hanno detto parola, però quando c’è da fare rapporti e buttare i detenuti in isolamento lo fanno subito.

Dei ragazzi che hanno subito punizioni per la raccolta di firme su richieste di mettere fine a tante schifoserie, ti posso dire che stanno tutti bene e che sono in sezione, alcuni devono ancora pagare il periodo di isolamento. Si vedrà.

Passare l’estate qui a Milano so che non è bello, da libero è capitato anche a me, comunque grazie a questo sporco sistema retto da indegni politici mangia soldi, tante persone si trovano in una situazione di disagio senza lavoro e soldi. Ti giuro darei fuoco alla Camera e al Senato, puzzano tutti di marcio, ma in galera non ci finiscono mai, a differenza dei poveri disgraziati come me che, per far mangiare i propri figli vanno a fare reati.

Saluta tutti/e i/le compagni/e sempre a pugno chiuso e a testa alta”.

Settembre 2016

Lettera dal carcere di Opera di luglio 2016

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… Questa mattina è accaduto un fatto brutto: in diversi detenuti siamo riusciti a salvare un giovane marocchino che si era impiccato, abbiamo fatto in tempo ad alzarlo. Dopo una sosta in infermeria l’hanno portato purtroppo in isolamento ‘per motivi di sicurezza’. Spero al più presto lo riportino qui.

Tutto questo è accaduto per lo smisurato menefreghismo di Opera. La sua situazione, che a dir poco è sconvolgente. Praticamente più di un anno fa questo ragazzo ha preso un colpo ai testicoli. Da quel momento ha patito un dolore allucinante. Ha passato un anno sempre lamentando il dolore, ha fatto un paio di visite e qualche controllo; tutti privi di esiti su cosa gli provocasse il dolore.

Così, come accade sempre, è stato messo nel dimenticatoio di Opera. Lo vedevo quanto soffriva, non riusciva a sedersi, a camminare e non dormiva. Parlava con tutti, si sfogava, diceva sempre che non sopportava più quel dolore. L’altra sera gli hanno fatto un’iniezione; prima lo curavano con le bustine antinfiammatorie. Quella puntura gli ha provocato una reazione allergica. Fortunatamente non è andato in shock anafilattico (grave reazione allergica a rapida comparsa e che può causare la morte), comunque, il forte dolore e questo menefreghismo l’hanno portato a commettere l’estremo gesto. Per fortuna o per puro caso, ringrazio il destino che l’ha salvato.

Un’altra angheria e prepotenza viene dagli educatori, in primis Pizzuto, la direzione. Qui continuano a mettere dei bandi per trasferimenti in altri istituti. Qui in ogni sezione siamo 50, ebbene in certe sezioni almeno 20 chiedono di essere trasferiti, di andare via. Qui si sono chiesti cosa c’è che non va, perché così tanti se ne vogliono andare.

Così è stata fatta una riunione con i richiedenti trasferimento. Molti hanno detto che era per avvicinamento colloqui, altri per lavoro, altri ancora hanno detto che è per il modo di operare di Opera, non sei seguito e aiutato da educatori e assistenti sociali. Non c’è una sanità decente. Non ci sono possibilità di lavoro. Insomma Opera ti porta a fine pena. Visto che è così allora vogliamo finire la pena in altri istituti dove non sei tutti i giorni torturato psicologicamente.

Ma alla fine tutte le richieste di trasferimento sono state bloccate. Ti rendi conto di che cosa è Opera; qui davvero se non hai un minimo di forza per lottare contro gli abusi e le torture, vieni assorbito da queste mura e dall’situazione sporca e capitalista, fino a commettere atti di autolesionismo. Questo perché Opera ti lesiona il cervello: parlando tra detenuti, a tutti ci viene la frase “Opera ti devasta psicologicamente”, assurdo davvero.

Qui tutti ringraziano che l’altra sera, nonostante il temporale, siete venuti a manifestare la vostra solidarietà, una cosa che accresce domande, interesse in tanti a capire meglio il senso della nostra lotta.

Un saluto a pugno chiuso a tutte/i le/i compagne/i, grazie per tutto, alla prossima, sempre a testa alta.

Lettera collettiva dal carcere di Opera

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Carissimi amici e compagni,

siamo un gruppo di detenuti 4° piano 1° padiglione che vogliamo raccontare cosa è successo a Salazar (un bravissimo ragazzo filippino che non poteva nuocere ad una mosca) e che quando c’è stata la manifestazione di Antigone lui, per questo, aveva bruciato il materasso. Questo dopo che chiedeva, da 4 giorni di andare in isolamento, perché ha tre bambini piccolissimi, e non gli danno il lavoro.

Così, dopo l’intervento degli agenti è stato picchiato dal 4° piano fino al 2° piano, un agente gli ha sferrato un pugno, ma Salazar si è abbassato, essendo piccolissimo (pesa 40 kg), all’agente si è girato il ginocchio ed è caduto, battendo la fronte sui gradini delle scale.

Questi aguzzini non hanno perso tempo a fare pubblicare sul giornale su una pagina intera che ‘un agente è stato aggredito selvaggiamente da un detenuto’, invece di dire che (il detenuto) è stato picchiato da decine e decine di agenti, perché loro vogliono sempre passare per vittime, invece di dare il lavoro ad un uomo con tre bambini piccoli (uomo mite e sempre sorridente) che noi sappiamo come sono i filippini quando lavorano – anima e corpo.
Questa è la verità di quello che è successo e non di quello che hanno scritto i giornalisti in concomitanza con quello che la direzione vuole coprire per giustificare eventuali pestaggi.

UN ABBRACCIO DA TUTTI NOI DETENUTI 1°PADIGLIONE 4°PIANO IN SOLIDARIETA’ CON SALAZAR VITTIMA

DI QUESTO SPORCO E INFAME SISTEMA. GRAZIE DI TUTTO CIAO!

(fine luglio 2016)

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