Il Manifesto
Raccolta articoli
 
Ombre rosse cibernetiche
Che cosa si nasconde dietro gli hacker?

di Isidoro D. Mortellaro
da Il Manifesto del 16.02.00


Proprio mentre infuriava su Internet il cyberassalto ai nuovi santuari del commercio elettronico - e cubitali si facevano i titoli di giornali e gazzette del mondo, acuti e parossistici gli annunci in Tv - alto si è levato, domenica, sul Washington Post un grido di dolore. Che ne è dell'industria americana delle armi? Che ne è di "quel complesso militar-industriale" denunciato dal presidente Eisenhower all'alba degli anni Sessanta come un cancro "destinato a corrompere la nostra vita nazionale"?

A proporre il retorico interrogativo è stato David Ignatius, uno degli editorialisti più noti del giornale, acuto indagatore della scena internazionale e dei rivolgimenti indotti, negli instabili equilibri di pubblico e privato, dai processi di globalizzazione. Paradossale la risposta: l'industria americana delle armi sarebbe ormai ridotta a un "debole nanerottolo che zoppicante si incammina nel XXI secolo". Presi nel loro insieme, i 6 giganti Usa della produzione di armi - General Dynamics, Lockheed Martin, Litton, Northrop Grumman, Raytheon and Trw - più la Boeing, che però produce in buona parte per l'aviazione civile, non capitalizzano, ai valori di borsa della scorsa settimana, più di 65 miliardi di dollari. Insomma, poco più di un quarto dei 240 miliardi di dollari stimati per la fusione tra America on Line, Aol, e Time Warner, il nuovo gigante della Galassia Internet.

Azioni in calo

A chiarire ulteriormente il quadro starebbe poi la considerazione che, nell'ultimo anno, le loro azioni sarebbero calate di un buon 50%. A ulteriori e più sconsolanti prospettive indurrebbe infine l'adozione di uno dei parametri di valutazione più usuali nella comunità degli affari, il price-earning ratio, il rapporto tra prezzo delle azioni e utili. Nel loro caso oscilla tra 6,8 e 9,5. Indici comatosi, cioè, a fronte del rapporto medio di uno a trenta vantato dai 500 titoli indicizzati da "Standard & Poor's". Inevitabile, soprattutto in tempo di campagna elettorale, la conclusione del Washington Post: "anche un inguaribile scettico in materia di spese militari può rendersi conto che questo non è un trend salutare, che questa è un'industria debole e che la nazione ha interesse ad evitare il peggio".

La proposta è stringente, così come è maliziosa l'analisi. L'industria degli armamenti in senso stretto viene stralciata, resecata, nell'immagine riduttiva e vecchia del "complesso militar-industriale", dall'universo più largo del "complesso tecnologico-militare" disposto attorno alle scelte americane nel campo della difesa. Allo stesso Ignatius, così come ad altri commentatori della scena strategica americana, non sono del resto sfuggiti gli studi promossi dalla Rand Corporation sulla RMA, la Revolution in Military Affairs da tempo al centro delle strategie di rinnovamento promosse dal Pentagono per adeguare mezzi e risorse delle forze armate americane, per rivoluzionare lo stesso modo di concepire o fare la guerra. Per comprendere questo universo - e meglio collocare senso e portata dell'articolo sul "Post", come dell'allarme sul cyberterrorismo - converrà studiare attentamente l'ultimo paper presentato dalla Rand, a firma di John Arquilla and David Ronfeldt, due dei più preparati studiosi della cyberwar, dei mutamenti indotti dalla compenetrazione di guerra e comunicazione. Il rapporto è dedicato all'emergere della noosfera - dal greco noon: mente, intelligenza - ovvero di una "intelligenza planetaria" che, a partire dalle trasformazioni dell'"infosfera", dall'universo dei media cioè, e dai suoi nuovi intrecci con il potere, ridetermina complessivamente forme ed equilibri del mondo.

Nell'universo interconnesso e riconfigurato da Internet non valgono più i vecchi attributi della "politica di potenza", o almeno non valgono più da soli, ma se e a misura che sanno rideterminarsi come noopolitik, come "politica dell'intelligenza", come insieme di fini, politiche e mezzi atti a dominare e render sicure le nuove reti della comunicazione, il nuovo cyberspazio. I vecchi obiettivi della potenzia statuale, le vecchie alleanze stato-centriche, tra Stati sovrani, non sono oggi più perseguibili né realistici. Obiettivo strategico degli Usa, secondo gli studiosi della Rand, deve essere il ripensamento degli "interessi nazionali" in un quadro più ampio, orientato al potenziamento e alla messa in sicurezza di quella "fabbrica transnazionalmente interconnessa in cui sono stretti i nuovi attori della comunicazione globale".

La realpolitik di un tempo era orientata esclusivamente al rafforzamento degli Stati, l'attuale noopolitik deve rivolgersi invece alla messa in rete di attori statali e della società civile, a forgiare coalizioni cooperative di soggetti diversi. Gli Stati uniti sapranno affermarsi come catalizzatore egemonico di questi reticoli, di queste nuove alleanze, a misura che sapranno garantire, a livello globale, politiche di "apertura sorvegliata" delle nuove reti di comunicazione, del complessivo mondo del cyberspazio. Intanto, nella fase attuale in cui realpolitik e noopolitik coestitono e si influenzano reciprocamente, c'è bisogno di apprestare "difese profonde" nei confronti di attacchi esterni o del nuove cyberterrorismo, come anche di predisporre misure offensive di attacco. In breve, in attesa di poter usufruire dei vantaggi di "un'età della comunicazione orientata dal nuovo Manifest Destiny, dagli Usa come potenza egemone", bisogna "prepararsi ad una Pearl Harbor elettronica".

Ecco la "nuova frontiera" americana su cui di recente Paul Virilio ha richiamato l'attenzione come motore dell'hyperpotenza Usa. L'informazione, la comunicazione oggi rinnovano il mito di quella frontiera in cui Frederic J. Turner a fine 800 vedeva il segreto dello sviluppo americano, come "perpetuo ricominciare mediante il continuo capovolgimento". Ieri il "deserto", oggi lo spazio, la comunicazione "è il padrone della colonia". Ma ecco perché improvvisamente gli Usa rilanciano, assieme, allarme e preoccupazione per l'industria delle armi e per le reti di comunicazione, assillo unitario e principale di politiche che hanno eretto queste risorse a beni strategici da perseguire con un presidio e un investimento pubblici massicci. Ecco anche perché Clinton invoca su questo terreno una riqualificazione complessiva dell'iniziativa del G7, di quella alleanza oligarchica di poteri che prova a reggere il mondo in questo passaggio di civiltà.

La pentola

Soprattutto non deve meravigliare che la pentola scoppi proprio adesso. Come ha anticipato nella stessa giornata di domenica il Sunday Telegraph, ormai è dagli stessi archivi americani che viene conferma dell'esistenza di Echelon, la rete segreta di computer, gestita dagli Usa in condominio con Inghilterra, Australia, Nuova Zelanda e Canada e delegata a monitorare a setacciare l'universo della comunicazione. Adesso c'è conferma del fatto che Echelon serviva non solo a vincere la guerra fredda, ma anche a permettere alle imprese Usa di aggiudicarsi gare internazionali a danno e scorno degli Europei. Sempre il Sunday Telegraph ci informa che il 22 febbraio il nuovo rapporto su Echelon sarà discusso dal Parlamento europeo, mentre ancora il governo americano e la Nsa, il servizio che sovrintende alla rete di ascolto segreta, si rifiuta di rispondere alle interrogazioni già più volte avanzate dall'Unione europea.

Se di là dell'Atlantico si è forse interessati a sollevare polvere e allarme su questo o quella presunta emergenza militare o informatica, da questa parte dovrebbe esserci il massimo interesse a diradare le nebbie. Sarebbe bene per gli Europei prepararsi a dovere all'appuntamento del 22 del Parlamento europeo. Si tratta di materie che potrebbero contribuire, se ben affrontate, a rimettere con i piedi per terra quella Conferenza intergovernativa sulle future istituzioni europee partita così male: cieca, sbilenca e per di più infetta dal "mal austriaco".

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